AdriaCo: l’amore per salvarsi dall’ “Assedio”, il nuovo brano riflette sulle dinamiche che appesantiscono gli anni di passaggio alla vita adulta, l’amore unica strada che dà un senso al tempo finito che abbiamo
AdriaCo, cantautore romano, cresce con la musica insieme ai suoi genitori e molto presto trasforma questa passione nella sua professione. La musica per lui è sempre stata uno sfogo e un passatempo, ma anche una fonte di ispirazione. AdriaCo è la naturale evoluzione di ACo e ne conserva l’idea di fondo, che non possa esistere Adriano senza il Co, fatto di persone che credono nel progetto e lo portano avanti insieme.
Inizio subito col chiederti, come hai scelto il tuo nome d’arte AdriaCo?
Questa scelta ha una lunga storia, nasce dal vecchio nome del progetto, ossia ACo, fuso con il mio nome di persona. ACo viene dall’età adolescenziale, perché a 12 anni andai ad un campo estivo con un mio gruppo di amici, senza genitori, e ci siamo attribuiti a vicenda dei nomignoli, e da lì è nato tutto. Da quel momento in poi iniziai a scrivere le mie prime canzoni, cercavo un nickname che potesse rappresentarmi.
La passione per la musica te la porti dietro da sempre?
Assolutamente sì, la mia è una famiglia molto musicale anche se sono il primo ad averla coltivata come professione. Quando ero bambino si cantava tanto soprattutto in macchina ed erano tutti intonatissimi. C’era una predisposizione e allo stesso tempo anche un’esposizione alla musica. Loro non mi hanno mai scoraggiato ma devo dire che tutte le scelte in merito a questo lavoro le ho prese tutte in modo autonomo e libero.
Qual è lo strumento che senti più tuo?
Sicuramente il pianoforte è lo strumento su cui scrivo e mi fa ritrovare con me stesso; poi nel tempo la voce è diventata più importante.
In questo percorso hai preso anche lezioni di canto?
All’inizio con la mia famiglia vedevamo tutto questo come un gioco quindi non prendevo lezioni di nessun genere, era come un passatempo. A 19 anni mi sono accorto che la mia voce non era abbastanza educata e quindi mi sono rivolto ad un insegnante di canto, e da lì è iniziato un percorso che mi ha fatto appassionare sempre di più alla tecnica vocale.
C’è un artista a cui ti ispiri maggiormente?
Tra gli italiani, una mia musa è sicuramente Elisa. Anche Daniele Silvestri è sempre stato un punto di riferimento, mi ispira dal punto di vista testuale perché ha un’ottima capacità di concatenare le parole. A livello internazionale, ti dico Peter Gabriel per il suo mondo dei suoni e di ricerca. Sono tutti artisti con i quali sono cresciuto e infatti si sente la mia impronta anni ‘90.
Ora sposto il focus sul tuo ultimo singolo “Assedio”. Ci racconti com’è nato questo brano?
È un brano recente dal punto di vista del testo rispetto a molti altri presenti nell’album che, come dice il titolo, sono “Collezioni di arretrati” di canzoni mai uscite ma rimaste parcheggiate. “Assedio” è un po’ la chiave di volta dell’album perché in qualche modo al conflitto presente nel disco risponde nell’ottica dell’amore rivolto alle persone più care che abbiamo intorno. Avevo in mente quest’idea di una vita sotto assedio.
Cosa vuoi comunicare di preciso a chi l’ascolta?
Di non aver paura di essere sé stessi, di lasciare che tutti possano vederci per quello che siamo.
Quale sonorità hai scelto di utilizzare?
Questo brano mette insieme la natura più rock della mia scrittura con la ricerca di suono che passa attraverso samples elettronici. Abbiamo inserito anche contaminazioni un po’ tribali per richiamare l’idea della guerra, quindi dell’assedio.
Tra questo singolo e quelli precedenti c’è un filo che li tiene uniti?
In origine l’idea era proprio quella di pubblicare tutte le canzoni dell’album come se fosse una sorta di storia. C’è un senso filologico da seguire, “Cicatrici” è un ottimo punto di partenza perché mette al centro il conflitto ma è ancora poco definito e non risolto. Già in “Amati” si capisce che tutto è rivolto verso me stesso e l’immagine che ho di me. “Assedio” è una presa di posizione chiara ed evidente. Tutto quello che pubblicherò da adesso in poi sono tutte tracce positive, segnano una rinascita interiore.
Quando uscirà questo album?
In teoria dopo un anno di “Cicatrici”, quindi stiamo parlando del prossimo autunno.
Ci spieghi in “Amati” la scelta di mischiare l’inglese con l’italiano nel testo?
In realtà io ho sempre scritto più in inglese che in italiano, mi veniva più facile e l’ho sempre studiato da autodidatta attraverso la musica. “Cicatrici” è nata così e poi l’ho tradotta in italiano ed è stato un momento di svolta per me. L’inglese è stato un rifugio perché nei primi tempi avevo un po’ paura di mettermi a nudo e di far capire agli altri di cosa stessi parlando, mi aiutava a filtrare dolori e disagi che potevo inserire nei testi. Avevo creato una strana situazione per cui le canzoni tristi le scrivevo in inglese e quelle felici in italiano. Ora mi sono sbloccato ed infatti ho voluto che questo album venisse fuori tutto in italiano. Volevo un disco che potesse parlare al pubblico a cui ho più accesso in questo momento.
Come trovi l’ispirazione per mettere nero su bianco?
Sono molto istintivo e anche un po’ caotico. Tendenzialmente parto sempre dalle emozioni, mi sembra di fotografare un istante emotivo. Ho idee musicali che ripesco dal cassetto e le plasmo sul testo.
Come hai vissuto il passaggio dall’età giovanile alla vita adulta?
C’è sempre un impatto un po’ traumatico nel realizzare che il mondo spesso ci mette difronte a dei limiti. Questa è una pillola da mandar giù. Il tempo è il limite più grande per me, non c’è tempo per fare tutto, bisogna darsi delle priorità. “Assedio” risponde con l’amore a questo problema. Quello che mi rimette al mondo e al centro della mia vita sono sempre i rapporti umani, l’amore in tutte le sue sfaccettature.
Tu che sei di Roma, che ne pensi della scena musicale romana attuale?
È una scena molto ricca e complessa. Ma, secondo me, è più giusto parlare di scene al plurale, Roma è piena di microclimi e microhabitat. È una realtà in cui c’è tanta carne al fuoco ma non c’è spazio per tutto e tutti. Si insegue ciò che è più vendibile ma questo non è un problema solo della capitale. È uno sbaglio commesso in primis da noi musicisti che abbiamo paura di non bucare, tendiamo quindi ad omologarci. Alcune varietà però riescono a salvarsi, ci sono progetti di nicchia interessanti da ascoltare nei concerti. C’è musica di tutte le età che parla ad una fascia più ampia di persone.
Come occupi la tua quotidianità oltre alla musica?
Bella questa domanda e ti ringrazio per avermela fatta! Ci sono stati tanti anni in cui avevo messo solo la musica al centro della mia vita e non sapevo più cos’altro mi piacesse fare. La pandemia mi ha aiutato a rallentare e a ritrovare un po’ me stesso; sono andato a caccia dei miei hobby, e ho riscoperto la passione per i giochi da tavolo che presuppongono sempre una compagnia intorno e quindi non ti fanno mai sentire solo. Mi piace passeggiare nei parchi e nel mentre ascolto sempre valanghe di musica.
C’è una canzone che avresti voluto scrivere?
È una canzone di Sara Bareilles, artista canadese bravissima, dal titolo “Islands”. Mi piacciono moltissimo sia la melodia che il testo. Dal significato che ne viene fuori si impara ad essere come delle isole.
Se non avessi fatto il cantautore cosa avresti fatto nella vita?
Probabilmente avrei proseguito con il percorso di studi di scienze naturali e chissà poi che opportunità si sarebbero aperte.
Hai un sogno musicale nel cassetto che vorresti realizzare?
A me piacerebbe tantissimo fare una tournée europea, anche come opening di qualche artista celebre.
Programmi per il futuro?
Tante belle cose in arrivo, tra cui nuovi singoli. Insieme all’album poi ci sarà una live session in cui registreremo altri brani. È un’occasione per ricominciare a suonare e a viverci di più. Sto allestendo anche un piccolo studio a casa perché mi piacerebbe fare delle cover tra le mura domestiche.
Articolo a cura di Simone Ferri