Guardo avanti, ma non mi piace iconoclastia. Amo la semplicità, non la banalità
Paola Iezzi da oltre vent’anni ormai ci fa danzare con canzoni innovative nate dopo accurate ricerche musicali e antropologiche. La sua musica esprime sempre una filosofia, un incontro con la parte più mistica dell’anima. Lo conferma il nuovo brano Mon Amour, che tra beat e melodia pop unisce la sua parte più moderna e quella più classica.
Rinascita, libertà, abbandono. Sono i temi che Paola Iezzi toccava già nell’estate 2000 insieme alla sorella Chiara (oggi attrice) con il tormentone più scoppiettante del decennio. Questa volta lo fa con uno sguardo diverso: nel frattempo la vita si è trasformata con i social che hanno influenzato la nostra comunicazione. È lei stessa a raccontarci come sono cambiate le cose dai tempi di Vamos a bailar, nostro viaggio nella storia dei tormentoni estivi.
Paola Iezzi, Vamos a bailar fu bocciata a Sanremo ed esplose in estate. Bella rivincita.
Presentarlo in estate fu una salvezza perchè lì trovò la sua espressione massima. In Svezia per primi ci chiesero una versione in lingua inglese. Quindi la cantammo in spagnolo. Fu un successo incredibile, eppure in Italia inizialmente non partì benissimo.
Come mai?
Non so, non la trasmettevano in radio, ci guardavano con scetticismo.
Vari discografici ci consigliavano di cambiare singolo.
Noi invece ci credevamo e decidemmo di restare su quello: dopo qualche settimana la canzone era prima ovunque.
Divenne un tormentone. Ti dà fastidio il termine?
No, è una parola di uso comune. Spesso però la si associa a canzoni che hanno finito con l’annoiare un po’. Di Vamos a bailar, invece, non l’ho mai sentito dire: ha delle caratteristiche melodiche, armoniche e vocali coinvolgenti. Viene ancora ballato e cantato a squarciagola a distanza di vent’anni.
Qual era il punto di forza del testo?
E’ una canzone liberatoria. Arrivava il nuovo millennio: c’erano tante aspettative, proiezioni sul futuro. Ci lasciavamo alle spalle il passato per dedicarci a una vita nuova.
A distanza di vent’anni cosa è cambiato? Le aspettative sono state realizzate?
Abbiamo creato una tecnologia che va più veloce di noi
e forse non sappiamo bene maneggiare rischiando ci torni contro. Tutto si è rivoluzionato: viviamo il costante conflitto tra l’essere sempre performanti e perfetti e la voglia di conservare la nostra privacy. In un’epoca in cui questa non esiste più: viviamo sempre con l’ansia di mettere in piazza tutta la nostra intimità.
Questo è il lato più negativo. Quello più positivo?
La stessa tecnologia ci permette, per esempio, di realizzare un pezzo in poco tempo. Settimana prossima uscirà il videoclip di Mon amour. Fare video è complicatissimo, perchè in tre minuti deve emergere un grande lavoro di persone coinvolte nel progetto. Eppure oggi bastano la persona giusta e un po’ di gusto e nascono video low budget veramente belli.
Quindi come vent’anni fa, tutto sommato ti lasceresti alle spalle il passato?
Non resto mai nel passato: bisogna sempre andare avanti. Non mi piace però nemmeno la tendenza all’iconoclastia. La cultura è tale perchè esiste un passato da cui attingere e imparare: non va distrutto, perchè sennò si uccide la cultura. Bisogna tenere vivi i ricordi del passato senza lasciarci intrappolare da esso.
Difficile, ma è l’unica strada. Il passato è la base del futuro.
L’uomo tende a dimenticare tutto e a non imparare nulla, disse Guccini: sono d’accordo.
I riferimenti del passato ci servono a vivere meglio: l’iconoclastia fa esattamente come quello che faceva il nazismo. Un nuovo periodo oscuro non ci farebbe certo bene: dovremmo pensarci di più.
Ora sei tornata con un nuovo progetto molto sofisticato: Mon Amour, ovvero l’amore ai tempi dei cellulari.
Nasce in concomitanza con il progetto di LTM (cantata insieme a Miss Keta, ndr). Con lo stesso produttore (Stefano Riva) e lo stesso autore del brano (Simone Rovellini) abbiamo dato vita a questo brano, che mi ha convinto sin dal suo stato embrionale. L’anima di un pezzo bello la senti subito: Mon amour è semplice, ma non banale. C’è una grande ricerca dietro. Si parla proprio di come sia cambiata la comunicazione.
Qual è la sottile differenza tra semplicità e banalità?
La semplicità è un concetto alto: persino la cucina può essere semplice ma sublime. La banalità deriva da tante superficialità messe insieme per descrivere la moda del momento. Ci sono team di menti diaboliche con grandi investimenti dietro a certi progetti. Così la canzone arriva subito, per essere presto dimenticata. Io ho sempre creduto in valori diversi.
Quale caratteristica deve avere un bel pezzo per Paola Iezzi?
Anzitutto deve essere musica: deve esprimere una cultura, lontana dall’ovvio e dalla banalità.
Oggi l’arte spesso diventa un grande spot pubblicitario.
Sono consapevole che viviamo in un mondo molto aggressivo: se non si hanno alle spalle certi sponsor, tutto è molto più difficile. Ma quello che verrà fuori dalla mie canzoni me lo sarò sempre sudato con dedizione. E sono orgogliosa.
E’ un po’ che non ti vediamo più fare album…
Ho abbandonato il concetto di album: è un investimento impegnativo. Sono indipendente, con una mia piccola etichetta in cui lavorano tanti collaboratori. Tra questi Stefano Riva: un giovanissimo produttore di talento con cui condivido il modo di interpretare la musica. Mi fido molto del suo parere: è stato bello cantare anche con lui in studio.