“Fanny” melodramma in due atti del musicista Francesco Muraca, il bisogno di scrivere un’opera lirica
Francesco, sei attualmente professore d’orchestra al Teatro alla Scala di Milano. Qual è il tuo ruolo?
«Sono percussionista stabile dell’orchestra».
Dove e quando nasce la passione per la musica?
«Tutto ebbe inizio nella banda battente dei paesini della Presila in cui sono nato.
Successivamente intrapresi lo studio della batteria per poi immergermi nello studio delle percussioni classiche in conservatorio.
In quegli anni studiai privatamente pianoforte, direzione d’orchestra e composizione»
Dopo gli studi, come accennavi, ti sei trasferito a Milano. Una città che dà e che toglie allo stesso tempo. A te cos’ha dato?
«Milano ha fornito un forte stimolo ad immergermi in una realtà musicale molto ricca, inoltre mi ha permesso di rapportarmi con una vasta gamma di stimoli esterni, in modo tale da adottare correzioni del “tiro” molto più frequentemente. In altre parole: mi ha dato grande opportunità di crescita artistica».
Nonostante i molteplici impegni tra prove in Teatro e concerti hai avuto modo di pubblicare da poco un’opera intitolata “Fanny”. Il libretto è di Elisabetta Cattaneo. Da dove nasce l’esigenza di produrre un’opera?
«Il bisogno di scrivere un’opera lirica nasce dal desiderio di mettere le mani negli ingranaggi di questo maestoso e affascinante strumento musicale chiamato orchestra.
Mi capita di svolgere attività direttoriale con orchestre e gruppi da camera, e questo è stato sicuramente un modo per approfondire con maggiore consapevolezza molti meccanismi che governano la “fisica” del tessuto di una composizione orchestrale».
Chi è Fanny?
«Fanny è una storia ispirata alle vicende di due giovani innamorati alle prese con il sacrificio di uno sforzo patriottico, Carlo Bonardi e Fanny Bettoni, patrioti bresciani realmente esistiti.
Il nostro melodramma si avvia a partire dal resoconto storico di Tonino Mazza».
Elisabetta Cattaneo, oltre ad essere la tua compagna nella vita, è anche la tua musa ispiratrice di quest’opera?
«Con Elisabetta abbiamo deciso di unire due nostre competenze in modo parallelo. Lei ha ispirato me ed io ho ispirato lei al fine di produrre qualcosa di artisticamente complesso ma allo stesso tempo estremamente appagante».
Qual è il messaggio di quest’opera e a chi è rivolta?
«L’opera è forse una sottile provocazione ad una scuola operistica contemporanea che ha spostato completamente i criteri estetici (che a mio avviso sono tutt’altro che soggettivi, alcune piacevolezze sonore sono il risultato di configurazioni neurofisiologiche predeterminate) per prediligere una parossistica ricerca “sperimentale”, apprezzabile ma spesso troppo difficile da comprendere.
Il messaggio è rivolto a quel pubblico spesso “annoiato” dall’ esasperata sperimentazione dodecafonica contemporanea (spesso anche gli esecutori stessi mostrano insofferenza). Io credo, col rischio di essere etichettato come anacronistico, si possa ancora dare qualcosa mantenendo la relazione con una tradizione “neoromantica” e il contatto con la modernità dei nostri tempi».
Quali sono state le difficoltà nella produzione di quest’opera?
«Il lavoro ha avuto un decorso piuttosto regolare, senza risparmiare qualche alterco con la librettista al fine di modellare bidirezionalmente l’assetto drammaturgico e la fraseologia sillabico-musicale. In altre parole, a volte la composizione si adattava alle parole, altre volte, per non perdere il senso di frase musicale, richiedevo dei cambiamenti sostanziali nel libretto. Un vero e proprio lavoro di squadra!».
Andy Warhol affermava che nel futuro chiunque sarebbe stato popolare per 15 minuti. I reality show danno molta visibilità ma il rischio, oltre a quello di inflazionare, è di cadere nel dimenticatoio. Un’opera è per sempre, ma come renderla popolare?
«In psicologia si descrive un fenomeno chiamato “mera esposizione”. La preferenza estetica degli esseri umani è generalmente rivolta a ciò che si rende familiare, e una prolungata esposizione può produrre effetti di familiarità e preferenza, che è quello che succede nella musica pop quando in radio veniamo bombardati dalle stesse canzoni per un periodo di tempo prolungato e come per magia, amiamo quei pezzi! Se il lavoro dovesse rientrare nelle preferenze estetiche del pubblico, sicuramente aiuterebbe una frequente esposizione a renderla magari popolare».
Avete intenzione di portarla in scena?
«Al momento è stata pubblicata dalla casa editrice di Milano Wicky Music, e insieme al nostro editore Piero Michi sogniamo di stimolare l’interesse di qualche direzione artistica affinché venga messa in cartellone.
Sentire dal vivo il lavoro realizzato sarebbe davvero un sogno».
La Calabria è una terra meravigliosa, ricca di storia, arte cultura e tradizioni. Quanto questi luoghi hanno influenzato la tua produzione artistica, in particolare dell’ultima opera pubblicata?
«La Calabria è stata la terra che ha generato l’idea di realizzazione: era l’estate del 2020 ed eravamo in una località di mare nel tirreno cosentino…
È lì che quasi per scherzo è nata l’idea di mettersi in gioco e provare a scrivere un melodramma, mantenendo la tradizione della scuola verista italiana. Il lavoro poi è stato svolto completamente a Milano».
Il Festival di Sanremo è alle porte. La musica classica sembra così lontana dalle melodie pop. Quanto in realtà la musica classica influenza la produzione musicale pop?
«Più di quello che magari si pensa. Ogni tipo di musica è frutto di una assimilazione storico-culturale di ciò che c’era prima e la tendenza a creare ciò che non c’è ancora.
La musica pop conserva ancora oggi moltissimi meccanismi, magari evoluti e modernizzati, che hanno caratterizzato, seppur in una forma totalmente diversa, la musica classica di qualche secolo fa».
L’uomo ha sempre cercato il bello in tutte le arti. Perché la musica classica sembra “superata” e si preferisce andare ad un concerto pop?
«Non credo sia superata la musica classica. È una musica che richiede a mio avviso lo sviluppo di una elevata capacità introspettiva, che solitamente è prerogativa di persone più avanti con l’età.
Recluta delle risorse interne che sono sensibili al discorso “classico” solo dopo un percorso di sviluppo.
Le persone non credo preferiscano la musica pop alla classica, hanno soltanto un accesso più istintivo e diretto alla musica pop, ma col giusto percorso educativo ed evolutivo, credo che chiunque sia potenzialmente in grado di appassionarsi alla cosiddetta musica colta. Anche gli stessi amanti del pop l’apprezzerebbero!».
Come si evolverà la musica classica nei prossimi decenni? Come tenerla viva?
«Il nostro periodo storico tende ad indebolire a livello socioculturale lo scheletro che sostiene la diffusione della musica colta, ma credo anche che questa musica sia in possesso di un’intrinseca qualità formale capace di affascinare sempre l’uomo e che avrà modo di sopravvivere nei secoli, nonostante i numerosi sabotaggi da parte di una classe politica sempre più sorda».
Infine, qual è il consiglio che daresti ad un giovane che vuole diventare musicista?
«Il mio consiglio è quello di non approcciare lo studio della musica con finalità materiali, quali possono essere la carriera, la fama ecc…
La musica è una severa disciplina terapeutica. Si fa perché si ama così com’è, si fa perché ci aiuta a vedere le cose in un altro modo, si fa perché rende liberi e disciplinati allo stesso tempo. Si fa perché è veramente qualcosa di magico e speciale. Poi viene tutto il resto…».
Articolo a cura di Davide Esposito