Siamo oramai in prossimità della nuova edizione del Festival di Sanremo e per vecchi e nuovi appassionati della kermesse Musica361 ha intervistato Eddy Anselmi, storico giornalista e cultore della manifestazione come testimoniato dalle sue pubblicazioni.
Eddy, tu che sei stato appassionato autore dell’Almanacco illustrato della canzone italiana (2009) e di Sanremo 1951-2010 (2010) hai lavorato ad una integrazione di questi ultimi 10 anni?
«Sì, c’è un archivio che sto continuando a tenere aggiornato. Vedremo in che forma pubblicarlo e quando… Gli editori hanno i loro tempi. A questo punto punterei al 70° anniversario, mi piacerebbe molto».
Nelle due opere citate hai portato alla luce soprattutto aneddoti sconosciuti frutto di ricerche oppure si è trattato di un compendio di informazioni già note?
«Una via di mezzo. Mi sono reso conto che la storia di Sanremo era stata sempre narrata più o meno dalle stesse voci: i libri, prima del mio Almanacco, si sono sempre basati sulle stesse fonti, non c’era chi avesse fatto, almeno negli ultimi 35 anni, delle ricerche di prima mano, ovvero sui giornali dell’epoca. Allora, come amo dire, ho preso la macchina del tempo, mi sono cioè recato in biblioteca e ho fatto un viaggio nel passato dal 1951. Dalle mie letture sono emersi chiaramente aneddoti venuti dalla vulgata prevalente, permanente e preminente, però durante l’excursus si scoprono altre piccole curiosità. Ho cercato di dare vita ad altro materiale nel tentativo di diventare fonte e storia a mia volta e sentir dire o citare “Come diceva Anselmi…” Anche se talvolta alcune parti mi sono state contestate».
Per esempio?
«Nel 1980 Tv, Sorrisi e Canzoni non aveva il permesso di pubblicare i testi delle canzoni della RCA in gara: se si sfogliano distrattamente le pagine del giornale però si trovano comunque apparentemente inserite le liriche di quelle canzoni che in realtà sono solo parafrasi. Ho riportato questa osservazione nel mio Almanacco a sottolineare il potere che legava la Rizzoli a Gianni Ravera, patron del Festival ma un collega importante, recentemente scomparso, smentì questa voce argomentata nel mio libro. Non l’ho mai conosciuto di persona ma è stato meglio così piuttosto che legare il nostro incontro ad una polemica, sempre spiacevole».
Cosa è cambiato negli anni nella tradizione di fonti e testimonianze sul festival?
«Fondamentalmente il modo differente di raccontarlo. Una volta i giornalisti vivevano gomito a gomito con i cantanti, persino negli stessi alberghi, potevano stare in sala durante lo spettacolo: in questo modo era possibile raccontare la kermesse più da vicino. Si scopriva chi aveva alzato la voce, chi aveva stonato o litigato in prova, tutto era una forma di spettacolo e venivano svelati momenti impensabili. Dagli anni ‘90 questa dimensione è sempre più stata filtrata dagli addetti stampa. E oggi ad esempio se anche incontri per caso Annalisa stravaccata su un divano non può comunque dirti niente senza la sua addetta stampa. Con gli artisti accompagnati dal loro staff fino a sera in albergo è diventato più difficile ricostruire la parte più interessante, il “dietro le quinte” del festival».
L’Almanacco credo che sia stato concepito in modo da essere rivolto alle nuove generazioni. Qual è l’interesse delle nuove generazioni nei confronti di una rassegna sempre patinata, anche se svecchiata?
«I giovani hanno sempre un po’ vissuto il festival come una trasmissione riservata agli anziani. L’auditel dice che Sanremo è visto prevalentemente da sessantenni ma questa prospettiva non regge del tutto. Sanremo oggi è progettato per attirare un tipo di pubblico anche giovane, c’è spazio crescente alla musica contemporanea, è sempre meno un programma esclusivamente per anziani, già rispetto all’edizione del 2003 formata prevalentemente da vecchie glorie. Quest’anno compaiono solo tre artisti che hanno partecipato all’edizione del 1986».
Prendendo come parametro i presentatori scelti, quando il festival ha cominciato ad abbandonare la “vecchia formula”?
«Presto detto: quando negli anni ’90 la parola presentatore è stata sostituita dalla parola conduttore. Un passaggio, quello da presentatore a conduttore, che anche lessicalmente ha un preciso significato. Per definizione si presenta uno show che è di qualcun altro, chi lo conduce invece lo rivendica come suo e lo porta dove vuole. Baudo è stato in questo senso un simbolo, interprete di questo cambio. Un grande cambiamento che coincide col fatto che la Rai ritorna ad organizzare il festival e pertanto da spettacolo musicale tradotto in tv, diventa uno spettacolo televisivo fatto di canzoni».
Le canzoni continuano ad avere realmente un ruolo centrale all’interno del festival?
«Senza le canzoni crollerebbe tutto, sarebbe uno spettacolo noiosissimo. Provarono a fare una sorta di Sanremo senza canzoni nel 2006 e si stanno ancora leccando le ferite. Sai perché “Sanremo è Sanremo”? Perché è una gara canora e ci vogliono tante canzoni perché abbia successo. Poi tra una canzone e l’altra puoi inserire qualsiasi cosa, però senza le canzoni non avrebbe senso».
Quanto è diventato televisivo il festival rispetto alla manifestazione canora nata in principio?
«Sono due aspetti strettamente legati. È diventato un evento canoro importante perché trasmesso pubblicamente in tv. Poi è cambiata la tv e con essa Sanremo, a volte rimanendo indietro rispetto alle modalità televisive, altre ancora anticipandole. Una volta il festival, soprattutto trasmesso in radio, era fatto dalla discografia e oggi comanda la tv per i contenuti ma se domani i dischi tornassero a vendere tornerebbero a dettar legge gli impresari».
Oltre alle tue ci sono pubblicazioni sul festival che consigli per approfondirne la storia?
«Sicuramente La grande evasione (1980), primo libro che affronta Sanremo in maniera storico-sociale. La prefazione che tocca anche Gramsci e il concetto di nazional-popolare è molto politica e risente dei suoi tempi ma appena si parla di festival il testo torna ad essere leggero e leggibile. E poi Le canzoni di San Remo (1986, Laterza) di Gianni Borgna. È stato il primo ad avere un preciso approccio delineando il cambiamento di un’Italia attraverso il festival. Il metodo di disamina anno per anno è utile, anche se io non sono d’accordo con tutte le analisi di Borgna ma resta innegabile che sia stato il primo a sdoganare la “sanremologia” come scienza sociale e non solo come racconto del contemporaneo.
Poi bisogna citare l’Enciclopedia del festival di Sanremo di Adriano Aragozzini (1990), che ha messo insieme tanti dati e qualche imprecisione come può capitare da parte di chi compie operazioni di questo genere e ancora Tutto Sanremo di Leoncarlo Settimelli, giornalista che traccia un profilo dei primi 40 festival, con tanto statistiche e documentazioni. L’approccio di Sentinelli è stato uno di quelli che ho preso ed evoluto per comporre i miei libri. Sono partito da questi testi anche perché non avevo trovato informazioni simili in altri libri: Aragozzini e Sentimelli sono stati la mia Bibbia prima di cominciare il mio lavoro».
Nella bilancia tra intrattenimento e cultura, Sanremo pende più verso…?
«Sanremo ha sempre cercato di essere sia intrattenimento che cultura. Dopodiché quando sa intrattenere funziona, quando annoia non funziona. E proprio considerando ciò va sottolineato il peso e la responsabilità degli autori nel culto di Sanremo. Sono le figure meno note e secondo me dovrebbero non solo essere citate ma anche vincere dei premi. Tra tanti gossip e artisti restano “i militi ignoti” di Sanremo, quelli che davvero realizzano ogni anno questo show».