A poche settimane dal concerto di San Siro, Musica361 a tu per tu con il cantautore laghée.
Un paio di settimane prima dell’evento del 9 giugno a San Siro lo si poteva vedere suonare sul lungolago a Desenzano del Garda. E probabilmente in questo momento sarà in un’altra località lacustre chissà. Già il lago, il luogo dove tutto è nato…
Davide Van De Sfroos, cantautore laghée ma dall’anima punk, dati i suoi inizi, dico bene?
Sì, ero un punk in un paese di mille anime (sorride). Una venatura di punk, soprattutto all’inizio, c’è stata per lo meno nello spirito. Uno spirito che mi ha insegnato a riconoscere a mia volta i punk di casa nostra, cioè outsider, contrabbandieri e personaggi marginali che poi sono tornati nelle mie canzoni. Ho creato un legame sotterraneo tra punk e folk, che per lungo tempo ha fatto storcere il naso ai puristi. Col tempo sono stato contento di non essermi legato a qualcosa di etichettato: nel mio mondo non c’era solo punk e folk ma anche blues, reggae, ballate libere, Tom Waits, venature notturne, innesti con altre etnie, lingue, dialetti, sciamani e personaggi di altri popoli, fino ad arrivare, un anno fa, all’orchestra sinfonica con 50 elementi diretti dal maestro Vito Lo Re. Tutto questo sperimentare è frutto di quella sana inquietudine nata dalla “paura dello stagnante”. Quando si costruisce una poetica fortemente legata ad un territorio le categorie dopo un po’ diventano quasi troppo strette.
E come si definirebbe Van De Sfroos?
Un viaggiatore polveroso e irrequieto: il mio è un viaggio continuo attraverso le epoche, le terre, le storie. In America mi definirebbero storyteller. Qualcun altro mi ha definito cantautore – ed in effetti i cantautori hanno fatto parte del mio retaggio – qualcun altro folksinger, altra dimensione ben precisa che mi è sempre rimasta. Molti miei strumenti e arrangiamenti, oltre al fatto di essere legato ad un territorio, richiamano il folk: i testi, lo stile con cui mi esprimo, i contenuti e il sound di base sono estremamente folk. Deriva dal fatto di essere legato ai luoghi che ho conosciuto viaggiando.
Pensando soprattutto a questa dimensione che contraddistingue la tua musica, perché tra tante location proprio San Siro?
A dire la verità quando sognavo in grande dicevo: «Un domani suonerò all’arena di Verona…». Poi, circa un anno fa, si è parlato di San Siro: non è stata una scelta mia ma una proposta del mio staff. La prima sensazione è stata come dire «prendo l’astronave e vado su Marte». D’altra parte però, dopo aver fatto due Forum, Sanremo, La festa della taranta e altro, alla fine ci si convince che è una tappa anche naturale.
Cos’era San Siro per Van De Sfroos, prima del concerto?
È sempre stato un luogo molto taboo: non sono mai andato a San Siro a veder un concerto, al massimo due partite. E come calciatore sicuramente non avrei mai potuto calcarlo, in quanto negato, ma anche da musicista, fino a qualche tempo fa, mi sono sempre sentito fuori luogo.
E cosa ha rappresentato, dopo il 9 giugno, questo concerto?
Nonostante una promozione sfiancante di sei mesi francamente non ho pensato neanche per un momento che andando a San Siro avrei potuto fare i numeri di chi solitamente lo frequenta perché non sono mainstream, però, in quella serata, ho avuto una chiara testimonianza da parte di tutti coloro che in questi anni hanno dimostrato di esserci. Penso di essere stato uno dei primi, se non il primo, a metter piede in questa cattedrale con canzoni dialettali alle quali evidentemente ho conferito una dignità per migliaia di persone che nel tempo le hanno sentite proprie. Ancora oggi comunque, se andassi a suonare in una piazza italiana tra Milano a Benevento, qualcuno mi riconoscerebbe ma qualcun altro ancora non saprebbe chi sono – posso dire di essere stato, in un certo senso, il primo sconosciuto che è andato a san Siro – ma il concerto in sé ha rappresentato una spallata ad una porta chiusa: dallo scorso 9 giugno si è intravista la possibilità di portare in questo luogo anche questa poetica.
Il primo pensiero o la prima emozione quando sei salito sul palco e hai visto il pubblico?
Ho sentito un boato: abituato ai numeri del Forum, 20.000 persone hanno rappresentato per me un risultato al di là di ogni aspettativa emotiva e numerica. Alla prima canzone ero più che altro preso a sentire che tutto funzionasse dalla parte delle spie e dell’audio, prendendo le coordinate del palco. Poi una volta in mano il timone sono partito: tre ore volate e sorrette dall’entusiasmo del pubblico, un’esperienza totale insieme ai tre gruppi di giovanissimi che hanno aperto il concerto. Mi ha commosso molto la galassia luminosa di cellulari durante il set acustico di Ventanas, 40 pass e La figlia del Tenente. È stata insomma la dimostrazione tangibile dell’esistenza di un popolo che ha fatto proprie queste canzoni. Magari non numeroso come quello che ascolta i Depeche Mode…ma loro sono internazionali. Io soltanto un viaggiatore.
Come hai pensato la scaletta in un luogo del genere?
Avevo in mente “le immancabili” ma mi sono anche fatto consigliare. Eravamo comunque tutti d’accordo sul fatto che in una location del genere ci volesse un bel ritmo per questo abbiamo suddiviso la scaletta in quattro sezioni in modo che non risultasse mai stagnante: dalle canzoni ritmate, grintose e campestri in stile blue grass dei giovanissimi Shiver che mi hanno accompagnato nella mia ultima tourneè, poi i Luuf, con cornamuse chitarre, violini e fisarmoniche fino al finale rock-blues, la parte “più umida”, usando la metafora dell’acqua del lago, con la Gnola Blues Band. Abbiamo inserito tutte le canzoni possibili, scelte in ordine di importanza storica ma anche di presa su un pubblico così vasto, da Lo sciamano a De sfroos. Hanno funzionato tutte anche se ne abbiamo dovute togliere almeno 7 per motivi di tempo: nel bis ho avuto a disposizione una sola canzone e ho scelto Balera.
Restando alla scaletta, se avessi potuto scegliere di suonare una canzone non tua cosa ti sarebbe piaciuto cantare a San Siro, avendo a disposizione lo stadio?
Sicuramente Redemption song di Bob Marley. Prima di tutto perché è una canzone che mi appartiene, dato che è un artista molto legato alla mia storia di ascoltatore. E poi come omaggio a colui che per primo ha aperto una vera era musicale a San Siro.
Hai un rito scaramantico prima di un concerto?
Quando mancano pochi giorni dalla data di un concerto il mio rituale è dormir fuori da quel luogo. Come per i concerti al Forum anche per San Siro, un paio di giorni prima dell’esibizione, ho pernottato in un hotel poco fuori dallo stadio. La sera lo guardavo fuori dalle finestre del bagno e pensavo “Ormai sono qui”. Ho dormito abbastanza bene la notte precedente, e la mattina sono entrato presto, girando un po’ per lo stadio. Ho trascorso delle ore serene insieme agli altri musicisti: abbiamo girato dei filmati di backstage mentre parliamo come fossimo lì semplicemente ad aspettare che cominci una partita.
Uscirà un dvd della serata?
Qualcosa è stato ripreso ma non so ancora dire quanto tecnicamente sia realizzabile. Sicuramente si valuterà.
San Siro è stato memorabile per molti. Un concerto invece memorabile per Van De Sfroos come spettatore?
Peter Gabriel all’Arena di Verona, inizi del ’90, il tour di So. Un concerto per me memorabile con la formazione storica di Gabriel, grandi musicisti che improvvisavano e Youssou N’Dour, ancora quasi sconosciuto, che apriva il concerto.
A proposito di musica etnica, il tuo repertorio è prevalentemente caratterizzato dal dialetto laghée. Ora il dialetto, che sembrava un limite per l’affermazione nazionale di un artista, per te è stato un vantaggio, ne sei un lampante esempio. Ad oggi, dopo anni di carriera, tu come spieghi questo successo?
Ho cantato storie in questo stile perché è stato naturale così, senza studi a tavolino. É qualcosa che ha a che fare con le radici prima di tutto. La forza dei queste canzoni, che arriva a toccare profondamente le persone, deriva dal fatto di sentirsi protagonisti delle emozioni che canto. È un linguaggio preciso. Da un lato c’è una lingua tronca ed immediata come l’inglese, bellissima da cantare, dall’altra storie ben raccontate con questo suono magico. Gli ascoltatori che le capiscono ne sono colpiti in un certo modo, quelli più lontani le sentono come qualcosa di esotico, un po’ come quando io ascolto il siciliano, il sardo o i musicisti occitani. Per quanto mi riguarda ho sempre saputo che questa scelta non mi avrebbe permesso di imboccare certe strade o arrivare in determinate radio. Ho vissuto in un periodo in cui certa musica sembrava destinata a qualcosa di “passato” poi qualche settimana fa 20.000 persone mi hanno confermato che non è così.
Chi è il pubblico di Van De Sfroos?
La mia musica interessa il musicista punk o metal, il jazzista, lo studente come l’ubriaco o il tifoso di calcio, il macellaio, il casellante e il campione di moto cross che riconosce in quella musica una sua identità. E poi è transgenerazionale: i bambini sono molto sensibili a questa musica, insieme ai loro genitori miei coetanei ma anche gli anziani. C’erano tante coppie di anziani anche a San Siro.
Prossimi progetti?
D’estate sarò in giro in serate di chitarra e voce in piccole situazioni, con incontri e interviste. Nel frattempo sto lavorando a del materiale che poi verrà pubblicato appena ultimato.