Avrebbe compiuto domani 75 anni Janis Joplin, la leggendaria cantante americana simbolo di una generazione: il ricordo di Musica361, per chi l’ha vissuta e per chi ancora non la conosce.
Se non avesse passato da sola quell’ultima notte del 4 ottobre 1970 nella stanza di un desolato motel a Hollywood probabilmente avrebbe cantato ancora e dopo quello che è stato il suo ultimo disco, Pearl (1970), avremmo ascoltato altri pezzi memorabili. Si sarebbe verosimilmente esibita dal vivo numerose altre volte, anche nel nostro paese, e avrebbe collaborato con artisti contemporanei o magari li avrebbe prodotti. Oppure si sarebbe ritirata, avrebbe lasciato alle spalle quella vita e abbandonato la musica per dedicarsi ad altro. Non lo sapremo mai. Quello che è certo è che il destino, 48 anni fa, ha deciso di consegnarla definitivamente alla storia non solo come la prima artista a imporsi in quel virile mondo rock’n’roll ma anche come membro del funesto “Club dei 27” dopo Brian Jones e Jimi Hendrix.
Sebbene, come loro e molti altri, scomparve immaturamente in quell’età in cui solitamente si comincia a vivere, per lei la morte segnò solo la fine di una carriera terrena ma la consacrazione immortale come “voce femminile più blues della storia del rock”, di quel blues ancora considerato ai suoi tempi “la musica dei neri”, quella ispirata al dramma della segregazione, tanto più in quel Texas tradizionalista e bigotto dal quale lei, bianca, proveniva.
Ball & Chain (Monterey Pop Festival, 1967)
Per Janis, «una di quelle normali strane persone» come amava definirsi, il blues ha rappresentato fin da adolescente una sorta di terapia al suo profondo male di vivere, un vero conforto fin da quando a scuola veniva esclusa e bullizzata proprio per la sua eccentricità. Grazie a quella musica e al canto scoprii un modo per esorcizzare la sua fragilità e trovare riscatto: «Sul palco faccio l’amore con 25 mila persone. Poi torno a casa sola». Aveva una concezione autenticamente hippie e romantica della musica: «Essere un’intellettuale crea molte domande e nessuna risposta. Puoi colmare la tua vita con idee e continuare a tornare da sola a casa. Tutto quello che hai e che importi veramente sono i sentimenti. Questo è la musica per me».
Summertime (Francoforte, 1969)
E questo approccio genuino ancora oggi traspare non solo dalle interpretazioni dei suoi quattro album, due con la Brother and the Holding Company e due da solista, ma soprattutto dalla testimonianza delle sue storiche esibizioni come quella al Monterey Pop Festival del 1967 e Woodstock 1969, con le quali si è guadagnata un posto di rilievo nell’immaginario rock.
Piece of my heart (Woodstock, 1969)
Artista sgraziata eppure sex-symbol, simbolo dell’emancipazione femminile eppure insicura al punto da cercare consolazioni artificiali nelle droghe per riuscire a sopportare quelle sue relazioni travagliate se non fallimentari con uomini e donne, finì per autodistruggersi morendo «di overdose di Janis» come avrebbe dichiarato Eric Burdon degli Animals commemorandola.
Molti si chiederanno oggi in che modo avrebbe festeggiato i suoi 75 anni, lei che nel 1995 è stata inserita nella Rock and roll hall of fame, insignita nel 2005 del Grammy Award alla carriera e classificata 28° da Rolling Stone tra i 100 cantanti più importanti di tutti i tempi nel 2008. Sarebbe sopravvissuta al suo mito? Difficile immaginarselo oramai dato che nessuno sarebbe più abituato a vedere invecchiata quell’artista diventata icona e più di tutto quella voce, capace di sprigionare in ogni interpretazione quella inconfondibile, sofferta e intensa vitalità apprezzata da tante generazioni. Quella stessa voce che ammoniva «Devi prendere quello che hai finché sei in tempo. Puoi distruggere il tuo presente preoccupandoti del tuo domani», senza nemmeno presagire cosa invece il futuro le avrebbe ancora riservato.
Cry baby (Live)