Musica a Teatro: Un artista che è un vero personaggio, geniale, originale, stralunato. Chi è, cos’è…e anche perché…. Ecco il nostro dialogo per conoscere meglio Foma Fomic!
Parlami dei tuoi inizi e delle tue difficoltà.
Iniziai a scrivere canzoni intorno agli 8 anni, e subito mi scontrai con la mia totale incapacità e pigrizia. Dimostrai sin dall’inizio di avere scarso orecchio musicale. Cantavo male. Eppure, io volevo solo scrivere canzoni e cantarle a tutti. Di più: volevo iscrivermi al conservatorio, come le mie compagne di classe. Ovviamente mi fu sconsigliato.
Troppa matematica nella musica, mi dicevano. E io con la matematica avevo dei seri problemi. A dieci anni scrissi una decina di canzoni in pochi giorni, nel tentativo di imitare i cantautori che ascoltavano i miei fratelli – tra cui Gaber, Bennato, Battiato, Alice, Baglioni e Barbarossa – e le registrai su una musicassetta accompagnandomi con una chitarra classica di non so chi, usando quasi solamente la mano destra perché non conoscevo nessun accordo tranne il Mi minore e pochi altri che mi ero inventato io.
Intitolai l’album “Sei un uovo“. Disegnai un uovo sulla copertina e lo feci subito ascoltare a mia sorella che si ribaltò dalle risate. Poi, tornato a Milano, lo feci ascoltare anche al mio amico e vicino di casa Filippo Solibello, il quale anni dopo divenne una star di Radio Popolare e poi di Radio2. All’epoca fu magnanimo nel non prendermi troppo in giro.
Ma la mia più grande ispirazione fu Marcello Pardieri (in arte Ugo Pard), grande amico e cantautore con cui tutt’ora ho il piacere di collaborare ed esibirmi dal vivo, autore anche di un brano (“E difficilmente poi“) che ho voluto inserire nel mio ultimo spettacolo “Foma Fomic nello Spazio“.
Ad ogni modo, convinsi i miei amici a formare una band, ma tutti rinunciarono quasi subito, visto che nessuno di noi sapeva suonare niente. All’epoca scrissi una canzone di cui mi vergogno ancora oggi, si chiamava “Pazzo ma no“.
I ragazzi più grandi del quartiere mi chiedevano di cantarla per il puro gusto di deridermi, perché l’interpretazione prevedeva una mimica facciale davvero folle. In quel periodo, intorno ai 13 anni, mi divertivo a cambiare i testi delle canzoni di Claudio Baglioni, convinto che queste mie trovate per me brillanti potessero in qualche modo convincere i miei amici a riprendere in mano mestoli, pentole rubate alle madri e mezze chitarre sgangherate per proseguire con il mio progetto della band.
Erano gli anni delle cassette pirata di Elio e le Storie Tese e degli Skiantos. Io sognavo di poter formare una band così: irriverente e divertente, senza compromessi. Con le parolacce. Poi, una sera, al termine dell’ennesima lezione inconcludente di pianoforte, decisi di imparare a suonare la chitarra elettrica.
Pensavo alla chitarra e alla musica giorno e notte in quel periodo. Avevo circa 15 anni ed ero talmente magro da sembrare malato. Negli anni successivi formai altre band e iniziai ad esibirmi con frequenza in tutte le feste scolastiche che mi capitavano a tiro. Non ero né un bravo chitarrista né un bravo cantante.
Allora, come puntualmente accade in questi casi, passai al basso e, finite le scuole superiori, mi trasferii a Londra dove suonai per anni in un promettente gruppo brit-pop che poi ovviamente non ebbe il minimo successo e si sciolse.
Questi i miei primi stentati passi nel mondo della musica e dello spettacolo. Poi tutto peggiorò ulteriormente.
Il ruolo di un artista oggi, secondo te?
Secondo me un artista oggi ha il difficile compito di rappresentare sul palcoscenico la vita senza i suoi “effetti collaterali”. È un ruolo difficile perché gli “effetti collaterali” della vita se li deve generosamente sobbarcare l’artista stesso, principalmente attraverso le difficoltà che incontra nel produrre arte.
La rappresentazione della vita senza i suoi “effetti collaterali” è il più grande dono che mi può capitare di ricevere da un artista quando vado a vedere uno spettacolo, così spero che chi viene a vedere i miei possa ricevere a ogni replica questo mio piccolo regalo. È una cosa faticosa e meravigliosa al tempo stesso e forse l’unica che sono in grado di donare a un altro essere umano.
Il tuo è cabaret? Teatro canzone?
Non è cabaret, anche se sicuramente ci sono delle influenze che provengono da quel mondo nei miei spettacoli. Probabilmente il genere che faccio si avvicina al Teatro Canzone, ma dipende molto dallo spettacolo: ad esempio mi capita spesso di fare concerti più tradizionali, con la band e con l’aiuto di tanti amici musicisti davvero eccezionali.
Lo spettacolo che sto portando in giro ora con Giacomo Fava e Rubynia Reubens – “Foma Fomic nello Spazio” – credo sia tecnicamente definibile come “commedia musicale”, a giudicare dalle pratiche SIAE che abbiamo compilato per il deposito dell’opera. Ossia uno spettacolo di teatro leggero che prevede l’utilizzo di canzoni cantate dal vivo a intervallare una drammaturgia che tratta temi inerenti alle canzoni stesse.
Si distacca, anche se non di molto, dal concetto del Teatro Canzone gaberiano, avvicinandosi in punta di piedi e in maniera molto molto minimale a ciò che viene definito “musical”. Tuttavia, confesso di non essere molto bravo con le definizioni dei generi. Ho sempre preferito i sottogeneri.
Passo il tempo a inventarmi nuovi sottogeneri con il solo vile scopo di propormi come artista di punta di un qualche sottogenere da me inventato, come ad esempio il nautico-romantico o il romantico-epistolare.
O il gastro-nautico-romantico, sottogenere che ho inventato per sbarcare il lunario durante EXPO 2015, senza peraltro riuscirci minimamente. È un mio vecchio tormentone, non riesco a fare a meno di parlarne ogni volta che mi si presenta l’occasione.
I tuoi riferimenti?
I miei riferimenti sono gli stessi di quando avevo 8 anni purtroppo. Forse è per questo che mi sento così spaventosamente fuori moda e fuori luogo. Gaber, Bennato, Battiato. Ma anche Elio, gli Skiantos, gli Squallor.
Oltre che il grande Marcello Pardieri di cui ho già accennato prima e il mio cantautore milanese in attività preferito che è Flavio Pirini, con cui ho avuto l’onore di dividere il palco in svariate occasioni.
In più credo di essere stato molto influenzato dagli ultimi album dei Beatles, anche se temo che non si percepisca affatto.
Che tipo di musica ascolti?
Recentemente ho venduto tutti i miei cd, salvandone un centinaio: sono rimasti i grandi classici del rock anglosassone, il glam rock e l’heavy metal americano anni 80 e 90, i cantautori italiani e qualche disco brit-pop anni 90.
In realtà amo e ascolto la radio per la maggior parte del tempo, quindi di fatto tutto e niente. Faccio un po’ fatica con i generi contemporanei e con la musica nera. Più in generale tollero quasi tutto tranne la tecno più estrema e il latino-americano.
Vado a periodi. Ho rivalutato molto gli Suede, i Blur e i Motley Crue. E anche Zucchero.
I tuoi ultimi spettacoli? Genesi e altri artisti coinvolti?
Come già accennato, l’ultimo spettacolo “Foma Fomic nello Spazio” è stato scritto con Giacomo Fava e portato in scena con Rubynia Reubens e ci sta dando molte soddisfazioni, tra cui un secondo posto al Nolo Fringe Festival lo scorso settembre.
Subito prima dell’impazzare della pandemia avevo scritto con Giulia Gennaro (che ha curato anche la regia) e portato in scena con Marina Ladduca (cantante strepitosa oltre che bravissima attrice) “Tanto poi si muore“, una commedia musicale sull’ipocondria e sulla paura della malattia e della morte.
Abbiamo fatto giusto in tempo a fare due repliche a fine gennaio del 2020. Addirittura, veniva nominato il termine “quarantena”, giusto per far capire quanto avessimo menato sfiga. Fu un successo.
Lo riproporremo presto. Fino al 2019 ho avuto anche il grande piacere di portare in scena sia a Milano che a Piacenza “Che poi ci si affanna” con la bravissima attrice e poetessa Liliana Palumbo, uno spettacolo che parla d’amore in maniera del tutto irriverente.
Prima ancora avevo scritto e portato sul palco diversi spettacoli accompagnato dalla band, cosa che faccio tutt’ora ogni volta che le condizioni lo permettono.
D’obbligo citare il mio storico batterista Stefano Tedesco, celebre nel nostro giro per la sua oggettiva bellezza oltre che bravura; colui che si è quasi sempre occupato degli arrangiamenti, delle registrazioni e delle produzioni degli album targati Foma Fomic: il grande maestro e bassista Stefano Mora; il chitarrista Grigo, che è anche un bravissimo cantautore e paroliere; la già citata Marina Ladduca, spesso in veste di corista, così come anche Letizia Martines e Monica Cadenini; Samuele Rampani, anch’egli bravissimo chitarrista e cantautore con il quale ho il piacere di collaborare da sempre; l’ultimo album, intitolato “Complichiamoci la vita“, registrato nel 2020 e attualmente scaricabile solo su Bandcamp, è stato curato dal grande chitarrista e produttore Luca Verde, con la preziosa collaborazione di Gabriele Bruno.
Insomma, queste innumerevoli collaborazioni hanno fatto sì che il progetto Foma Fomic divenisse con gli anni una specie di collettivo artistico e multidisciplinare di cui sono molto orgoglioso, soprattutto perché le persone con cui collaboro si divertono, si conoscono tra loro, hanno piacere a stare insieme, a passare del tempo con me per preparare gli show e poi salire su un palco, piccolo o grande che sia.
Ovviamente il Covid ha portato molte difficoltà e divisioni, ma personalmente preferisco sempre, nel limite del possibile, coinvolgere anche oggi altri artisti in ogni progetto che ho in mente e in ogni concerto che ho da allestire. Dispiace solo aver senz’altro dimenticato qualcuno nell’elenco qui sopra.
Cosa hai in programma per il futuro?
Mi sto dedicando a un nuovo spettacolo con Giacomo Fava e Rubynia Reubens. Come successe per “Foma nello spazio“, per la preparazione di questo spettacolo (che, molto probabilmente si chiamerà “Lo sbarco in Lombardia”) stiamo lavorando tra Milano e Genova, questa volta dando vita a una specie di parodia della Storia dal 1945 alla fine della Guerra Fredda (Guerra Tiepida, nel nostro caso). Penso che sarà molto surreale e divertente.
In più ho intenzione di continuare per tutta la stagione con il “Foma Furla Show” ogni giovedì sera presso il meraviglioso pub Maga Furla, in Bicocca: spettacoli informali in cui presento le mie canzoni, sperimento nuovi monologhi e, soprattutto, invito ospiti tra i più disparati. Anzi, se qualcuno volesse partecipare mi scriva in privato, ci sarà da divertirsi.
Tra le tante altre cose in cantiere, segnalo anche uno spettacolo che porterò in scena con tutti i miei amici pianisti e che ho intenzione di intitolare “Vacci Piano Foma Fomic“.
Più in generale, spero vivamente di tornare a performare quanto facevo fino all’inizio del 2020: questo è il mio vero obiettivo per il prossimo futuro. Una via di mezzo tra la sopravvivenza e la sopravvivenza, diciamo.
Come possiamo seguire la tua attività?
Foma Fomic: su tutti i social network. Oppure sull’incredibile fomico sito web: fomafomic.wordpress.com. Potete ovviamente vedere video ufficiali o chicche meno ufficiali sul canale Foma Fomic di YouTube.
In alternativa potete venire a trovarmi di persona il giovedì sera al Maga Furla. O, se proprio proprio, anche scovarmi su Tinder.
Perché questo tuo nome d’arte?
È il nome di un personaggio a dir poco grottesco di un romanzo incredibile di Dostoevskij, “Il villaggio di Stapancikovo e i suoi abitanti”.
Nel novembre del 2019, per Milano Music Week, ho portato in scena uno spettacolo intitolato “La vera storia di Foma Fomic“, in cui sono riuscito ad approfondire la questione dell’origine di questo nome d’arte, scomodando mostri sacri della letteratura come Leonardo Sciascia e andando a scovare – grazie alla preziosa segnalazione del mio amico Carlo Catturini – addirittura un’opera del pittore toscano Mino Maccari intitolata “Leonardo Sciascia presenta Foma Fomic a Voltaire & Voltaire presenta Leonardo Sciascia a Foma Fomic“.
Quello spettacolo fu impreziosito dalla presenza della consueta sezione ritmica composta dai maestri Mora e Tedesco e dalla magnetica performance di Elena C. Patacchini (scrittrice, drammaturga e co-autrice di ben tre testi di canzoni fomiche), che interpretò un monologo tratto da “Sogno di un uomo ridicolo” di Dostoevskij, per l’appunto.
Nonostante la sonorità del nome Foma Fomic mi sembrò da subito molto accattivante, si rivelò ben presto una scelta non proprio azzeccata, perché nessuno se lo ricorda mai e soprattutto nessuno ha idea di come pronunciarlo correttamente. Ormai mi accontento di qualsiasi pronuncia. Foma Fomick è un lusso. Arrivo ad accettare anche Foma FoNick. Sentitevi liberi, insomma…