In viaggio con il “vulcanico” fotografo dei Vip Iwan Palombi, il fotografo che “colleziona” espressioni
Iwan Palombi, figlio di un “paparazzo” di professione, rimane folgorato dal lavoro e dal magnetismo di Rino Petrosino. Iwan è vulcanico e capace di gestire anche i personaggi più complicati. I Vip, non amano perdere tempo in shooting, perché hanno altro da fare.
Lui, però, li incanta con i suoi modi sicuri, i suoi “fiumi di parole”, riuscendo in poco tempo a fare il meglio. Probabilmente della professione di suo padre, gli è rimasta quella capacità di cogliere l’attimo dei fotografi d’assalto.
Ha avuto il privilegio di essere su set cinematografici importanti, incontrare tante persone che –dice-gli hanno regalato tanta energia della quale lui, ha fatto tesoro. È un esteta, attento ai particolari. Cura personalmente e con maniacale attenzione, l’illuminazione, gli arredi e anche i profumi d’ambiente di casa e le sue donne, la moglie e le figlie gemelle, lo lasciano fare.
Iwan Palombi: fotografo per passione o per caso?
Sono nato il 9 aprile in Germania, ma di tedesco mi è rimasto solo il nome. Sono arrivato a Roma che avevo quattro anni. Mio papà faceva il paparazzo ma a me non piaceva proprio quel modo di doversi appostare, scavalcare cancelli per “rubare” scatti.
Per questo, quando ancora frequentavo il liceo, volendo arrotondare, mio padre mi mandò da Rino Petrosino per fare un’esperienza lavorativa. All’inizio ho fatto per lui lo “schiavo”, senza minimamente parlare di fotografia per almeno sei, sette mesi.
Poi un giorno, per caso, dissi qualcosa riguardo al posizionamento delle luci su un set. Lui mi guardò e capì che c’era qualcosa da tirare fuori. Da quel momento cambiò tutto. Negli anni ’90 ero “paraculo” e bravino, poi ho voluto e preteso da me di più.
Sono stato con lui ventinove anni, che mi hanno formato non solo come fotografo, perché in sostanza vivevo con lui, ma anche come uomo, tanto che lo considero come un padre. Al mio matrimonio ho una bellissima fotografia stretto tra lui e mio padre, a sottolineare quanto sia stato importante per me.
Perché fotografo e non “paparazzo”?
Perché mi piace l’incontro, la contaminazione, quello mi rimane addosso. A mio padre dissi che non volevo scavalcare cancelli come lui, ma suonare i campanelli e essere protagonista. Quella del paparazzo è una vocazione all’ingegno. Per esempio so di uno che è riuscito a fare scatti esclusivi al matrimonio di un super- vip, travestendosi da prete con la go-pro sotto la tunica seduto in prima fila, indisturbato. Questo è un genio! Però, non fa per me. Io voglio essere invitato e non imbucato, è una questione di vocazione.
Cosa ti ha insegnato Rino Petrosino?
La mia ammirazione per lui sfiorava l’emulazione, volevo diventare come lui che era, oltretutto, un bell’uomo e faceva stragi di donne. È stato il mio mentore e, forse, mi ha fatto anche da padre. Mi ha comprato il primo completo blu e le prime Churchill, insegnandomi tutto. Ho imparato a conoscere ogni cosa di lui, tutti i suoi umori. Grazie a Petrosino, ho capito di dover diventare “bipolare”, non per caso o sciagura, ma per scelta. È fondamentale, infatti, gestire le proprie emozioni, cercando di essere sempre gentile e carino, senza perdere “polso” e fermezza. Ho imparato a essere PR di me stesso. Ho avuto la fortuna di lavorare su molti set cinematografici, incontrando tantissime persone: ognuna di loro mi ha lasciato qualcosa, contaminandomi.
Tra i tanti set, le persone incontrate, chi ricordi in particolar modo?
Ricordo, quando giovanissimo, nell’89 fui mandato a Tunisi sul set di Un bambino di nome Gesù di Franco Rossi con la grande Irene Papas nel ruolo di Maria. Sono entrato in scena e ho cominciato a scattare a raffica. Ad un certo punto la Papas, stizzita, mi dice “Basta!
E’ appena morto mio figlio!”… La guardai male, perché non capivo la sua irritazione, visto che ero lì per quello. Dopo, mi venne vicino e molto carinamente, mi spiegò come dovessi cercare di capire quale fosse la scena che si stava girando e il “pathos” del momento, sottolineando il fatto che dovessi essere parte e non elemento di disturbo. “Devi chiedere– disse- scegliere il momento giusto, entrare nella dinamica del set, farne parte”.
Un insegnamento che portai via con me e un ricordo indelebile di quel momento. Sono stato, in Russia per il film Il proiezionista di Andrej Koncalovskij, con Bob Hoskins, quando ancora erano in presa diretta e in pellicola. Potrei andare avanti per ore perché sono stati tantissimi e ognuno di quei gruppi di lavoro, mi ha lasciato qualcosa.
Ogni set è come una famiglia dov’è importante capire quale sia il proprio momento, quello della foto, del truccatore, del tecnico delle luci, del fonico. Una famiglia che è un’orchestra, dove si suona tutti insieme, per creare armonicamente un’unica sinfonia.
Iwan, cosa mantiene vivo questo “fuoco” questa passione?
Sono curioso, mi piace guardare avanti, oltre. Dico ai giovani, valutate il vostro lavoro, non accettate di lavorare per poco e niente, perché pregiudicherà il lavoro di tutti. Potenzialmente, esco la mattina, pensando che sono un uomo licenziato, dopo un servizio sono occupato ma subito dopo, di nuovo senza lavoro. Una sorta di zingaro, ma è questa “fame” questa voglia di fare, che mi appaga. Mi piace dover ricominciare ogni giorno, rimettermi in gioco e non dare niente per scontato.
Quando guardi nell’obiettivo, cosa cerchi?
L’espressione, l’occhio, deve essere connesso con me. Altrimenti non mi diverto. Devo creare una connessione in tre minuti. Non ho bisogno di carburare per tanto. Mi piace dare il massimo anche in poco tempo. A Sanremo dove con Sorrisi facciamo il back stage, quest’anno con le restrizioni, era davvero complicato. Mi hanno mandato dietro, dicendomi di avere solo dieci, undici minuti per farlo. Ho rotto, come faccio sempre, le palle a tutti, inventando situazioni, tipo siediti sullo scatolone, mettiti là, insomma costruisco. Il personaggio non ama darsi, non gliene frega, di farsi fotografare.
Quando Carlo Conti fece il testimonial per Wind, mi convocarono chiedendomi di quanto tempo avessi bisogno. Risposi che sarebbero bastati una cinquantina di minuti per tutto lo shooting. Vennero in cinque sul set, increduli e quando dopo quaranta minuti, dissi di aver finito, Carlo disse rivolgendosi a loro: “Avete capito perché ho voluto lui?”.
Se idealmente, il tuo fosse un viaggio, quale sarebbe?
Un’esplorazione: una continua partenza verso cose e persone inaspettate, alla ricerca di energia in ogni dove, lasciandomi travolgere dalla loro forza. Indimenticabile, tra i tanti, quello con Mariangela Melato, con Paola Turci (un vero viaggio in ambulanza), subito dopo l’incidente. Ognuno è un lungo viaggio, che lascia segni indelebili e la voglia di ripartire per farne un altro. Ho il privilegio di fare un lavoro, che mi fa sentire giovane, non essendo mai ripetitivo ma sempre nuovo. Ti rimane di tutti qualcosa, che sia un truccatore, un tecnico delle luci, un attore o un regista. Se ci stai bene dentro, hai vinto.
La musica, che ruolo ha nel tuo lavoro?
È fondamentale, ascolto dalla musica House, a Chiara Civello, Dire Straits, Skunk Anansie, Gipsy King, Pino Daniele o Mango. Parto da Sanremo, ogni anno, che odio questa musica. Arrivo a Roma che ascolto solo quella. Quest’anno poi Amadeus, credo abbia fatto centro, con una selezione fortissima di canzoni e pochi giorni fa l’ho chiamato per dirgli proprio questo. La musica non potrebbe non essere importante, visto che ho all’attivo trent’anni di Festival come fotografo ufficiale da palco. L’edizione 2021, rimarrà nella storia per tanti motivi, non ultima la copertina di Sorrisi che è frutto di un montaggio di scatti fatti in gennaio, non potendo evidentemente, realizzare una foto d’insieme.
La copertina di Sorrisi con Alberto Sordi è un pezzo di storia italiana e l’hai fatta che avevi solo vent’anni. Ci racconti com’è andata?
Avevo vent’anni e Petrosino era all’estero, Sordi faceva settant’anni e quindi fui costretto a sostituire il mio capo. Non chiusi occhio tutta la notte, pensando alla macchina a lastre che avrei utilizzato e la responsabilità che avrei avuto nei confronti del settimanale tra i più importanti del momento, consapevole che avrei rischiato il fondoschiena. Andai a prenderlo e nonostante la mia preoccupazione, filò tutto liscio. Il giorno dopo mi chiamò per chiedere se fosse tutto a posto o se avessi bisogno di rivederlo. Un grande uomo!
La Carrà?
La Carrà è un personaggio fantastico, che incontrai la prima volta facendo l’assistente in studio. Poi nel 2015, mi fu detto che dovevo fare Forte Forte Forte, che ero l’unico e che mi toccava la Carrà, con l’avviso che era davvero molto tosta. Naturalmente mi terrorizzarono e mi diedi del coglione da solo per avere accettato. Intorno a me c’è una gran folla, m senza perdermi d’animo, la ubriaco di parole, ci piacciamo e da lì ho fatto molto altro con lei dal secondo Forte Forte Forte, a The Voice e anche il disco.
Se dovessi dare una definizione di te, cosa diresti?
Che sono alto, magro e sportivo. Sono timido, anche se può sembrare strano e non mi piace auto definirmi. Lascerei due righe in bianco, lasciando agli altri il compito di farlo.
Il nostro incontro, si chiude qui ma potrebbe andare avanti all’infinito. Voglio riempire quelle due righe bianche: Ipnotico, al punto giusto, riesce ad attirare l’attenzione con intelligenza e savoir-faire, impossibile sfuggirgli. Rino Petrosino aveva visto giusto, questo è talento.
Articolo a cura di Paola Ferro