Nando Mainardi narra il percorso artistico di Jannacci in un interessante inquadramento storico e critico, conciliando l’aspetto “schizo” e quello lirico nel principio dell’esagerazione. L’autore emiliano racconta sfaccettature, curiosità e contraddizioni di un emblematico artista milanese vicino alla sensibilità degli esclusi.
Sei già stato autore della biografia Jannacci, il genio del contropiede (2012). Quale è stata la scintilla per la stesura di questo nuovo libro?
«Il genio del contropiede era una breve e agile biografia scritta in un periodo in cui ancora si conosceva pochissimo del percorso artistico di Jannacci, di cui mi sembrava utile mettere in evidenza alcuni momenti. Con questo nuovo libro invece c’è il tentativo, più pretenzioso, di provare a narrare con più ritmo e vivacità di scrittura la vicenda artistica di Jannacci, come una storia nella quale conta tanto il protagonista quanto il contesto storico-culturale composto da altre figure che, con lui, hanno condiviso una fase significativa nell’evoluzione della canzone, della comicità e del modo di fare spettacolo in Italia. Solo alla luce di questo contesto si può capire come Jannacci sia stato tanto in prima linea rispetto a numerosi fenomeni artistici quanto un innovatore senza eguali, portando aspetti totalmente anomali. É stato un viaggio nella bibliografia precedente, a partire dal fondamentale saggio di Gianfranco Manfredi di fine anni ’70, fino alle pubblicazioni più recenti e naturalmente fonti di archivio giornalistico, più una serie di chiacchierate con suoi colleghi delle stagioni del cabaret».
Niente agiografia ma un uomo raccontato il più umanamente possibile: quali sono stati i suoi meriti artistici riconosciuti?
«Fu una personalità assolutamente complessa ma unica: né prima né dopo di lui esiste qualcuno di paragonabile nel mondo dello spettacolo e della canzone. Aveva una capacità magica e goffa di toccare contemporaneamente i tasti dell’ironia e del dramma, pratica assolutamente inedita nel periodo del cantautorato anni ’50. Tenco, Paoli, Gaber e Lauzi già stavano cambiando il modo di cantare e in questo quadro di stravolgimento Jannacci riesce a risultare ancora più stravolgente: sul palco si dimena a scatti come un burattino mattoide cantando canzoni gracchianti e tragicomiche, surreali ma drammatiche e per di più senza riferimenti precisi ad una tradizione, insomma quanto di più lontano dalla modalità sanremese. Stesso elemento che si ritroverà anche nel suo contributo alla comicità, quale trascinatore creativo della grande stagione del cabaret milanese di fine anni ’60, superando lo stile barzellettiero da avanspettacolo con un gusto quasi beckettiano, che diventerà poi di massa negli anni ’70».
Una carriera che, come tante, ha avuto alti e bassi creativi: oltre alle luci quali sono le ombre?
«A parte qualche episodio di popolarità come Vengo anch’io no tu no (1968) o Ci vuole orecchio (1980), rimase quasi sempre un fenomeno di nicchia, non ha mai venduto tanti dischi, così come dal punto di vista televisivo e cinematografico è sempre rimasto un po’ al palo rispetto alle sue scoperte o ai suoi “allievi”. Forse perché legato ad alcuni tempi, modalità espressive e un senso del comico difficilmente spendibile in quei contesti. Jannacci ha avuto una carriera molto lunga con diversi cicli creativi, fasi di ispirazione e di stanchezza, soffrendo in particolar modo i cambiamenti avvenuti negli anni ’80 nel mondo discografico, soprattutto per chi, come lui, cercava di proporre un certo tipo di canzone. Il rischio del creativo inquieto è sempre quello di perdersi senza legarsi in maniera esclusiva ad un settore: era eclettico ma questo aspetto paradossalmente lo indeboliva senza permettergli di trovare un suo spazio».
In termini di immaginario collettivo, oggi quale delle diverse immagini di Jannacci si è imposta di più?
«L’immagine che si impose subito fu quella legata al tormentone transgenerazionale Vengo anch’io no tu no, cosa che non entusiasmava Jannacci. Anzi fu spesso fonte di insofferenza e incazzature perchè si sentiva percepito solo come una macchietta. Quel personaggio stravagante d’altra parte non poteva non colpire l’immaginario collettivo di un pubblico che conosceva anche la sua altra professione di medico. E non a caso proprio dopo il successo di Vengo anch’io Jannacci ebbe una crisi artistica, professionale e forse anche umana, tanto da ritirarsi per qualche anno all’estero dedicandosi quasi a tempo pieno a fare il medico, pur rimanendo occultamente autore e regista di Cochi e Renato. Ciò però non ha impedito che, negli ultimi anni della sua vita, venisse chiamato maestro, riconosciuto come uno dei maggiori esponenti della canzone d’autore italiana. Pur sempre con qualche riserva: nel libro ad esempio cito dettagliatamente il caso del concertone del 1° maggio nel 2005, quando venne fischiato sul palco di piazza San Giovanni a Roma».
Perché la scelta del titolo “L’importante è esagerare”?
«La canzone L’importante è esagerare (1985) è stato il mio punto di partenza. Lo trovo un titolo pertinente sia perché lo stesso Jannacci riteneva quel refrain significativo rispetto al suo percorso artistico – tanto che fu anche intitolato così uno speciale televisivo a lui dedicato alla fine degli anni ’80 – sia perchè io stesso lo ritengo uno slogan che ben rappresenta l’essenza di Jannacci, il cantautore più esagerato della canzone italiana. E spiazzante: lo trovavi esattamente sempre dove non avresti mai pensato di trovarlo e al contrario puntualmente non lo trovavi dove te lo saresti aspettato. Penso alla sua insolita presenza a Sanremo alla fine degli anni ’80 oppure a Beppe Viola, suo storico sodale, che in un’intervista dichiarò: “Se la notte di capodanno Jannacci venisse chiamato a cantare davanti ad una platea distratta e ingioiellata sicuramente proporrebbe una serie di canzoni sui bambini poveri”. Ogni episodio della sua carriera porta in sé questo senso della dissonanza nel dare o dire sempre al pubblico ciò che non si aspetta: in qualsiasi contesto Jannacci poteva sembrare esagerato».
Tanti gli aneddoti e le testimonianze nel tuo libro. Se avessi potuto intervistarlo durante la stesura quale sarebbe stata però, tra tutte, la curiosità che ti saresti voluto togliere o la conferma di una tua certezza?
«Avrei voluto chiedergli de Gli Zingari, brano visionario e poetico ma minore, presentato in una edizione di Canzonissima. Una canzone che Jannacci non ripropose più in vita sua, probabilmente per delusione. Non so però quanto mi avrebbe confessato: spiegava poco nelle interviste, talvolta non ricordava neppure le parole delle sue canzoni, persino quando le cantava in concerto. La ricchezza di Jannacci comunque non si trova in un’intervista ma solo ascoltandolo».
C’è una canzone, tra tutte, che può essere considerata il manifesto di Jannacci?
«Da L’Armando a Vincenzina e la fabbrica a La fotografia Jannacci ha sempre assorbito elementi di cambiamento e li ha rielaborati secondo la sua poetica. Sicuramente però occupa un posto particolare El portava i scarp del tennis (1964): fu il primo successo discografico che lo fece conoscere al pubblico e la canzone che cantò fino all’ ultima apparizione dal vivo, passata nella storia della cultura italiana come controcanto alla retorica del boom economico della seconda metà del secolo scorso. Proprio in quella Milano ottimista e progressista del boom, Jannacci racconta in maniera tragicomica la storia di un barbone poteva anche morire di freddo tra l’indifferenza dei milanesi: un elemento emblematico in effetti, che va oltre l’ascolto di una semplice canzonetta».
A chi è rivolto questo libro?
«A chiunque volesse conoscere qualcosa di più di un piccolo ma rilevante pezzo di storia del nostro paese: tra i tentativi eroici e collettivi di cambiare alcuni tasselli dell’arte, dello spettacolo e della canzone da parte di un manipolo di artisti, comici, saltimbanchi e cantautori che sfidarono il conformismo, scoprirà anche il contributo e la personalità esagerata di un certo Enzo Jannacci».