Andrea Mirò racconta la sua vita da direttore d’orchestra
Autrice, produttrice, polistrumentista, interprete inconfondibile che ha sempre lasciato il segno nelle sue partecipazioni sanremesi (la prima nell’87, con Notte di Praga, poi nel 2000 con La canzone del perdono quindi nel 2003 con una delle perle più preziose di sempre, Nessuno tocchi Caino in coppia con Enrico Ruggeri).
Andrea Mirò, al secolo Roberta Mogliotti, è una delle artiste più fantasiose e poliedriche del nostro panorama musicale: a dispetto della sua discrezione sui social, non si ferma mai tra tantissimi progetti. Lo scorso anno fu lei a riaprire la stagione del Teatro Menotti a Milano con lo spettacolo Far finta di esser sani di Giorgio Gaber; autrice di un docu-live su Woodstook con Ezio Guaitamacchi, ama sperimentare unendo stili e mondi che nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere insieme.
Andrea Mirò arriva quasi sempre per prima rispetto a tutti gli altri.
È infatti una delle pioniere nella direzione d’orchestra al femminile al Festival di Sanremo, negli ultimi anni si è distinta anche per la direzione di un’opera da camera multimediale di musica contemporanea. È lei quindi la nostra seconda ospite della rubrica Musica Maestro.
Andrea Mirò, quest’anno festeggi vent’anni da direttrice d’orchestra. Come ricordi la prima esperienza dirigendo te stessa nell’album Lucidamente?
Fu una di quelle emozioni talmente grandi da doversi sfogare in una risata o in un pianto finale: in quel caso corsi in bagno a ridere. Era la prima volta che facevo qualcosa di così importante per me! Una gioia infinita: quello che avevo immaginato nella mia testa, scrivendo la musica, era realizzato concretamente!
Nel 2002 coautrice di Primavera a Sarayevo (“La balalaika”) con Enrico Ruggeri a Sanremo, nonché esordio all’Ariston alla direzione d’orchestra. Cosa voleva dire per l’ensemble farsi dirigere da una donna?
Notai subito una certa diffidenza nei miei confronti: erano abituati a certe facce, quasi sempre maschili, almeno fino a quel momento. Oltretutto ero stata in gara nei Giovani due anni prima: qualcuno quindi faceva domande più o meno mirate sperando di sorprendermi in trappola: “Scusi Maestro, come mai c’è una battuta in meno?”. Non era possibile, però, che avessi sbagliato: l’avevo scritta io!
Te l’aspettavi?
Essendo cresciuta in una famiglia che mi ha sempre insegnato non ci fossero differenze tra uomini e donne, non avevo mai nemmeno ipotizzato che qualcuno potesse avere quel tipo di atteggiamento. Ma ero sicura di me.
Com’è Andrea Mirò direttrice d’orchestra? Severa?
No, non mi piace riprendere gli orchestrali davanti a tutti, specie a Sanremo dove si viene già spremuti come limoni: so benissimo che si può essere stanchi, anche perché si entra nei pezzi ogni volta sotto la mano di qualcuno di diverso, con gesti differenti.
Quali sono i tuoi tratti distintivi nella direzione d’orchestra?
Direi che Andrea Mirò è un’amanuense: ho un segno grafico preciso che sembra stampato e mi piace scrivere sul pentagramma.
Questo mi aiuta in una certa precisione per cui, se ci sono errori, li ritrovo subito! E poi quando dirigo mi piace farmi coinvolgere dall’energia della musica: tengo il tempo quasi ballando!
È vero, si evince spesso quella tua capacità di trasmettere la musica che stai vivendo mentre dirigi.
Il linguaggio del corpo è il punto di riferimento del direttore d’orchestra: l’obiettivo finale è che sempre gli orchestrali si divertano mentre suonano qualcosa. Divertirsi vuol dire “suonare”, essere dentro al pezzo. Naturalmente con il rock di musica da camera contemporanea non potevo ballare: ero concentrata a contare continuamente per i repentini cambiamenti di tempo!
Nel 2010, sempre a Sanremo, seguisti anche Nina Zilli. Dirigere la musica composta da altri quali limiti implica?
Il lavoro che si fa in quei casi è di ricerca, a partire dalla comprensione di quello che l’artista vorrebbe, che suona nella sua testa. Solo che, a volte, presi dall’entusiasmo, gli artisti inserirebbero qualunque strumento con idee impossibili da realizzare da qualunque orchestra del mondo, anche perché non è ammesso usare il computer. Quindi, nella lettura e nell’ascolto che si fa insieme, si porta avanti un esercizio “diplomatico”: si riscrive da capo la partitura cercando di venire incontro a chi l’ha composta.
Al Festival, con intonazioni dal vivo non sempre perfette per l’emozione, la differenza spesso la fa proprio l’arrangiamento orchestrale…
Questo vale molte volte, anche non è una regola: la parte del direttore non è mai contemplata come si dovrebbe e, in certi casi, è comunque impossibile lasciare la propria impronta. A Sanremo è l’artista a mettere in luce il meglio di sé con un pezzo che lo rappresenta.
Dirigere un’orchestra vuol dire entrare nel pezzo. Quindi si è emozionati quanto il cantante?
No, sono sensazioni diverse: il cantante è concentrato solo sulla personalissima performance, dove sa che è proprio il direttore d’orchestra a dargli sicurezza. Il direttore non può permettersi di avere incertezze e deve tenere tutto sotto controllo.
C’è un episodio in cui hai dovuto mascherare una certa difficoltà?
Mi capitò nel 2014 con i Perturbazione: fino all’ultimo non si sapeva quale cover si sarebbe fatta. Una volta scelto il pezzo (La donna cannone, ndr), avevamo solo due prove a disposizione: un giro di lettura e una prova del brano: praticamente solo dodici minuti in totale. Tutto questo la mattina stessa dell’esibizione! Scrissi al volo con la matita le parti, con la freddezza assoluta che era necessaria. E venne un bel lavoro.
Chiudiamo pensando che sono passati quasi vent’anni da quella partecipazione a Sanremo nel 2002. C’è ancora quella diffidenza nei confronti di una donna alla direzione d’orchestra?
Sono cambiate tante cose in tutto questo tempo. Io credo, tra l’altro, che una donna abbia dalla sua parte un’empatia e un’energia che la contraddistinguono.
Dirigere è un’emozione difficile da esprimere, sublime: ci sono tante persone insieme in una palla di energia pazzesca. E una donna mette in moto tutti giorni tanta energia: è il cardine delle famiglie, abituata a dialogare senza parole, ma solo con anima e corpo con il figlio che porta in grembo. Ha la struttura per farlo.