Il Maestro Stefano Zavattoni si racconta: “Con la Big Band volevamo andare oltre la musica di servizio. Ci riuscimmo…”
Stefano Zavattoni rappresenta la certezza che credere nei propri sogni è l’unico modo per realizzarli. Il suo motto è “La musica è una conquista, un privilegio e un dono”: lui a quella conquista ci è arrivato davvero dopo anni di studio intorno a una passione che la vita gli aveva regalato sin da bambino.
Come ci racconterà lui stesso in questa nuova puntata di Musica Maestro, Stefano Zavattoni ha iniziato a studiare musica giovanissimo per diplomarsi al Conservatorio di Perugia a 23 anni diventando così un pianista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra di riferimento per i più grandi della canzone.
Nel 1997 ha creato la sua popolare Big Band per arrivare a proporre in poco tempo una musica diversa anche nei programmi televisivi: un ritorno alla vera orchestra, che non si limitasse solo al sottofondo di brevi intermezzi ma che sapesse trovare il coinvolgimento del pubblico strizzando l’occhio alle diverse epoche canore e soprattutto a diversi generi.
Tra gli interpreti diretti da lui anche Adriano Celentano, Il Volo, Fiorella Mannoia, Massimo Ranieri, Annie Lennox, Gianni Morandi, Ornella Vanoni.
Direttore d’Orchestra a diversi Concerti di Natale in Vaticano, oltre che per qualche colonna sonora, Stefano Zavattoni è cresciuto con il mito di Glenn Miller, in onore del quale ha diretto per tanti anni un omaggio patrocinato dall’Ambasciata USA di Roma.
Un esempio di umiltà e professionalità come strumenti necessari per raggiungere risultati che si immaginano impensabili.
Stefano Zavattoni, con questa rubrica stiamo raccontando chi sia davvero un Direttore d’Orchestra. Sei pronto?
Impresa ardua! Il grande Gianni Ferrio, dopo tanti anni di carriera, una volta disse in un’intervista: “Vorrei far capire alla gente che mestiere faccio”. Ecco, in molti si chiedono ancora a cosa serva quel signore con la bacchetta. Anch’io da piccolo, purtroppo, pensavo che ogni direttore d’orchestra fosse uguale a un altro. Credevo avesse un ruolo quasi marginale.
Partiamo dal tuo percorso. Come ti affacci al mondo della musica?
Anzitutto ebbi la fortuna di avere in casa dei musicisti e di nascere con l’orecchio assoluto: mi bastava quindi un semplice strumentino di plastica per riprodurre le melodie che ascoltavo. Iniziai con i primi studi di musica, per poi approdare al Conservatorio e, a 23 anni, mi diplomai in pianoforte. Devo dire che raggiunsi quel risultato non senza fatica proprio “a causa” di quell’orecchio assoluto, che ti porta a fare un po’ quello che ti pare prescindendo dagli spartiti.
Non leggevi alcuno spartito?
Sì, in realtà mi appassionava leggere come venissero disposti gli strumenti in una partitura, ma sempre condizionato dall’orecchio assoluto che mi porto dietro sin da bambino. Mi iniziai ad appassionare alla scrittura intorno ai 15 anni ascoltando una cassetta di Glenn Miller: rimasi affascinato dal suono dei fiati e, da quel momento, per la mia prima mini band, cominciai a scrivere la musica per i fiati.
Una bella responsabilità sin da giovane. C’era qualcuno che ti dava consigli mentre imparavi?
Consigli ne arrivavano, ma si parte dall’idea per cui si impara continuamente per tutta la vita, quindi il primo critico deve essere lo stesso compositore che, ascoltandosi, capisce cosa non dovrà ripetere successivamente.
Proprio da alcuni miei stessi errori sul campo capii che dirigere l’orchestra è più complicato di quanto non immaginassi dall’esterno: quando un tuo gesto non ottiene il risultato richiesto, comprendi che non sei lì solo per chiamare gli strumenti ad entrare al momento giusto. Quel gesto bisogna che sia studiato e appropriato.
Nel 1999 con la tua Big Band arrivasti in prima serata su Raiuno ad animare gli spazi musicali di Torno Sabato. Come arrivò la conoscenza con Paolo Belli?
Con Paolo Belli fu un’esperienza molto importante. Dopo il servizio militare avevo deciso di mettere in piedi una Big Band con le persone disponibili del territorio: non mi interessava l’esperienza dei musicisti, ma il suono che erano in grado di fare emergere. Tra i componenti c’era un amico di Paolo Belli che, quindi, ci venne ad ascoltare, e ci coinvolse per un progetto assolutamente innovativo. Nel giro di sei mesi ci ritrovammo catapultati su Raiuno: il primo ospite fu Wilson Pickett, non so se riesco a spiegare l’emozione…
Lo possiamo solo immaginare! Come fu l’impatto con la tv per un autentico musicista a 360 gradi come te?
Non mi aspettavo ritmi così serrati: in quella trasmissione i tempi erano particolarmente stretti! Dovevo preparare arrangiamenti di notte per la mattina dopo: pensavo fosse la normalità, in realtà mi accorsi più tardi che, fortunatamente, non funziona sempre così. L’entusiasmo, però, era talmente tanto che ne vedevo solo il lato più bello: riuscivamo a esprimerci musicalmente come volevamo. Non era “musica di servizio”, come spesso oggi si sente dalle orchestre in tv: mi affidai alla mia piccola esperienza e ci portammo a casa belle soddisfazioni.
Che emozione rappresenta dirigere un’orchestra?
Oggi siamo abituati purtroppo a tante ritmiche fisse che fanno venire meno l’importanza del Direttore. Invece, quando ci sono i presupposti di un grande progetto, è un mestiere unico.
Dirigere le proprie musiche è la migliore possibilità, ma solo se si ha un minimo di conoscenza della direzione per dare il gesto corretto.
Un buon orchestratore deve fare dirigere a qualcuno che ha una conoscenza della direzione del brano, altrimenti se ne compromette la scrittura.
È più divertente dirigere o essere diretto?
Essere diretti permette di mettersi ancora di più in gioco per certi versi, ci si mette in discussione confrontandosi con il lavoro di un altro. Essere diretti da un buon direttore è quindi una grande soddisfazione, ma questo avviene solo con la musica classica: nella musica leggera il Direttore porta essenzialmente il tempo, quindi il trasporto emotivo è diverso.
Arrangiatore e Maestro di tanti Big della musica. Potendo scegliere, qual è l’esperienza professionale più emozionante della tua carriera?
Domanda difficilissima. Ma dico l’album con Fiorella Mannoia (A te, omaggio a Lucio Dalla, ndr), suonato in diretta al Forum Village di Roma. Quello mi appartiene probabilmente più di ogni altro lavoro: fu anche un’esperienza di confronto con grandissimi come Peppe Vessicchio e Pippo Caruso, il Maestro a cui mi sento di somigliare di più. In quell’occasione ognuno portava la sua esperienza, si sentiva la mano di ciascuno. Avevamo solo archi e un pianoforte, io realizzai cinque arrangiamenti.
Nel 2002 vincesti il Premio Barzizza per arrangiatori di orchestra ritmo-sinfonica. Un riconoscimento unico nel suo genere che, purtroppo, non si è più fatto. Lo vincesti a 32 anni: con l’esperienza di oggi ti piacerebbe riproporre un Premio così dedicato a un Maestro assoluto?
Magari! Quel Premio fu una grande emozione: rappresentava un’occasione perché il Direttore, in qualche modo, interloquiva con il compositore stesso. C’era un pezzo d’obbligo del repertorio di Barzizza, che arrivava al Direttore solo con una melodia e senza gli accordi per evitare ogni tipo di contaminazione armonica. Non si potevano usare sempre gli archi, quindi si era costretti a trovare strade diverse.
Elogiamo sempre gli americani, che hanno sicuramente grandissime melodie, diverse dalle nostre, ma noi siamo più vari e ci siamo dimenticati di questo nostro potenziale.
Un tempo si capiva subito che una musica era italiana: avevamo una sonorità completamente nostra. Non ci siamo mai limitati solo allo swing.
Progetti imminenti?
Non posso anticipare molto. Sto realizzando un progetto inedito con una bravissima cantante lirica napoletana su delle arie inedite. Presto arriveranno novità!