In attesa di rivederli in Italia a novembre, Musica361 ha intervistato i frontmen dei Lacuna Coil, Cristina Scabbia e Andrea Ferro, durante una tappa del tour dell’ultimo album Delirium.
Dopo l’uscita di Delirium lo scorso 27 maggio, i Lacuna Coil hanno intrapreso il tour mondiale che li ha portati in estate anche nel nostro Paese, il loro paese. Una delle (poche) icone italiane del metal mondiale degli ultimi 20 anni si racconta a Musica 361.
Un disco autoprodotto, un cambio di formazione con la partecipazione di special guests come Mark Vollelunga e Myles Kennedy e una sonorità più hard rispetto agli album precedenti: che tappa rappresenta Delirium nella vostra carriera?
Cristina: Un album di cambiamento sicuramente. Metaforicamente però non lo definirei il capitolo successivo nella discografia dei Lacuna Coil ma un libro completamente nuovo: in parte per i cambi di formazione che si sono verificati negli ultimi due anni, in parte per una ripresa di elementi nella nostra musica che richiamano sonorità degli inizi di carriera, addirittura dei nostri primi demo.
Andrea: La tematica di questo nuovo “libro” è la follia intesa tanto come malattia mentale nell’accezione clinica quanto come follia quotidiana: non ci riferiamo solo agli episodi di follia di questo momento storico nel mondo ma anche alle piccole follie della gente comune, alle quali ormai non si fa più caso. L’idea di base è stata la creazione di un manicomio immaginario, il “Lacuna Coil Sanatorium”, nel quale ogni paziente dalla sua stanza racconta diverse storie, tutte legate alla tematica della follia, filo conduttore delle canzoni. In questo senso si può parlare di un “concept”, anche se non lo è propriamente.
Come è nata la canzone Delirium, che poi ha segnato la nascita di questo album?
Andrea: Solitamente, come per altre canzoni, nasce prima la musica che scrive il nostro bassista Marco Coti-Zelati: passa a me e a Cristina demo con versioni grezze sulle quali lavoriamo separatamente per trovare linee vocali ed arrangiamenti che poi insieme discutiamo, elaboriamo o a volte cambiamo completamente.
Cristina: Per Delirium in particolare stavamo cercando una parola che si prestasse ad essere utilizzata ossessivamente all’interno della melodia, una parola evocativa che avesse la forza di trascinare il ritornello. Appena individuata la parola “delirium” è venuto naturale sviluppare e declinare questa tematica a tutte le altre canzoni. E così è stato anche per la copertina, le foto del book o il nostro vestiario: e abbiamo deciso di intitolare così il disco.
Recentemente è stato pubblicato anche il video di Delirium: come lo avete realizzato?
Cristina: si tratta di un video composto da immagini girate in due luoghi e momenti completamente diversi. Il regista ha girato in Germania tutte le scene con la protagonista che interpreta il testo di Delirium, nei vari set tra il bosco e le stanze del manicomio. Ci sono chiari riferimenti ai film horror italiani anni ’80 ma anche a certi horror psicologici di matrice coreana o giapponese, con un pizzico di splatter. Insieme a queste immagini sono state montate quelle girate da noi stessi in tour in America con una telecamera GoPro. È stato un esperimento che comunque non ci è costato molto: ci ha intrigato l’idea di realizzare questo video quasi a caso, senza sapere bene cosa sarebbe venuto fuori ma siamo rimasti soddisfatti.
Andrea: Volevamo qualcosa che non fosse il solito video un po’ patinato e a sé ma che, al contrario, fosse in accordo a un album duro e sporco, qualcosa di cult che non dovesse poi necessariamente essere passato in tv.
A proposito di tv, radio e media: c’è un campo o un settore nel quale oggi vedete più che in altri veramente il delirio?
Andrea: In questo periodo siamo circondati dalla follia, non è difficile riscontrarla in qualunque ambito. Basta guardare un telegiornale: dal terrorismo organizzato agli squilibrati, passando per le dichiarazioni di certi politici…
Cristina: Senza contare la dipendenza dalla tecnologia e l’atteggiamento di giudicare tutto e tutti senza filtri sui social, soprattutto da parte di chi non conosce veramente fino in fondo certe questioni. Esistono personaggi veramente folli nella quotidianità ma comunque accettati e tante situazioni intollerabili reputate “normali”. Tanti e altri esempi di questo tipo hanno dato ispirazione all’album, prevalentemente comunque basato sulla vera malattia mentale, patologie come la depressione o problemi comportamentali legati ad un profondo senso di inadeguatezza. Ricevendo tutti i giorni mail dai fans ci siamo resi conto che è un argomento molto diffuso ma stigmatizzato, che si tende a nascondere.
Restiamo ai fans: come è l’accoglienza del pubblico italiano rispetto a quello americano o internazionale in genere?
Cristina: In parte è strano essere considerati un gruppo internazionale da tanti italiani che non sanno che siamo connazionali e magari ci scrivono su facebook in inglese. D’altra parte il 98% della nostra attività è all’estero: è paradossale pensare che per noi, band italiana, l’Italia sia un mercato quasi da scoprire. Abbiamo alle spalle una storia particolare, unica: non siamo certo il classico gruppo da classifica o da ospitate televisive ma ovunque andiamo c’è sempre qualcuno che ci riconosce. C’è un seguito sotterraneo: il nostro genere non è certo quello che va di più in Italia, però troviamo sempre un gran numero di fans e di estimatori che quasi non ci saremmo mai aspettati.
Andrea: L’Italia è un mercato in crescita costante e ce lo sta dimostrando soprattutto la partecipazione del pubblico ai concerti. Questo significa che la nostra fama cresce: noi stessi restiamo sempre più sorpresi dell’ottima reazione ovunque, non solo a Milano o in Lombardia, dove ce lo aspettiamo di più perché in qualche modo è casa nostra, ma ad esempio anche in Veneto, Toscana o Liguria.
Pur avendo cominciato e avuto, di fatto, più successo all’estero, artisticamente però vi sentite più italiani o internazionali?
Cristina: Per il genere che facciamo e per il gusto musicale sicuramente siamo internazionali. Le stesse influenze musicali che avevamo quando abbiamo iniziato, per non parlare delle attuali, sono decisamente orientate verso la musica internazionale.
Andrea: Non è snobbismo ma una questione di stimoli: abbiamo gusti musicali che facciamo fatica a trovare in Italia.
Qual è oggi la situazione del genere metal in Italia?
Andrea: Secondo me in crescita: vedo tanti nuovi gruppi che stanno nascendo in ambito rock metal, alcuni che cominciano anche a fare tour in giro per il mondo come i Fleshgod Apocalypse di Perugia, che già abbiamo incontrato in diversi festival in America. Non mancano i gruppi però non c’è più di tanto un’attenzione nazionale a questo tipo di musica, a parte forse il nostro caso che rimane isolato.
Cristina: In Italia il metal è proprio un mondo a parte: esiste uno zoccolo duro ma sempre underground. È sempre bello sentire un certo tipo di fan fedele nel tempo, capace di seguirti a prescindere da quello che fai, non solo quando esce il disco nuovo. Non è così per chi segue altri generi musicali in cui certi artisti vengono seguiti finché hanno un singolo di successo o restano sull’onda per poi sparire e dare magari spazio al nuovo arrivato da un talent o al protetto di turno.
Il fatto che una delle caratteristiche del genere metal sia la sua essenza underground non ne rappresenta anche una qualità? Nel momento in cui questo genere dovesse, poniamo il caso, commercializzarsi non corrisponderebbe ad una perdita di valore?
Andrea: Il metal non si presta più di tanto alla commercializzazione, a meno che non si parli di grandissimi nomi a livello mondiale come Iron Maiden o AC/DC che hanno fatto la storia della musica o più recentemente System of a Down e Linkin’ Park, che hanno superato le barriere del metal e del rock.
Cristina: Non credo che il metal si commercializzerà mai: prima che un genere musicale è uno stile di vita, non ci si improvvisa metallaro. Senza contare luoghi comuni come l’equazione metal uguale rumore: insomma non credo che abbia le caratteristiche per diventare un genere di massa. A meno che non lo decida qualcuno, per altri motivi.
Curiosità: oltre al vinile Delirium è stato stampato anche in musicassetta. Un modo per arrivare agli affezionati del vintage o un pur debole ma significativo segnale per resistere al totale tentativo di strapotere di Spotify e altre piattaforme?
Cristina: Vogliamo considerare la musicassetta solo un pezzo per collezionisti: come buona parte del nostro pubblico noi siamo cresciuti con le musicassette. Il nostro primo demo spedito ad una casa discografica fu su cassetta (sorride)
Andrea: La cassetta è una chicca! (sorride) Il vinile invece rappresenta una nuova forte tendenza in aumento: in America l’anno scorso, dopo il download digitale al primo posto, i vinili hanno addirittura superato, anche se di poco, le vendite di CD. Però rimane ancora un elemento per collezionisti: è il gusto di avere qualcosa che non sia più così comune. Noi stessi scarichiamo poche canzoni dalla rete perché abbiamo il blocco mentale generazionale di comprare qualcosa che però non puoi effettivamente possedere.
Insomma una volta si ereditavano i dischi… e domani?
DELIRIUM