A tu per tu con il noto telecronista che, attraverso il suo appassionato racconto, ha saputo celebrare il mondo dello spettacolo a 360°
Non ama il termine “intervista”, preferisce chiamarla conversazione, lui che di questo genere di chiacchierate ne ha racimolate a migliaia nel corso della sua intraprendente carriera. «Cosa dovrei fare?» chiede, «dare seguito ad alcune domande» rispondo. Comincia così il mio dialogo telefonico con Vincenzo Mollica, abituato a porre interrogativi piuttosto che a generare risposte. «Non credo che la mia vita sia poi così interessante» afferma, ma chi si affaccia oggi a questo mestiere non è della sua stessa opinione. In un’epoca lavorativa in cui ci sono in giro pochi maestri, Vincenzo resta un esempio di onestà, competenza, anti-esibizionismo, professionalità, correttezza, curiosità, accuratezza, generosità, umanità e gentilezza.
Come si diventa Vincenzo Mollica? Ovvero un cronista che in tutto ciò che ha raccontato è riuscito a metterci sempre cuore e passione
E’ una domanda a cui non so rispondere, se non dicendoti che nel mio lavoro ho cercato di essere me stesso fino in fondo. Di metterci tutta la passione, la curiosità e la fatica che serviva per farlo bene. La voglia di scoprire nuove storie, di incontrare persone che potessero raccontarmi qualcosa di interessante e di utile, prima per me stesso e poi, soprattutto, per chi mi ascolta.
D’altronde Vincenzo Mollica ci sei diventato tuo malgrado, nel senso che non mi hai mai dato l’impressione di qualcuno che ha sgomitato per arrivare…
No, io non appartengo a quella categoria di sgomitatori (sorride, ndr). Fin da ragazzo mi piacevano il cinema, la musica, il fumetto, la letteratura, la pittura e la fotografia. Ho avuto la fortuna di occuparmi degli stessi argomenti da adulto, attraverso il mio mestiere e la mia professione. Da questo punto di vista, è come se avessi studiato fin da piccolo quello che volevo fare da grande.
Senza peccare mai di esibizionismo…
Pensa che per i primi anni non mi si vedeva quasi mai, o molto raramente, perché per me è sempre stato più importante il racconto, non ho mai messo la mia figura al centro. A parte qualche collegamento, non ho mai fatto i cosiddetti controcampi, perché mi ritenevo al servizio di chi avevo di fronte, nulla di più.
Ti si è visto quasi sempre di spalle, come si è evoluto nel tempo il tuo rapporto con la telecamera?
Non si è evoluto (sorride, ndr), fino a quando sono andato in pensione mi si è visto di spalle. A livello di inquadratura bisognava far vedere che il giornalista c’era. Una quinta a volte era necessaria, altrimenti poteva sembrare un servizio preconfezionato da terzi. Oppure per un collegamento in diretta, tipo sul balconcino di Sanremo dove, invece, svolgevo il ruolo di inviato.
Non era un vezzo il non farmi vedere, una ritrosia o una timidezza, era un mio modo di essere e di pensare. In questo genere di conversazioni c’è un solo un protagonista, il mio dovere era fare delle domande che mi portassero ad avere risposte interessanti e sincere. Il giornalista è un cronista e non un giudice, per cui non ho mai amato le interviste inquisitorie, soprattutto per quanto riguarda il mondo dello spettacolo e della cultura.
Qual è l’aspetto che più ti affascina nel raccontare storie?
Riuscire ad approfondire il senso dell’avventura umana. In quanto telecronista mi sono sempre reputato un cercatore e un narratore di storie, oltre a tutto ciò che questo mestiere porta con sé: la verità dell’interlocutore, la curiosità del fatto accaduto, l’emozione che quella stessa conversazione ti può dare. Quindi, cercare di raccontare il più possibile quello che hai vissuto nella maniera più sincera e vera.
Tra le storie che non avresti mai voluto raccontare, immagino ci sia questo particolare momento storico, il virus e tutte le sue conseguenze. L’informazione è stata un po’ criticata, quale ruolo ha ricoperto secondo te?
Sai, per raccontare questa terribile pandemia, non è che siano cambiate le regole del nostro lavoro, son sempre le stesse: andare, capire, conoscere e raccontare. Ho una grandissima ammirazione per i colleghi che si sono dati sul campo, cito Giuseppe Lavenia del Tg1, un ragazzo molto bravo che con grande generosità, altruismo, forza e verità racconta da tre mesi quello che sta accadendo.
Qual è la funzione dell’arte in questa ripartenza?
La funzione dell’arte l’abbiamo vista, fin da quando la gente aveva voglia di uscire sui balconi e dare segno che la vita continua. Tutti gli artisti che si sono messi insieme per combinare qualcosa, per scrivere e raccontare in musica questa situazione, per trasmettere solidarietà e sentirsi parte della stessa causa.
Un tuo pregio è sicuramente la correttezza, altrimenti non si spiegherebbero l’amicizia e la fiducia che hanno riposto in te attori, registi, cantanti, musicisti, poeti e fumettisti. In che modo sei riuscito a scindere sempre il lavoro dalla vita? Le notizie dalle confidenze personali?
In questi ultimi vent’anni, tanti diversi editori mi hanno chiesto di scrivere un libro con le mie memorie, la mia risposta è sempre stata negativa. Ho soltanto il titolo: “Prima che mi dimentichi di tutto”, per il resto sono solo pagine bianche. Perché ci sono chiaramente momenti di intimità in cui il tuo interlocutore ti confida qualcosa, chiedendoti di non riportarlo. Devi rispettare quella confidenza che ti è stata fatta, perché attiene al rapporto fiduciario che ti lega a quella determinata persona.
Mi reputo molto fortunato, Federico Fellini mi ha fatto un grande regalo nel donarmi la sua amicizia, come lui anche altri, ma non mi è mai passato per la testa di raccontare le loro confessioni private e personali. Non c’è un qualcosa di programmatico, non esiste una scienza, in questo caso ci deve essere solamente più coscienza. La scienza ti serve per sapere tutto dell’interlocutore che hai davanti, per potergli fare le domande giuste, mentre la coscienza sta nel rispettare una confidenza fino alla fine.
Se dovessi spiegare cos’è il Festival di Sanremo ad una civiltà aliena, quali parole utilizzeresti?
Una grande festa popolare, in cui si specchia un Paese intero, che da la dimostrazione di quanto sia importante la forma canzone per il racconto di quello stesso Paese. Evidentemente in quella gara di canzoni, oltre al piacere della musica e delle parole, c’è anche una narrazione storica. Se prendi in esame qualsiasi edizione passata, trovi sicuramente dei pezzi che ti spiegano il sentimento che si viveva in quel preciso momento. Sono sicuro che anche nel prossimo Festival di Sanremo, tutta questa rinnovata solidarietà si respirerà sul palco dell’Ariston.
Sei stato inviato della kermesse per la Rai dal 1981 allo scorso febbraio, da “Per Elisa” a “Fai rumore”. C’è un’edizione che ricordi particolarmente e una vittoria che ti ha commosso?
Guarda, l’edizione che ricordo e che ricorderò particolarmente è l’ultima, con Amadeus e Fiorello. Oltre ad aver creato un grande spettacolo, è stata un bella prova di amicizia l’uno nei confronti dell’altro. Poi c’è stato un momento personale che mi hanno voluto regalare entrambi, è stato molto emozionante per me, non mi era mai capitata una cosa di questo genere.
Sai, ho vissuto tutte le evoluzioni del Festival, sicuramente due protagonisti assoluti sono stati Pippo Baudo e Mike Bongiorno. Quando sono arrivato la prima volta a Sanremo c’era Gianni Ravera come direttore artistico. Gli chiesi che qualità dovesse avere una canzone per entrare a far parte del suo cast, lui mi rispose in modo molto diretto e semplice: “deve essere come una bella pisciata, liberatoria”.
Ecco, è stata una lezione che non ho mai dimenticato. Per quanto riguarda le vittorie, sai, non sempre corrispondono con le canzoni che ho più amato del Festival. Quelle che reputo speciali a livello personale, sono: “Piove” di Domenico Modugno, “Che sarà” dei Ricchi e Poveri e, infine, sicuramente “Vita spericolata” di Vasco Rossi.
Circondarsi di bellezza è un privilegio, tu hai voluto soffermarti sulle cose che più ti piacciono, tralasciando tutto il resto. Una scelta controcorrente se consideriamo l’andazzo odierno. Come pensi sia possibile che si critichi qualcuno che parla bene valorizzando una determinata cosa, piuttosto che indignarsi di fronte a chi parla ripetutamente male e tende invece a distruggere quella stessa cosa?
Di questo argomento che mi proponi, onestamente, mi sono sempre preoccupato poco, non mi è mai interessato molto. Ognuno fa le scelte che vuole nella vita, seguendo la prospettiva che desidera. Parlar male per professione non è mai stato il mio mestiere, sotto un profilo culturale lo reputo un esercizio narcisistico. Ho avuto la fortuna di crescere con una nonna che mi ha sempre insegnato a vedere il bicchiere mezzo pieno, mi viene in mente una sua frase che mi ripeteva spesso: “Vincenzino, ricordati di seguire e di occuparti delle cose che rimangono”. La grandezza dell’arte sta nell’emozione che riesce a trasmetterti, alla fine è un po’ come se tutti gli artisti fossero dei grandi illusionisti, l’incanto ha a che fare con la bellezza.
Quindi, a dispetto della famosa battuta di Fiorello, in tutti questi anni non ti è mai partita la “sciabbarabba”?
Direi proprio di no (ride, ndr). Quella del pupazzo è stata una grande invenzione di Rosario, quando me l’ha proposta ho accettato di doppiarlo senza esitare. Quel linguaggio è stato pensato e concepito da lui, in maniera molto precisa, io ho aggiunto qualche invenzioncina, perché quando si gioca è bello giocare insieme.
Circa vent’anni fa hai condotto per tre edizioni “Taratata”, un programma che avevi definito la casa della musica di qualità. In Italia è durato quattro stagioni, in Francia lo stesso format va avanti dal ’93. E’ una mia impressione o nel nostro Paese c’è sempre meno spazio per l’intrattenimento creato ad arte?
Sai, quella fu un’esperienza molto felice che realizzammo con Bibi Ballandi, alla conduzione con me c’era Natasha Stefanenko. Abbiamo avuto momenti irripetibili, ad esempio una puntata dedicata al filosofo Manlio Sgalambro e alla poetessa Alda Merini, oppure un’altra in onore di Franco Califano e Gabriella Ferri. Poi, piano piano, succede che le cose finiscono, i direttori di rete cambiano e vengono prese altre scelte.
Personalmente avevo alle spalle una bella esperienza con il Primo Maggio, che avevo condotto per ben quattro anni. Insomma, ho avuto la fortuna di fare tante cose che mi piacevano, ma non ho mai fatto l’abbonamento sui ruoli che ricoprivo. Ho sempre mantenuto come base fondamentale il mio lavoro da telecronista al Tg1, il resto che mi proponevano se era bello lo facevo altrimenti declinavo l’invito ringraziando. In più ho avuto la possibilità di proporre una rubrica tutta mia per ben ventidue anni.
“DoReCiakGulp!”, che hai portato avanti fino allo scorso febbraio, ogni sabato alle 13.50. Un appuntamento fisso per tanti italiani…
Si, è vero. Dopo la messa in onda dell’ultima puntata, nella quale mi congedavo dal pubblico, sono arrivati molti segnali di affetto per questa rubrica che chiudeva dopo così tanti anni.
In conclusione, se dovessimo riassumere la tua vita in un verso, quale sceglieresti?
Sceglierei un piccolo aforisma. Man mano che sto perdendo la vista sto usando molto Instagram, una nuova realtà che mi permette di esprimere in breve quello che mi passa per la testa. E’ un modo per raccontare chi sono, apparentemente giocando, ma sempre con la sostanza di ciò che penso.
Cercare un verso mi riporta alla mia infanzia, quando leggevo “Il corriere dei piccoli”. Mi piace questa forma di espressione a tratti fanciullesca, che può portare con sé tante riflessioni in due semplici righe in rima. Quindi, se dovessi fare un riassunto di quello che ho combinato fino ad ora, direi: “Omerico non fui per poesia… ma per mancanza di diottria”.