Classe 91, Filippo Ghiglione è un genovese che suona folk inglese, con un carattere davvero intraprendente.
22 ottobre. Sono a Sestri Levante, in un ex convento che ospita concerti, seduto in platea ad aspettare l’inizio del concerto di Zibba. In apertura arriva un ragazzo che imbraccia la sua chitarra, si avvicina al microfono e inizia a cantare. “Ok, questo è forte”. A metà del primo pezzo ho già capito che questo ragazzo genovese, che si fa chiamare “River” (e sotto la maschera Filippo Ghiglione) ha due o tre marce in più. Canta in inglese, ricorda il folk britannico in stile Ed Sheeran e mi fa venire una voglia matta di saperne di più sul suo conto. Così, finito il concerto di Zibba, magistrale come sempre, chiedo tempestivamente a River l’amicizia su Facebook e in qualche settimana ci mettiamo d’accordo per un’intervista.
Come nasce il progetto “river”?
Il nome “river” lo uso dal 2012, anno in cui ho pubblicato il mio primo EP per l’etichetta torinese Sounday. Prima suonavo in una band, ma ci siamo divisi, così ho deciso di intraprendere un percorso da solo. Ho scelto river perché, essendo abituato ai nomi singoli delle band, volevo qualcosa di simile, l’idea di uscire con un EP con il mio nome e cognome non mi piaceva tanto, quindi ho pensato di ascoltare l’EP e di farmi venire in mente qualcosa dalla musica. Una delle prime immagini che ho avuto è stata quella di un fiume, proprio perché alcune canzoni avevano un andamento tranquillo, come l’acqua che ti scorre lungo la schiena sotto la doccia, altre erano più forti come un fiume in piena, da qui il nome “river”. Ho deciso di riprendere in mano il progetto nel 2014 e iniziare a scrivere in inglese, poi studiando cinema al DAMS di Torino ho avuto modo di coinvolgere amici videomaker creando una sorta di collettivo audiovisivo composto da loro e altri amici musicisti. In questo modo diamo importanza sia alla musica che all’immagine video.
Un po’ come ha fatto la Machete Crew nel mondo hip hop, mentre nel tuo caso si parla di folk acustico. Come mai hai scelto di scrivere il tuo nome artistico in minuscolo? Anche questa è una scelta particolare.
Quando lo vidi scritto in minuscolo mi sembrava che acquistasse una migliore attenzione dell’occhio e allo stesso tempo, non avendo lettere maiuscole, dava un senso di semplicità e simmetria. Per questo ho deciso di adottare i caratteri minuscoli anche per i titoli delle canzoni.
E invece come sei arrivato ad aprire il concerto di Zibba?
Guarda è successo tutto per caso (ride). Io avevo suonato al Randal di Sestri Levante ad una manifestazione che si chiama Stop Wars Beatles Night, una serata dedicata ai Beatles, rivisitati dai Beatzone in chiave semiacustica. Alla fine dell’evento uno degli organizzatori mi ha chiesto il contatto e alcune tracce. Casualmente qualche mese fa stavo cercando delle date da gennaio in poi per la promozione del nuovo EP, ho contattato il Randal e gli organizzatori mi hanno detto che ci sarebbe stata la possibilità di aprire il concerto di Zibba insieme a Gioacchino Costa. È successo tutto da un momento all’altro, non me l’aspettavo proprio, è stata una cosa fighissima perché Zibba in Italia è uno degli autori e degli artisti che mi piacciono di più. In particolare lui e Niccolò Fabi.
Che tra l’altro hanno collaborato nella traccia di Zibba Farsi male.
Infatti è uno dei pezzi che preferisco dell’album Muoviti svelto.
Concordo a pieno. Visto che hai citato la musica nostrana, in questo periodo il mercato musicale italiano sta vedendo gli indipendenti alla conquista delle major, che impressione ti sei fatto di tutto questo?
Il mercato musicale sta diventando sempre più libero e soprattutto si ha la possibilità di raggiungere molte più persone rispetto a un tempo, perché anni fa se non avevi i contatti giusti certi numeri non li facevi. Poi è anche importante crearsi una fanbase, una sorta di rumor nel giro indipendente. Alcuni artisti, anche esteri, ancora prima del discorso musicale, sono venuti fuori con immagini, video, secret concert, che creavano hype intorno ad un prodotto. Tutto ciò è un segnale di quanto la comunicazione sia importante oggi.
Come mai hai scelto di cantare in inglese?
Di solito si inizia in inglese poi si continua in italiano, mentre a me è successo un po’ il contrario. Poi per l’università che ho frequentato ho visto molti film in lingua inglese o con i sottotitoli in inglese quindi c’è stato un allenamento nei confronti di questa lingua. Inoltre sono sempre stato legato al mercato musicale estero, quindi quando ho deciso di iniziare a scrivere qualcosa mi è venuto spontaneo scriverlo in inglese. Dovrò vedere come evolverà la mia musica e se continuerò con questa lingua, come hanno fatto anche Joan Thiele o Wrongonyou (artisti italiani che cantano in inglese, ndr).
Cantare in inglese ti permette anche di avere un bacino di utenza maggiore.
Cantare è qualcosa che mi permette di vivere in empatia con le persone e questa lingua ti mette a contatto con un pubblico più ampio. Parlando della mia scelta a livello sociale, gli ultimi risvolti politici mondiali non sembrano presagire un mondo cosmopolita, anzi piuttosto un mondo chiuso. Io comunque credo nell’essere cosmopoliti e una lingua che ti permette di arrivare a tante persone, anche se a volte con difetti di pronuncia, credo che sia qualcosa di positivo.
Ascoltandoti viene in mente la scena busker folk inglese ed interpreti come Ed Sheeran e Passenger. Ti ispiri a questi artisti? Rimarrai su questo stile acustico?
Intanto grazie per il complimento, quelli che hai citato sono artisti che piacciono molto anche a me e inoltre, parlando di busker (artisti di strada), insieme al mio collettivo UGA stiamo lavorando con il comune di Genova per cambiare la regolamentazione e per riuscire a venire incontro agli artisti. Credo che il busking sia qualcosa da tutelare e da rendere possibile. Per quanto riguarda il suono che vorrei proporre, la mia intenzione è quella di prendere spunto dal folk moderno, oltre agli artisti che hai citato altri che possono essere d’ispirazione sono The Tallest Man on Earth e Justin Vernon. In particolare proprio quest’ultimo ha un sound che mi incuriosisce molto, mixando il mood malinconico del folk all’elettronica.
Concentrandoci invece sul tuo prossimo EP, puoi anticipare qualcosa di ufficiale?
La data da segnarsi è il 26 dicembre, giorno in cui uscirà su Spotify. C’è già un video su Youtube del primo singolo estratto, Spellbound. Per tutto il mese di novembre, invece, ho deciso di prendere un’altra traccia che si chiama Snowflakes e l’ho divisa in 6 clip da trenta secondi l’una che usciranno una volta a settimana, in modo da anticipare l’uscita dell’EP e del video completo, successivamente disponibili in concomitanza. Sono stato ispirato dai Radiohead, visto che nell’ultimo disco hanno fatto brevi clip di preview delle canzoni pubblicate sul loro profilo Instagram. Sulla pagina facebook www.facebook.com/riverofficialpage si possono trovare tutti i titoli e tutte le informazioni a proposito dell’EP.
Hai parlato spesso del collettivo di cui fai parte, di cosa si tratta UGA (Unione Giovani Artisti)?
Quando sono entrato nel collettivo mi sono trovato ad affrontare insieme ad altri, dieci progetti musicali che provavano a percorrere strade diverse: c’era chi amava il cantautorato in stile Dalla o Graziani, chi invece faceva canzoni inglesi come me. Abbiamo deciso di avvicinarci e unire le forze, perché è sempre difficile proporre da soli la propria musica. Tutto è iniziato con una rassegna in un locale che si chiamava la Locanda (oggi Bootleg) e da questo abbiamo fatto altre date in giro. Si lavora insieme per far cresce il proprio progetto e quello di tutti.
Cosa ci vuoi trasmettere con la tua musica?
Ciò che vorrei maggiormente è essere onesto con me stesso, con la mia musica, anche rischiando di non piacere alle persone. Per adesso, anche seguendo questa filosofia, sono riuscito fortunatamente a creare empatia con il pubblico che mi ha ascoltato e questo, a mio parere, è un bellissimo risultato.