Andrea Andrillo con “Canto per te che vai” celebra la musica come biglietto di andata e ritorno, un canto ostinato di un amore che non intende finire al finire del tempo
Il brano, contenuto nell’album “Bella Cantendi”, di Andrea Andrillo è un canto ostinato di un amore che non intende finire al finire del tempo; la voglia di non arrendersi di due persone che si amano prevale sul filo di un limite che li divide.
Andrea Andrillo è un musicista esperto e un artigiano in tal senso, sardo di radici e di vita. Anziché un cantautore, ama definirsi un “portatore di canti”, perché ciò che sente dalla vita lo trasforma in musica; inoltre, possiede una voce particolare e una scrittura molto figurativa.
“Bella Cantendi” è un disco combat, un concept poetico e politico che racconta un cammino condiviso che dal buio porta verso la luce. Un progetto corale e profondo, dalla struttura solida e potente. Le tracce presenti sono pensate come stazioni di un sentiero virtuale, un tributo alla memoria di chi non c’è più, ma è anche un inno senza compromessi al coraggio e alla dignità di chi, invece, ancora c’è e prosegue la lotta.
Volevo aprire questo nostro dialogo domandandoti che impatto ha avuto e ha tuttora la musica nella tua vita?
Un impatto decisamente totalizzante. Io nasco, muoio, rinasco e rimuoio di nuovo per anni come musicista. Dopo anni di silenzio sentivo il bisogno di ricominciare, fuori dalle logiche delle band. Comincio con un EP autoprodotto nel 2015 e poi nel 2018, grazie all’interessamento di Gianni Maroccolo che mi presenta all’etichetta toscana, la Radici Music Records, entro in contatto con determinate persone e realizzo il mio primo disco da solista. Il mio motore è basato tutto sul grande principio della condivisione. Non riesco ad immaginare la mia vita senza la musica, mi ha salvato ripetutamente.
Qual è lo strumento che ti dà più gusto suonare?
Sono un ex suonatore di tromba ma ho voluto fortemente abbracciare la chitarra affinché mi accompagnasse in questo lungo viaggio. Per come sono fatto, la chitarra non la suono ma la canto, è un prolungamento della mia voce. Mi sta dando delle soddisfazioni immense. Dentro di sé questo strumento ha un’acustica e uno scibile di suoni che ti sorprendono. Mi racconta sempre qualcosa di diverso a seconda di come metto le mani e di come tocco le corde.
Come nasce questo nuovo album “Bella Cantendi”?
È un album variegato e strutturato un po’ come un sarto intento a cucire un abito da sposa, c’è qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di prestato e qualcosa di blu. Di tracce prestate ce ne sono ben 2, una dei Brigata Stirner dal titolo “Parlami d’Amore”, un brano appartenente a questo gruppo che ho voluto collocare nella prima parte del disco, e l’altra di Giacomo Deiana, un bravo cantautore, chiamata “Tutto tramonta”, inserita appositamente nella seconda parte.
Principalmente questo progetto è diviso in 2 parti: la prima è buia, composta dalle prime 5 tracce, e poi c’è una parte di rinascita che prende forma dalla poesia di un poeta visionario come William Blake, “Morning”, una cerimonia contro la rabbia, in cui si rientra nella luce, per poi arrivare in fondo con “Canto per te che vai”. Questo cammino, che si svolge dal buio verso la luce, nasce come un disco che esprime solidarietà alle persone transgender, diventa immediatamente anti-misogino e mediante la band citata precedentemente assume una valenza anche antifascista. Seguendo passo dopo passo la tracklist diventa un cammino poetico condiviso, tenendosi per mano. È un album che rende di più all’analogico anziché al digitale.
Ho visto il videoclip del tuo ultimo singolo “Canto per te che vai”: mi ha colpito che questa artista abbia realizzato un tuo ritratto. Com’è nata quest’idea?
Questa canzone fa la stessa cosa con la musica e le parole, cioè ti ritrovi difronte a un muro oltre il quale non si può andare. Il messaggio è: tu sei andato oltre e io sono qui, non ti posso più raggiungere. Non voglio arrendermi e ti lancio un messaggio d’amore…“ci provo sai, canto per te che vai…”. Volevi restare ma se dovuto andar via. Quando lei termina il ritratto i due si sorridono, lei ancora qui, lui che sta dall’altra parte, lei si alza, esce dalla stanza, si sfila l’abito usato per dipingere, apre la porta, viene immersa dalla luce e procede oltre rientrando nel mondo dei vivi. È tutto profondamente simbolico, è una cerimonia di evocazione. È l’ultimo brano che chiude il disco.
Spostandoci sulle tue origini geografiche, la Sardegna per te funge da fonte d’ispirazione?
Sì, totalmente. Questo continuo miscuglio di lingue può da un lato confondere il pubblico ma nel mio caso non è mai successo perché tutto ciò nasce da un desiderio di autodeterminazione di affermazione della propria identità, diventa un discorso serio. In un mondo che ti vuole diverso imposti un canto su una lingua come il sardo che ha poco interesse attualmente, ma al tempo stesso ti contraddistingue e ne costruisci la tua base anche quando non lo usi direttamente. Rendi viva una lingua in via d’estinzione. La canzone deve essere gradevole, deve arrivare, può essere intesa anche come un momento di svago. Chi l’ascolta deve provare piacere nel farlo.
Ti volevo chiedere infatti perché questa scelta di usare più lingue diverse all’interno dello stesso album o addirittura dello stesso brano?
Perché in questo modo porti qualcosa di personale, qualcosa di te che ti definisce; la porti a contatto con cose esterne. C’è l’italiano, l’inglese, il sardo, e un pizzico di francese: servono a creare questa piccola torre di Babele che comprende più suoni e più atmosfere. Ha una connotazione politica ma non solo, prevale l’essere se stessi. È una presa di posizione forte verso un mondo che non ti vuole come sei.
Ho letto che hai conquistato diversi premi in questi anni: che effetto ti fa ogni volta guardarli nella tua bacheca?
Innanzitutto, ti dico che, anche se non li avessi vinti, non sarei minimamente cambiato. I premi ti dicono che quello che tu fai può avere una valenza pubblica. È una cosa che tu fai con il tuo privato e diventa pubblica dal momento in cui riesci a condividerla.
Questa è la base di tutto, se non condividi rimani chiuso in te stesso; se lo fai puoi notare in che direzione va la tua condivisione. Però bisogna stare attenti a non rimanere intrappolati: il vero premio è quando ogni sera ti rimetti in gioco e a fine concerto ti fanno sapere che sei arrivato al tuo pubblico, li hai stupiti e li hai presi in pieno emozionalmente parlando.
Quelli non sono premi ufficiali ma sono i più importanti perché ti danno la forza di andare avanti. Mi capita spesso che alla fine dei live la gente viene, ti abbraccia; anche questo è sinonimo di salvezza. Loro non lo sanno ma è così, è una grande forma di condivisione reciproca. Loro ti restituiscono tutto quello che tu gli doni durante i live. È un’energia meravigliosa che va e che viene, che si muove tra la gente all’interno della platea.
Come descriveresti la tua musica con tre aggettivi?
Diversa, facile e difficile.
Scegli una tua canzone a cui sei particolarmente legato…
Si intitola “Si ‘ocit sa vida”, che in sardo significa ci uccide la vita. Che sia leggera o pesante, ciò che ci uccide è la vita, ma canterò in faccia al mondo che l’amore che sento dentro di me è quello che mi salverà. Credo sia il mio brano più rappresentativo perché dà l’idea del perché faccio quello che faccio.
Qual è il verso di una tua canzone che ti racconta meglio?
Deve ancora uscire ma te l’anticipo: “vorrei avere la saggezza di un fiume che docile si lascia andare, si stende, muore, diventa mare”. C’è tutto qui.
Articolo a cura di Simone Ferri