Complice il successo della recentissima bio-fiction “Fabrizio De André – Principe Libero” e l’anniversario della nascita il prossimo 18 febbraio, Musica361 vi invita a (ri)scoprire il cantautore genovese a partire da tre album fondamentali. Soprattutto per le giovani generazioni
Fabrizio De André è un cantautore italiano divenuto celebre a partire dagli anni ’60 grazie a numerosi singoli di successo, da La canzone di Marinella a Bocca di Rosa, da La guerra di Piero a Via del Campo ma è soprattutto dagli anni ’70 in poi che ha cantato con voce e chitarra numerosi e toccanti episodi dal gusto letterario che sono andati a costituire quella serie di affreschi popolari dedicati agli “ultimi” presenti nei suoi album. O meglio si trattava di veri concept album, dischi cioè formati da brani legati tra loro da una tematica comune e grazie ai quali un artista poteva raccontare più che una semplice storia. La discografia di Faber meriterebbe di essere scandagliata brano per brano ma a coloro che, nell’era delle playlist, ancora non conoscono l’eredità musicale degli interi concept del cantautore genovese suggeriamo di cominciare da tre album fondamentali. Buon ascolto.
La Buona Novella (1970)
Questo concept viene considerato dallo stesso De André e da molti critici il suo capolavoro assoluto. Ispirato dal paroliere Roberto Dané ai Vangeli Apocrifi venne pubblicato in un periodo storico in cui in Italia c’era più trasporto per utopiche rivoluzioni sociali rispetto alla vita di Gesù Cristo. Gli universitari militanti del tempo lo consideravano anacronistico ma nelle intenzioni di De André il disco voleva anzi essere ed è un’allegoria dell’allora situazione politica, considerando Gesù di Nazaret il più grande rivoluzionario di tutti i tempi: «I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica», sosteneva Faber. Seguendo un fil rouge sociale ed etico De André, raccontando l’infanzia di Maria introdotta da Laudate Dominum fino alla crocifissione, narra la vita di Cristo da un punto di vista umano (Si chiamava Gesù), ricorrendo alle testimonianze di altri personaggi spesso trascurati dai Vangeli ufficiali, dal falegname al ladrone crocifisso ne Il testamento di Tito, figura attrverso la quale enuncia una sorta di manifesto col quale da un lato demolisce i dogmi religiosi e dall’altro si commuove di fronte alla condizione umana della morte in croce. Ne La buona novella ogni brano possiede rime e immagini affascinanti e l’ascoltatore gode in ogni momento di una mirabile maturità poetica nella musicalità delle parole e dei maestosi arrangiamenti di Danè e Riverberi, che a loro volta sanno enfatizzare con atmosefere cupe la drammaticità dei brani.
Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971)
Concept album tra i più emblematici secondo il parere dei fan e nato da un’idea del produttore Sergio Bardotti. L’ispirazione viene ancora da un testo letterario, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master nella traduzione di Fernanda Pivano: De André racconta otto personaggi sepolti a Spoon River attualizzando ogni miseria umana in tratti crudi e schietti, dal nano diventato giudice per vendicarsi di coloro che lo avevano deriso al blasfemo ucciso da “due guardie bigotte” per aver affermato che Dio prese in giro il primo uomo nascondendogli l’esistenza del bene e del male. Tra i defunti anche casi felici come un malato di cuore stroncato da un infarto nella sua unica ora d’amore dopo anni passati “a farsi narrare la vita dagli occhi” e la vicenda de Il suonatore Jones che dà il titolo al disco: una vita spensierata passata a suonare per strada e per gli amici senza curarsi di altro (“lui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo”). Difficile rintracciare connotazioni politiche, piuttosto ammalia ogni esperienza umana raccontata raffinatamente ma senza ipocrisie: il disco, scritto con Giuseppe Bentivoglio, è complesso dal punto di vista lirico per la ricchezza di sfumature umane ma reso memorabile dal punto di vista musicale grazie agli ottimi arrangiamenti di Nicola Piovani eseguiti da musicisti di alto livello.
Crêuza de mä (1984)
Un album che sembrava commercialmente concepito contro le regole del mercato conquistò invece critica e pubblico che ancora oggi lo considera un capolavoro inarrivabile. Quando con la fine degli anni ’70 si assiste ad un generale cambiamento sociale De André si mette alla ricerca di nuovi contenuti e nuove sonorità interessandosi alla musica etnica e alla world music, indagando soprattutto le proprie radici. Risultato di questa ricerca è un album cantato nella varietà ligure-romanza dell’antica Repubblica genovese, lingua apprezzata per la sua eterogeneità dovuta a secoli di commerci, scambi e viaggi. “Crosa” è un termine genovese che si riferisce a quei sentieri che portano in piccoli borghi marinareschi o nell’entroterra e Crêuza de ma (“Viottolo di mare”) allude ad un fenomeno meteorologico del mare che, sottoposto all’azione del vento, assume striature argentate simili a fantastiche strade. De André curò ogni testo in dialetto impreziosendo i quadretti di vita dedicati alla sua terra, mentre per le musiche e gli arrangiamenti fu assoldato il polistrumentista Mauro Pagani, ex membro della Premiata Forneria Marconi, che vi suonò mandolini e strumenti greci aggiungendo pure registrazioni di ambienti marinareschi o portuali – come le voci dei venditori di pesce al mercato ittico di Piazza Cavour a Genova –, conferendo così al disco quella tipica atmosfera mediterranea che si sposa magnificamente alle liriche dialettali in tema di mare, viaggi e nostalgie. In alcuni momenti sono le stesse parole a creare melodie folkloristiche come nella celebre title-track ma ogni canzone farà scuola, aprendo la strada a molti altri cantautori come Van De Sfroos, che sempre più si dedicheranno alla contaminazione della canzone d’autore con sonorità etniche.