Il Principe Ranocchio: una partitura complessa e articolata, assolutamente degna di uno spettacolo “maturo” in cui non c’è stato spazio alcuno per la banalizzazione di cliché o per un facile prodotto “usa e getta”. Nella migliore tradizione del musical ogni personaggio, ogni situazione ha un suo ben preciso sound che è frutto di una raffinata ricerca musicale e di un efficace approfondimento psicologico.
Il mantra del teatro musicale italiano è “Oh, ma quanto è difficile far riavvicinare il pubblico televisivo agli spettacoli dal vivo”. Del resto non che la cosa sia di esclusivo appannaggio nostrano: il buon Jonathan Larson, per portare una nuova generazione di spettatori a vedere il suo RENT che di fatto avrebbe ringiovanito non solo le platee ma -grazie al successo ottenuto- proprio la drammaturgia del settore per gli anni a seguire, fece in modo che la produzione offrisse i biglietti per universitari a prezzo stracciato.
Sia come sia, la necessità di inventare sistemi, linguaggi, escamotage che rimpinguino l’endemica carenza di pubblico pagante viene affrontata singolarmente dai diversi produttori con modalità differenti, ma una vera soluzione definitiva ci sarà solo attraverso una lungimirante e paziente opera che coniughi qualità e programmazione. Iniziando però, magari da subito, a guardare con occhio diverso (e con rispetto) le nicchie.
Tra queste è senza dubbio importante quella che si riferisce ai “family show“. Sono molte ormai le compagnie che in Italia si sono rese conto dell’esistenza del “mercato” delle pomeridiane e dei matinée nei weekend, fasce orarie nelle quali il “tutto esaurito” è relativamente facile da ottenere essenzialmente grazie alla scelta di un titolo “furbo”. Del resto intere generazioni di bambini sono stati cresciuti con dvd della Disney e relativi musical (non lo si pensa spesso, ma è fondamentalmente sbagliato limitarsi a chiamarli “cartoni animati”: sono musical a tutti gli effetti, con il lavoro – spesso – di eccellenti musicisti più volte insigniti di premi che vanno dall’Oscar al Tony. Pensate a Elton John, Alan Menken, Phil Collins eccetera: tutti hanno composto musiche per questi… “cartoni”).
Da qui il proliferare di vari spettacoli in forma di jukebox musical che rimasticano il patrimonio musicale (e drammaturgico) di favole note in cui non è raro riconoscere in scena alcuni tra i più bravi performer italiani chiamati ad interpretarle. E visto che il settore si è dimostrato ricettivo (senza dimenticare che, come ha insegnato Larson pensando in termini di media-lunga portata, i giovani spettatori di oggi sono adulti spettatori di domani), inevitabilmente l’offerta si è differenziata ed evoluta, arrivando finalmente a proporre anche prodotti del tutto originali, come nel caso de Il Principe Ranocchio. Messo in scena dalla Compagnia BIT di Torino, il punto di partenza in questo caso non è stato un film ma la favola dei fratelli Grimm, adattata per l’occasione.
A fronte di un curatissimo allestimento portato in tournée in molte piazze d’Italia nel corso delle ultime due stagioni (e malgrado questo sia una testata dedicata alla musica mi si permetta una velocissima ma doverosa menzione ai costumi di Marco Biesta e agli effetti speciali di Alessandro Marrazzo) quello che mi preme sottolineare è che per questo spettacolo è stata composta una colonna sonora ad hoc, scritta per l’occasione da un valente team di autori: Marco Caselle (autore anche delle liriche), Stefano Lori e Gianluca Savia.
La formazione da cantante jazz e performer di Caselle si è incontrata con il background da musicista e arrangiatore di Lori (ha suonato a eventi come Pavarotti & Friends o al Festival di Sanremo, oltre ad aver fatto parte dell’Orchestra della Compagnia della Rancia per undici diversi musical) e Savia (diplomato al Conservatorio G. Verdi, ha all’attivo oltre 2000 concerti dal vivo), per creare una partitura complessa e articolata, assolutamente degna di uno spettacolo “maturo”.
Ho particolarmente apprezzato appunto il fatto che malgrado il pubblico di riferimento sia ovviamente in massima parte fatto da bambini, non c’è stato spazio alcuno per la banalizzazione di cliché o per un facile prodotto “usa e getta”. Nella migliore tradizione del musical ogni personaggio, ogni situazione ha un suo ben preciso sound che è frutto di una raffinata ricerca musicale e di un efficace approfondimento psicologico: la strega cattiva (a cui presta la propria potente voce Lucrezia Bianco) ha un tema con chitarre distorte e sonorità rock. Il maggiordomo “bacherozzo” (un ottimo Umberto Scida) invece si immerge in brani che ripescano dalla grande tradizione dell’operetta, il principe-ranocchio (Marco Caselle, in questo caso nella veste di performer) ha il suo “I am number” con una tipica ballad pop-rock attraverso la quale veicola il messaggio morale della favola -il valore della diversità- e così via, fino ad arrivare alle easter eggs delle citazioni di Rossini nascoste negli arrangiamenti e soprattutto ai numeri corali che ripropongono l’esempio del grande musical in stile Broadway.
Il risultato è una colonna sonora di indiscusso pregio offerta in vendita online o nei foyer durante le repliche che, esattamente come lo spettacolo per la quale è stata composta, può essere apprezzata dall’intera famiglia.
Dispiace solo notare come, parlando di nicchie, il mercato discografico (e relativa distribuzione) valutando un prodotto di qualità come questo non si sia ancora reso conto delle grandi potenzialità del settore delle colonne sonore teatrali, incentrato com’è su una affannosa ricerca di progetti con appeal radiofonico, ma a prescindere dall’ovvia valenza culturale che avrebbe un’operazione di questo tipo, anche il ritorno economico dovrebbe a rigor di logica diventare ben presto parte dell’equazione.
Più gente si avvicina al teatro musicale infatti, più gente diventa potenziale acquirente del relativo prodotto discografico. Più prodotti discografici relativi al mondo del teatro musicale vengono proposti al pubblico, più gente si avvicina al teatro. E via dicendo, fino alla creazione di un inevitabile circolo virtuoso.