La cover dell’album Nessuna paura di vivere di Andrea Mirò.In occasione del ritorno al teatro Menotti di Milano e delle imminenti tappe del tour estivo di Nessuna paura di vivere Musica361 ha intervistato la signora Ruggeri.
Oltre che il titolo del suo ultimo disco, Nessuna paura di vivere è uno slogan che pare calzare perfettamente anche ad Andrea Mirò, che, come racconta, dopo aver chiuso la stagione al Teatro Menotti tra maggio e giugno protagonista di tre spettacoli di musica e parola diretti da Emilio Russo, si prepara al tour estivo.
Andrea Mirò, al secolo Roberta Mogliotti: qual è l’importanza di un nome d’arte ancora oggi?
Non c’è un’importanza particolare, si può scegliere per diversi motivi. Negli anni ’80 andavano molto i nomi d’arte: nessuno all’epoca avrebbe mai pubblicato un disco di uno che si fosse chiamato ad esempio Gualazzi, di sicuro glielo avrebbero fatto cambiare. In realtà era quello che pensavo anche io: chi avrebbe mai comprato un disco col mio cognome? Mogliotti va bene per un commercialista o un ragioniere, non certo come nome d’arte. Scelsi a tavolino Mirò, insieme al responsabile delle promozioni della EMI, perché a me piaceva molto la pittura. Poi abbiamo cercato un nome e qualcuno suggerì Andrea, ambiguamente maschile, che creò un po’ di scompiglio: era un periodo storico legato ancora a certi stereotipi e vedere una ragazza dal nome maschile e il look androgino ancora colpiva, per lo meno in Italia. I primi tempi l’ho vissuto in maniera un po’ ingombrante ma poi mi ci sono affezionata abituandomi non ad una doppia identità – io sono quello che sono anche sul palco – ma ad avere questa alternativa.
Prima ancora di Sanremo, nel 1986, ti aggiudichi la vittoria a Castrocaro con Pietra su pietra. Come ricordi quel primo importante traguardo?
Non è stato un evento che ho tenuto troppo in considerazione, è semplicemente capitato. Avevo 18 anni e sono entrata in questo mondo per caso, a bocca aperta: non ero pronta come i ragazzi di oggi, determinati ad affrontare questioni tecniche, discografiche e contrattuali. La vincita mi diede l’opportunità di firmare un contratto con una delle più grandi case discografiche in assoluto, la Emi, e poi andai di diritto a Sanremo: fu un’opportunità che mi mise di fronte a delle scelte e nell’ottica di capire quali fossero i miei obbiettivi. Ho cominciato a suonare nei locali e poi mi è capitata la prima vera occasione importante, una grossa tournée con Enrico Ruggeri: e ho conosciuto la persona che da 23 anni ormai è insieme a me.
Come è nata appunto la collaborazione con Ruggeri e cosa ha significato per te quell’esperienza?
Enrico era in cerca di una polistrumentista che potesse cantare le doppie voci insieme a lui: fecero dei provini e mi selezionarono. Quindi è seguita la tournée di Oggetti smarriti (1994), il disco successivo alla sua seconda vittoria sanremese, Mistero. Un tour da grandi numeri, circa 137 date: la prima grossa esperienza grazie alla quale ho avuto la possibilità di lavorare a stretto contatto con un artista che aveva tanto da insegnarmi, come già mi era successo con Mango, Vecchioni e Finardi. E quell’esperienza diretta mi ha dato tanto: come in tutte le arti la teoria serve a ben poco. D’altra parte non si diventa compositore con un corso di scrittura: puoi avere indicazioni preziose per esprimere al meglio la tua sensibilità ma non ti insegneranno mai a scrivere una canzone. Bisogna incanalare il talento, imparare a gestirsi e avere molta sistematicità ricordandosi che questo prima di tutto è un mestiere. Si può avere un’ispirazione alle 4 di notte e scrivere una canzone ma non è la norma. La norma è decidere che in tre giorni devi stendere tre pezzi e non uscire dalla stanza fino ad aver ottenuto qualcosa di buono. Non bisogna stare solo ad aspettare le intuizioni, è un lavoro. O per lo meno lo è davvero quando è così.
Per chi ti conosce e chi vorrebbe scoprirti: ad oggi qual è il tuo brano più rappresentativo, quello cioè che non può mancare ad un tuo concerto, e quello che ami di più?
I pezzi oramai storici, quelli che non possono mancare in ogni concerto, sono due in realtà, quelli scritti a quattro mani con Enrico: Primavera a Sarajevo, ribattezzata dal pubblico La Balalajka e Nessuno tocchi Caino. Sono sempre in scaletta nei miei live, pur con qualche arrangiamento talvolta cambiato. Tra i non necessariamente famosi ce ne sono tanti: tutti i brani che ho composto mi piacciono per motivi diversi. Me ne piacciono molti dell’ultimo disco: Piove da una vita, Così importante o Conseguenze.
Parliamo appunto di Nessuna paura di vivere: perché questo titolo e che tappa rappresenta per te questo disco?
È un titolo che racconta bene il contenuto del disco nel quale ricorre molte volte la parola “paura”. Non nell’accezione di terrore ma intesa come elemento che fa parte della nostra epoca: la paura di guardarsi allo specchio, dell’altro e del diverso, di quello che può succedere nel mondo con i suoi contrasti incredibili, la paura di non essere all’altezza… E soprattutto la paura come sprone per andare oltre l’ostacolo, che ti fa sentire quanto può essere importante quel momento, ti fa salire l’adrenalina e rendere il massimo. Non il panico che blocca ma la paura: la paura di salire su un palco, come di affacciarsi alla vita. E d’altra parte se manca quella è finito tutto: senza emozioni non hai più niente da regalare agli altri, solo mestiere. Questo è il concetto del disco raccontato attraverso le sue storie. Rappresenta una tappa matura: si discosta dal resto della mia discografia per sperimentazione, è un disco abbastanza anomalo, che non riesco ad accostare a nessun altro che io conosca tra gli italiani. É molto particolare, rappresenta il tentativo di distinguermi nel mio percorso, di realizzare qualcosa anche di più rischioso se vogliamo.
Il tuo stile, che fonde anima classica e rock, è sempre stato lontano dal mainstream. Da questo punto di osservazione, come vedi orientarsi il panorama musicale italiano?
C’è molto fermento. Quello che si potrebbe chiamare indie non esiste più, o comunque una parte dell’indie è diventata mainstream, come nel caso degli Afterhours, anche se la qualità dell’indie non corrisponde ai grandi numeri. Non esiste più molto di “alternativo” se per indipendente si intende alternativo. Esiste però ancora un ambito di nicchia, una rosa di artisti che sa invogliare il pubblico a venire ad ascoltare oltreché solo partecipare: una forma che si è persa negli anni.
La scorsa settimana hai calcato il palco del Menotti con Degni di nota insieme ad Alberto Patrucco, in questi giorni torni con Talkin’ Guccini e chiuderai la stagione con Brechtsuite. Che tappa ha rappresentato il teatro per te?
Il teatro è un ambito che non avevo tenuto in considerazione fino a poco tempo fa finché è arrivata questa proposta da Emilio per lo spettacolo su Brassens e Gaber. Io ero un po’ titubante ma Emilio mi ha incoraggiato e pare che da buon regista abbia visto giusto: quando gli attori veri vengono a farti i complimenti nei camerini vuol dire che hai lavorato bene.
In Degni di nota sono protagonisti Brassens e Gaber, musicisti definiti “impegnati”. Esistono ancora oggi artisti “impegnati” o è una dimensione ormai perduta?
Oggi come oggi il cantautore impegnato, come poteva esserlo negli anni ’70, non esiste più. E credo che un artista impegnato debba prima di tutto essere impegnato a fare al meglio quello che sa fare. Personalmente, da musicista, non ho bisogno di dire cosa penso o di schierarmi, sono bassezze che non mi interessano. Ognuno nella vita privata ha le sue convinzioni, io non ho bisogno di spiegare quello che penso del mondo o della vita degli altri: sono semplicemente considerazioni che si evincono immediatamente da quello che scrivo e faccio. Anche in alcune mie biografie c’è scritto “artista impegnata nel sociale”: ma che significa? Il mio impegno nel sociale si realizza già scrivendo e facendo bene il mio lavoro: si fa politica anche così, si parla alla gente facendo bene il proprio mestiere.