Musica361 ha incontrato il giornalista e critico Stefano Gilardino, autore per Hoepli del libro “La storia del punk”. Un genere che ha influenzato non solo la musica ma anche letteratura, arti visive, mode e vita culturale persino in Italia.
Cos’è o per lo meno cos’è stato il punk? «Una grande rivoluzione musicale e non solo che ha avuto il merito di azzerare un processo di “involuzione” del rock, divenuto fino alla metà degli anni Settanta sempre più complicato per il grande pubblico. Era arrivato il momento in cui la musica rock doveva essere tolta dall’impasse in cui era finita e il punk ha avuto sicuramente questo merito», afferma Stefano Gilardino. Protagonisti di questa rivoluzione musicale gruppi come Sex Pistols, Clash e Ramones anche se, è bene ricordare, il punk è uno stile che ha influenzato non solo la musica ma numerosi altri aspetti socio-culturali e forme d’arte come letteratura, arti visive e persino mode: «Fu una rivoluzione a 360° che dalla metà degli anni Settanta caratterizzò un momento di liberazione da schemi e regole precedenti, contaminando il mondo musicale almeno fino alla fine degli anni ‘90: quasi tutti i generi di oggi hanno un debito verso il punk, persino l’elettronica ne ha mutuato delle intuizioni, fosse solo il concetto del “Do it yourself”, incidendo e distribuendo dischi autonomamente. A 40 anni di distanza dalla sua nascita questa influenza ancora si percepisce».
Cosa è rimasto però dopo 40 anni di quella filosofia estrema, fatta di anarchismo e apoliticità? «Della pura filosofia punk oggi è rimasto poco, piuttosto certe istanze e valori che si sono evoluti: nel 1977 rappresentava un estremismo etico e musicale, mentre negli anni ’80 e ’90 fu caratterizzato a livello politico, con l’abiura di multinazionali, passaggi televisivi o concessioni commerciali. Sono scelte che si possono capire seguendone l’evoluzione: credo che quello spirito rivoluzionario, per essere incarnato, debba necessariamente passare per la cantine buie e umide e per la propria autogestione. Se accetti il gioco commerciale ti presti inevitabilmente ad un sistema che non è più quello alternativo del punk: di fatto non sei più un carbonaro, sei popolare». Precisa però Gilardino: «Non sta a me decidere chi sia punk e chi no, non ho compiuto un’analisi sociologica ho solo raccontato una storia con tutte le sue contraddizioni. E la prima è proprio che, a dispetto di ogni previsione, il punk è diventato uno degli stili musicali più influenti di fine Novecento».
Il fenomeno ha toccato a suo modo anche il nostro paese, come spiegato in un capitolo a parte: «In Italia il punk delle origini ha interessato forse qualche centinaio di persone, comunque si è declinato in maniera differente a causa della durissima realtà politica: nel 1976 l’ultimo festival a Parco Lambro, nel 1977 l’omicidio di Francesco Lorusso, l’anno successivo le BR avrebbero rapito e ucciso Moro, un clima insomma che non consentiva troppo spazio a novità discografiche che avessero potuto rinfocolare ferite fresche. Non si poteva cantare di anarchia, pertanto fu prevalentemente vissuto come fenomeno di costume: le riviste musicali etichettavano il punk come musica per ragazzini, mentre i rotocalchi pubblicavano articoli sulla nuova moda londinese fatta di vestiti stracciati, spille da balia e capelli dritti, niente di più». Ci fu però anche chi intuì la carica rivoluzionaria del punk: «Quello che considero o mi piace pensare che sia stato il primo disco punk italiano è Inascoltable (1977) degli Skiantos, che hanno avuto il merito di aprire una via italiana molto personale rispetto a quello che arrivava dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. E poi gli HitlersS/Tampax a Pordenone, a Milano i Decibel di Ruggeri e i Krisma di Maurizio Arcieri, già anticipatori della New Wave».
Nel libro La storia del punk Gilardino racconta questa rivoluzione, celebrandola in occasione del quarantennale di Never mind the bollocks primo album cardine dei Sex Pistols pubblicato nel 1977, annus domini dell’era punk: «Il libro parte in realtà dal 1967, anno della mia nascita, dunque un modo per celebrare anche me che compio quest’anno 50 anni e la mia carriera di collezionista e agitatore punk, compresa la mia testimonianza di quando scoprii quel disco a 10 anni». Ad oggi in Italia non esisteva un testo del genere, dunque un’occasione perfetta per chi voglia farsi un’idea più precisa del punk: «Non è un’enciclopedia ma una raccolta di storie accattivanti da leggere, non necessariamente in ordine cronologico. Si scoprono tante curiosità». Diversi sono i livelli di approfondimento, con box e schede ma anche aneddoti e le recensioni dei dischi migliori, interessanti anche per gli esperti: «C’è tanto da gustare ma soprattutto il valore aggiunto è che molte delle interviste contenute nel volume sono state realizzate da me personalmente, ad esempio quelle a Joe Strummer dei Clash, John Lydon dei Sex Pistols ma anche Patti Smith o Henry Rollins».
Ultima domanda, di rito, non può che essere: punk is dead? «No, it’s alive! Il suo spirito si è conservato in occidente in tante forme, mentre in altri paesi orientali o africani in cui la libertà personale è limitata, indossare una maglietta dei Ramones o dei teschi sulla maglietta può ancora oggi causare problemi di ordine pubblico, persino farti condannare per apostasia o blasfemia. E anche in Italia a livello underground credo che esistano ancora centinaia di band che suonano quella musica con lo spirito giusto. Dicevano che era “dead” nel 1978 ma se ha resistito 40 anni può resisterne almeno altri 40».