Faccio di Tutto Tour è il progetto musicale che il cantautore Francesco Tricarico sta portando in giro nei diversi teatri sparsi sul territorio con il musicista e compagno di viaggio Michele Fazio
Voce e pianoforte rigorosamente in acustico con Francesco Tricarico che mette in scena il suo repertorio artistico di oltre 20 anni di carriera, condito di storie e aneddoti e tutto il resto da scoprire, da inventare e immaginare.
Con il grande cantautore milanese, scopriamo quel bambino che rideva sempre, amava disegnare e poi scoprì la musica.
Faccio di tutto Tour, come nasce l’idea di questo progetto musicale?
Abbiamo iniziato a girare dal 2008 con questo Tour, prima con varie formazioni perché il gruppo era più ampio, mentre ora siamo in duetto io e Michele Fazio. È una forma acustica che mi piace, dove c’è spazio alle canzoni, alle parole e all’essenzialità dei brani e permette di avere tempi più larghi rispetto a un’esibizione con un gruppo.
Ci divertiamo ed è sempre interessante proporre i brani con pianoforte e voce. È nato strada facendo e in questo periodo tecnologico e apparentemente moderno, questo spettacolo è forse più moderno.
C’è parecchia improvvisazione, come chiamare il pubblico, raccontare la storia del lupo. Sembra un’opera un po’ teatrale.
C’è una parte di recitato e un piccolo canovaccio. Non manca l’improvvisazione con la quale tendo a coinvolgere il pubblico in “pomodoro” nella storia del lupo o della campagna. Ci sono anche delle riflessioni che nascono naturalmente nelle serate e non sono mai le stesse.
La mia sensazione è che durante il tuo live, possa accadere tutto e dentro di me ho pensato “chissà cosa inventa Tricarico”!
Mi fa piacere il fatto di fare accader “qualcosa”. Io ascolto il pubblico e c’è una parte che accade, in base alla gente che posso trovare.
La bellezza è essere presente ed è la parte più affascinante di questo lavoro, dove lavoro molto di fantasia. Il legame con la realtà è molto pragmatico, oggettivo e lucido, ma è fatto anche di spazi di fuga perché io tento di fuggire dalla realtà.
Il palco è un luogo in cui sono presente, dove nascono le idee, mi diverte e dovrebbe essere un momento che smuova qualcosa.
Il live inizia con “Io sono Francesco” il tuo pezzo che ha segnato il tuo debutto. Solitamente nei concerti gli artisti partono con i pezzi più recenti, invece tu sei partito con il pezzo più famoso. Hai la necessità di presentarti al pubblico?
La scelta non è casuale. È la canzone più conosciuta. Abbiamo pensato con Franco Godi – un amico manager e produttore con il quale spesso riflettiamo – di farla subito senza che diventi un’attesa.
È una presentazione. Da quel momento inizia un percorso in discesa per certi aspetti ma anche in salita per altri.
Quando hai scritto questo brano non hai avuto timore di essere censurato con il “Puttana la maestra” in un momento storico più difficile rispetto ad oggi?
Non mi posi il problema, ma se lo pose la casa discografica Universal con la quale stavo preparando il disco. Infatti, lo censurò e fece tre versioni: una normale con lo sfogo di questo bambino, una con un beep che comunque rendeva leggibile “puttana” (seminascosto) e una con beep più lungo che cancellava tutto.
Si diede la possibilità alle radio che avrebbero potuto trasmetterlo scegliendo tra le 3 versioni. Ero contento perché la parolaccia aveva un senso, in quanto era in contesto e non era gratuita. La ritenevo giustificata, anzi all’interno della canzone aveva un suo perché e non era messa a caso. A me tutto quadrava.
Nel corso del tempo riflettendo sull’episodio che era rimasto nella mia memoria, come uno spartiacque tra un periodo e un altro, il tema sul papà era meglio non darlo: noi eravamo in quarta e la maestra ci conosceva tutti, eravamo in una classe un po’ disastrata, dove c’erano orfani e altre situazioni. Da parte della maestra c’era stata poca attenzione.
Lei venne a sapere della canzone che la riguardava dal suo fidanzato e mi telefonò dicendomi che in quel momento era giovane e aveva 26 anni.
Io la ritenni giusta e mi fa piacere che questo senso fu colto, sebbene i ragazzini abbiamo preso la parte più volgare. È una canzone che ha tante sfumature che la rendono interessante.
Nei tuoi brani hai sempre colto con ironia, attenzione e grande capacità di scrittura i volti della società. Il testo “Mi state tutti profondamente sul cazzo” è uno sfogo molto diretto. Perché un testo così gridato, tu che sei sempre contenuto?
Dopo la pandemia, penso che si viva un momento molto drammatico per tanti aspetti. Assisto a un reiterarsi di tante cose a livello mediato e a livello di social, stranamente ripetitive, quasi coatte, laddove le cose giuste appaiono.
Noto un tentativo quasi di manipolazione dell’informazione nelle guerre, nell’uso dei termini, nell’interpretazione che non avrei mai pensato in una versione quasi propagandistica della realtà che mai avrei pensato di vivere.
Vedo che la Russia è l’invasore dell’Ucraina mentre Israele non è l’aggressore della Palestina. È tutto fuorviante perché siamo liberi però tutti devono fare un vaccino, andiamo verso un portafoglio digitale ma vogliamo togliere la moneta: si sta forzando verso una direzione poco libera.
Ci stiamo muovendo verso l’intelligenza artificiale ma non sappiamo nulla dell’aspetto spirituale e umano. È un momento brutto per il pensiero.
Questa canzone fa un elenco di cose dove si assiste alla propaganda delle macchine elettriche, quando realizzarle è un disastro per la produzione dei minerali che servono per le batterie.
La canzone è poco poetica, ma sentivo di farlo e sottolineare un fatto pericoloso.
Nella tua esperienza artistica hai incontrato la pittura, che definisci un altro linguaggio come la musica. È sempre Francesco, che torna sul banco per fare il tema sul papà… e inizia a dipingere? È il bambino che porti dentro che te lo chiede?
Io ho sempre disegnato dalle scuole medie. A liceo ho iniziato a fare opere più grandi e andavo presso le Gallerie, perché avevo un professore molto bravo al Conservatorio che dipingeva, Vigentini che mi aveva “iniziato” assieme ad altri ragazzi all’arte. Questa è stata una fortuna per me.
Il mio disegno ebbe un fine e capii che potevano aprirsi delle porte. Al Conservatorio suonavo, mentre la simil pittura era un diletto, che iniziava a prendere piede. La musica, invece, era un qualcosa che tenevo per me. Io ho sempre fatto le mostre (piccole) ma negli ultimi sette anni ho conosciuto un gallerista per cui ho iniziato a realizzare lavori grandi su grandi tele.
All’età di dieci anni, come ogni ragazzo che inizia a guardare il mondo, mi ponevo delle domande quello che accadde con il tema fu una presa di coscienza: mi resi conto che nulla sarebbe stato facile e mi sarei trovato a fronteggiare la mancanza di un genitore.
Il disegno, come tu dici, era un modo per suonare, disegnare, stare da solo e riflettere. Oggi si parla di più e si presta maggiore attenzione ai ragazzi, come faccio io con i miei figli, ma negli anni ’70 eravamo poco seguiti.
Hai studiato al Conservatorio il flauto traverso, come è nata la passione verso questo strumento che i ragazzi hanno un po’ bistrattato?
Io andavo a una scuola media di Milano che si chiamava “Rinascita” dove c’era grande offerta di strumenti musicali, tra i quali: flauto traverso, clarinetto, chitarra, violino.
Io scelsi la chitarra, come facevano tutti i ragazzi, ma i professori mi consigliarono il flauto traverso, che non è quello dolce, dritto che viene dato alla media (a becco). Da quel momento iniziai a suonarlo e mi accorsi che ero bravo. Conobbi un grande maestro, mi segui molto e dalle medie andai al Conservatorio: fu una fortuna perché io non avevo grande passione per la musica.
Io ho fatto la dizione per entrare in Conservatorio e poi ho fatto tutto il percorso accademico. È stato un incontro fortuito. Se avessi di fatto studiato la chitarra non avrei delle cose che il flauto traverso mi ha permesso di fare. Comunque io scrivo al pianoforte e suono la chitarra.
Ho curiosato nei tuoi video su YouTube su Sanremo, quando hai portato “Vita Tranquilla”, “Un bosco delle fragole”. Ho letto anche osservazioni dei fan, e ascoltatori. Parlavano di alcune stonature durante il canto, volute o quasi cercate. Come le definisci tu?
In quel momento ritenevo che fosse l’interpretazione migliore da dare a quel brano. Adesso mi approccio in un altro modo rispetto al canto. Allora era funzionale cantare in un modo molto libero.
Eri anche più chiuso, e più riservato in quel momento?
La cosa bella della musica è che ti permette di conoscerti e di fare accadere degli avvenimenti, ma soprattutto nel mio caso di diventare più consapevole delle cose. In quel momento ero meno socievole e più riservato. La mia indole in quel momento era forse più arrabbiata.
Parlando di Sanremo, tu hai partecipato nelle edizioni del 2008, 2009 e 2011. Le ultime edizioni hanno segnato il passo verso una kermesse molto legata al mainstreaming, con la pop dance, la urban, il rapper (i generi del momento). Sanremo non è più una manifestazione nelle tue corde?
Nelle corde di Sanremo o nelle corde di Amadeus? Non escludo di tornarci perché è un grande palco, che dà la possibilità di portare a molti la propria canzone, bella e curata. Meglio andarci con una canzone forte in cui si riconosce perché ci si gioca qualcosa di importante.
Ritengo che ci siano pochi autori, infatti, c’è stata una polemica a fronte di 30 canzoni con solo 10 autori.
Dopo tanti anni, l’ho riascoltato e ho notato un grande appiattimento nella melodia e nella produzione. Un po’ tutto uguale e noioso. Sembra un Festivalbar di serie B.
Mancano un po’ i cantautori come te, Carmen Consoli, Daniele Silvestri per fare dei nomi?
Io penso che lui non li abbia nemmeno cercati perché cinque anni sono tanti. Io presentai un brano due anni e capii che non mi avrebbe mai chiamato. Dipende da che potere hai, con chi sei e con chi ci vai.
Amadeus non dice nulla finché lui non sceglie Gli vengono presentati i pezzi e non da giustificazione rispetto alle sue scelte. È un circolo chiuso, quasi un meccanismo automatico. Baudo (come altri presentatori) avevano una commissione tecnica con maestri di musica che è andata persa.
Amadeus non se ne avvale ed è presuntuoso. Non ha nessuna esperienza se non radio e Festivalbar. Credo che sappia poco di musica. Mi spiace per Sanremo e non escludo di non tornarci, nel momento in cui ci sarà un altro approccio con un altro presentatore o una commissione. A parte il cantautorato è importante che venga dato più spazio ad autori e più interpreti.
Articolo a cura di Raffaele Specchia