È andato in scena a Genova un festival hip hop che non si era mai visto, merito di un’organizzazione under 30, del Comune e della forza di un genere che continua a insegnare il rispetto per il prossimo e per l’arte.
Genova, città di mare, un porto europeo che ospita diversi sapori, odori e culture. Ad emergere oggi , anche a livello nazionale, è la passione per il rap, tanto da organizzare un festival che non si era mai visto in città, il Genova Hip Hop Festival, che si è svolto all’interno del RDS Stadium lo scorso 5-6-7 gennaio. Tutto merito di Blazers Crue, Blazeup Studio, Blazhype Events e della figura di Anis Tesh Hafaiedh , che non solo hanno portato a Zena il rap, ma tutta la cultura storica dell’hip hop. L’organizzazione, completamente under 30, è un segnale forte per i giovani, che hanno di fronte un mondo nuovo, dove solo loro possono destreggiarsi anche in ambito lavorativo. Grande visione del Comune di Genova nel vedere un’opportunità così e coglierla al volo.
Freestyle e breaking per partire dal basso, dalle radici, dai contest che servivano a unire quartieri, idee, persone. Poi spazio alla parola, con ospiti che in Italia hanno fatto la storia di questo genere, come Bassi Maestro, Dargen D’Amico, Ensi, Luchè, Kaos One, Colle Der Formento, e chi invece avrà il duro compito di mantenere alta l’asticella, ovvero Lazza, Giaime, Bresh, Vaz Tè, Disme e tutti gli emergenti.
Ma il risultato più importante è quello che si legge tra le righe. In un periodo storico in cui la musica rap, in Italia, ha un’importanza che non ha mai avuto, la cultura hip hop sembra non aver attecchito completamente, perché le giovani generazioni non sembrano incuriosite a conoscere la storia che c’è dietro lo “speak the truth”. Sono eventi come il Genova Hip Hop Festival a permettere la divulgazione di ciò che sono stati gli albori di un movimento culturale fondamentale per i neri in America. Proprio per questo motivo esiste un secondo significato dietro a manifestazioni di questo calibro, la libertà della cultura, l’antirazzismo, la lotta al pregiudizio e ai preconcetti. In un’epoca in cui le migrazioni sono frequenti e l’intreccio tra diversi punti di vista è qualcosa di comune, la musica, ancora oggi, è un vettore d’integrazione e l’hip hop può solo che insegnare il rispetto, la libera espressione e l’amore per l’arte. Aspettiamo la prossima edizione del Genova Hip Hop Festival, avanti così, la strada è quella giusta.
Carnaby, la band rivelazione anni ’60
La band italo-americana Carnaby ha realizzato un singolo natalizio, “Christmas Girl”, che ha riscosso successi internazionali, a partire dal passaggio su BBC Radio.
Sono quattro, suonano in Inghilterra e hanno uno stile anni ‘60. Sembra una storia già vista negli annali, è invece una grande novità del 2018, che detta la riscoperta di un tipo di sonorità dopo quasi 50 anni di assenza. Addio sintetizzatori, viva le chitarre, sembra questo il motto dei Carnaby, band italo-americana approdata a Bristol e partita dalla Sicilia. Il loro singolo “Christmas Girl”, uscito nel periodo delle feste natalizie, è stato supportato in diverse parti del mondo. Abbiamo intervistato il gruppo composto da Joseph e Vincent Sandonato, Pietro Pelonero e Giuseppe Recalbuto, iniziando dalla più classica delle domande:
Chi sono i Carnaby? Siamo una beat band di quattro elementi e ci ispiriamo a un suono anni ’60, per noi l’icona degli anni d’oro. Suoniamo insieme da otto anni. Quando abbiamo scoperto di poter cantare tutti insieme e di armonizzare le voci, come facevano i Beatles e i Beach Boys negli anni Sessanta, è nato questo amore per il sound brit sixties.
Come mai un ritorno a questo stile? Molto spesso sentiamo nostri coetanei dire che avrebbero voluto vivere negli anni ’60 o aver vissuto Woodstock: quell’energia, quella magia che noi stessi vogliamo riportare in musica.
In Italia l’ultima ondata indie pop ha riportato in auge gli anni Ottanta. In Inghilterra come è stata accettata dal mercato la vostra proposta discografica? Abbiamo riscosso un buon successo, abbiamo convinto. La nostra fortuna è di avere Vincent e Joseph che sono madrelingua americani, questo è molto importante perché quando ti proponi in un mercato inglese o americano la pronuncia viene prima di tutto. Il sound è piaciuto, gli inglesi sono rimasti soddisfatti. Loro non fanno distinzioni di genere, se piace piace.
Avete utilizzato anche strumenti del Sessanta? Nel video di Christmas Girl è presente una Ludwig in stile Ringo Starr. La ricerca è stata molto importante, abbiamo studiato il suono di quell’epoca. Il nostro batterista ha preso una Ludwig Classic Maple, i chitarristi hanno scelto Epiphone, nello specifico i modelli Casino e Riviera P63. Il basso, in realtà, è l’unico strumento distante dai Beatlese più vicino al rock ‘n roll: abbiamo optato per un Fender Precision Classic 50, il modello che uscì nel ’57, facendo tramontare il contrabbasso.
Come siete arrivati agli Abbey Road Studios? Il nostro produttore Fortunato Zampaglione ha preso a cuore il nostro progetto, ha deciso di investire su di noi, ci ha dato una via e non saremmo dove siamo senza di lui. Grazie a lui abbiamo firmato con la Sugar di Caterina Caselli, abbiamo registrato presso le Officine Meccaniche di Milano e mixato il singolo ad Abbey Road.
Interessante questo connubio discografico che parte dell’Italia per andare all’Inghilterra. Qual è stato il percorso che vi ha portato ad oggi? Ci siamo trasferiti in Inghilterra due anni fa, abbiamo preso il nostro van, siamo partiti dalla Sicilia e siamo arrivati a Bristol passando solo via terra. Abbiamo sviluppato il nostro suono osservando la scena live inglese, un terreno molto vivo e interessante da scoprire.
Il video del vostro singolo contiene un messaggio importante, quello di allontanarsi dagli smartphone. Che rapporto avete con la tecnologia? Come è nata l’idea di trasmettere questo messaggio? L’idea, ancora una volta, è stata di Fortunato, che è anche regista del video. Il nostro rapporto con la tecnologia è esattamente quello di qualsiasi ragazzo di oggi. Il messaggio che abbiamo voluto trasmettere è quello di allontanarsi dagli schermi durante le feste: se sei a casa con le persone che adori, invece che vivere guardando uno schermo, puoi dedicare il tuo tempo a vivere davvero.
E adesso c’è da aspettarsi un susseguirsi di singoli in puro stile anni ‘60 oppure un album? È in atto una stesura di brani che vorremmo far uscire come singoli. Questo non limita la realizzazione di un album, perché sarà proprio questa uscita cadenzata a comporre il futuro disco. Il genere è tutto da scoprire. Quello che ci ha sorpreso è quanto sia stata apprezzata la scelta sonora che abbiamo fatto, il ritorno al passato, ma d’altronde anche se prendi un paio di RayBan Wayfarer saranno sempre belli, perché intramontabili.
“Sicily Jass”, alle origini del Jazz su Rai Storia
La storia di Nick La Rocca e della Original Dixieland Jazz Band è la radice più profonda di tutta la musica moderna e verrà raccontata su Rai Storia con il documentario “Sicily Jass”, che andrà in onda sabato 23 dicembre alle 22.10 per “Documentari d’autore”.
Sapevate che “Jazz” non è il nome originale di questo genere? Per spiegarlo è necessario fare un passo indietro, alle sue origini. Il cosiddetto jazz è l’icona dell’incontro tra culture. Quando l’America fu sinonimo di fortuna, l’incontro tra i singoli strumenti della banda, importati con le migrazioni provenienti dall’Europa, e i ritmi africani, ha dato vita a un nuovo genere. Cassa, rullante e piatti hanno smesso di essere suonati da tre persone diverse, diventando quella che oggi chiamiamo “batteria”. Così, altri strumenti hanno iniziato a seguire un nuovo ritmo e l’ensemble ha creato il jazz, anzi il jass. New Orleans è stata la patria del jass e lo fu anche per Nick La Rocca, un ragazzo di origini siciliane, nato a fine ‘800, che con la sua Original Dixieland Jass Band incise, nel 1917, il primo disco della storia di questo genere musicale: Livery Stable Blues.
La leggenda narra che alcuni mattacchioni si divertissero a strappare la J dai manifesti del disco, tramutando Jass in “ass” (culo, in inglese). Pare, infatti, che per questo motivo la band decise di cambiare nome in Original Dixieland Jazz Band, i pionieri del jazz. Il disco riuscì a vendere più di un milione di copie e, nel giro di poche settimane, quella di La Rocca diventò la jazz band più pagata al mondo.
Tra finzione e cinema del reale, tra una Sicilia senza tempo e la New Orleans di oggi e di ieri, Rai Cultura propone su Rai Storia “Sicily Jass”, il documentario di Michele Cinque, che andrà in onda sabato 23 dicembre alle 22.10 per “Documentari d’autore”. La trasmissione racconterà la figura di Nick La Rocca, ispiratore del grande Louis Armstrong, trombettista autodidatta, personaggio scomodo, bianco nella musica nera per eccellenza e con un carattere ombroso che lo porterà dal grande successo ad un triste declino. Il viaggio introspettivo è narrato dalla voce di Mimmo Cuticchio. Le interviste inedite a Nick La Rocca e al figlio Jimmy permetteranno di risolvere un importante interrogativo storico: perché l’Original Dixieland Jazz Band sia spesso dimenticata nella storiografia del jazz.
Billy Joel, The Bridge To Russia su Rai5
Nelle interessanti rassegne sulla musica proposte da Rai5, mercoledì 20 dicembre alle 21.15 andrà in onda il documentario “Billy Joel – The Bridge To Russia” per Music Icons.
Billy Joel, una delle voci pop-rock più famose del mondo, nasce nel Bronx nel 1949. Pianista e compositore, il suo maggior successo arriva tra la metà degli anni settanta e per tutti gli anni ’80, tanto da fargli vincere nel 1990 un Grammy Legend Award. L’epoca del suo apice è quella delle grandi icone, quella che ha lasciato il segno nella storia della musica. È toccato a lui tendere la mano alla Russia nel 1987, in un clima da Guerra Fredda, senza che i primi raggi della Glasnost avessero ancora scaldato il blocco sovietico. Nonostante altri artisti – Elton John e James Taylor – si fossero già esibiti in Russia, nessuno prima di lui l’aveva fatto con l’obiettivo di aprire una breccia culturale che potesse distendere i rapporti tra le due grandi potenze mondiali.
Il documentario “Billy Joel – The Bridge To Russia”, che Rai Cultura propone mercoledì 20 dicembre alle 21.15 su Rai5 per Music Icons, ripercorre, come un diario di appunti, quei giorni attraverso immagini, interviste dell’epoca, testimonianze dei protagonisti: oltre a Joel, sfilano con i propri ricordi, la ex moglie Christie Brinkley, i musicisti della band e gli attaché russi che seguivano ogni tappa della tournée. Il sassofonista Mark Rivera rammenta: “Era come se Billy Joel avesse portato la prima tv a colori, difficile ritornare al bianco e nero dopo”. Il famoso pianista dimostrò che la musica è un linguaggio potente e universale più efficace nell’unire le persone di qualunque leader mondiale. Non che i concerti di Joel abbiano da soli tirato giù il muro di Berlino, ma, proprio come fece lui con il pianoforte, ci fecero certamente un bel buco.
Grazie a queste storie e ad artisti del genere è possibile ricordare quanto la musica non abbia confini o vincoli e continui ad essere un strumento di libertà, lontano da guerre, rancori, censure, paura e razzismo. Rai5 e Rai Cultura stanno proponendo interessanti documentari durante le trasmissioni Music Icons e Ghiaccio Bollente. Chi si fosse perso gli appuntamenti precedenti può trovarli sul sito di Rai5 e su RaiPlay.
The Rolling Stones, Just For The Record su Rai5
Su Rai5 continuano le importanti finestre sulla storia della musica. Il 22 dicembre andrà in onda per Ghiaccio Bollente “The Rolling Stones – Just For The Record”.
Quando si parla dei Rolling Stones si parla della storia. Un suono unico, che ha cambiato una generazione e ha iniziato un genere musicale. La forza della band è sempre stata sia l’abilità musicale che la personalità: Mick Jagger e Keith Richards rappresentano due icone intramontabili, ma anche Ronnie Wood e Charlie Watts non scherzano. Una storia burrascosa quella dei Rolling Stones, come i caratteri e l’epoca in cui sono cresciuti, ricca di contrasti. Per salire nell’olimpo del Rock, o hai un’attitudine del genere o non sali nemmeno uno scalino.
Gli anni Settanta per gli Stones segnano momenti di alti e bassi: volano sulle ali della loro forza creativa, precipitano sotto il peso della loro celebrità, e alla fine, riprendono quota. Lo racconta il secondo episodio della serie in prima visione Rai “The Rolling Stones – Just For The Record”, che Rai Cultura propone venerdì 22 dicembre alle 23.15 su Rai5. È nella decade dell’individualismo che i Rolling Stones dimostrano di essere la più grande band del mondo, ma a caro prezzo: problemi legati all’abuso di sostanze, conflitti personali e un certo disincanto, seminano scompiglio nel gruppo. Nell’era del punk, del funk e della disco, le pietre rotolanti riusciranno comunque a rilanciarsi e a restare pertinenti.
La serie è una commemorazione dei primi quarant’anni di carriera dei Rolling Stones. Ogni episodio è la ricca cronaca di una decade: la swinging London degli anni ’60, e a seguire gli anni ’70, gli anni ’80, gli anni ’90, sino alla tournée Forty Licks del 2002. La narrazione e la aneddotica si avvale degli stessi Stones, dei collaboratori più stretti della band, biografi e fan: emerge un quadro completo degli Stones pubblici, ma svela anche dettagli personali sulle vite di questi rocker eterni, il significato dei loro brani memorabili, e l’ispirazione che li spinge ad andare avanti con un passo che molti ventenni avrebbero difficoltà a sostenere. Intraprendenza, passione e sfrenata libertà, queste le caratteristiche dei Rolling Stones in una vita dedicata alla musica.
La tecnologia nei testi dei nuovi cantautori
La nostra vita mediata da uno schermo e riflessa nei testi dei cantautori moderni. Un bene o un male?
Ormai dobbiamo abituarci, la società è cambiata, ci sono nuovi elementi di cui parlare, eppure fa sempre strano sentire parole come display, Facebook, direct, nota vocale, YouPorn dentro le canzoni italiane. Sarà che siamo stati abituati a testi ispirati dagli incontri tra le persone, mentre oggi il primo incontro è spesso mediato dal computer.
Una tendenza italiana è sempre stata l’amore. Oggi migliaia di relazioni avvengono via Whatsapp, ancor prima di essere vissute tra i vivi intrecci di pelle e carne, quindi è logico che, di riflesso, possano essere incise all’interno delle canzoni. E non ce n’è solo per l’amore, ma anche per la solitudine, per la malinconia o per la nostalgia. Innumerevoli drammi vengono vissuti con la comunicazione asincrona: gelosie, invidie, incomprensioni, silenzi, nascosti da uno schermo, persi nel “visualizzato e non risposto”. È questo il famoso linguaggio “indie” che ha fatto tanto successo, perché comunica direttamente alla fascia d’età a cui si riferisce, tra i 20 e i 30 anni.
“Ehi ciao Matilde” ha vinto tutto, è questo il riassunto delle relazioni odierne: felici, spensierate o tristi che siano. Una nota vocale riassume esattamente ciò che vorremmo dire, ma non poss(/t)iamo, fino a quando non avverrà in maniera perfetta. In tutto questo “scrivi/registra e cancella” si è raggiunta una comunicazione migliore, ma sicuramente meno impulsiva, quell’istinto che portava all’errore, all’ispirazione dei cantanti. “È notte alta e sono sveglio”, chissà come l’avrebbe cantata oggi De Crescenzo: invece di tirare sassi a una finestra accesa, avrebbe mandato un vocale, dopo due o tre messaggi cancellati, perché “che sbatti” scendere fin sotto casa sua a notte fonda.
Ogni epoca ha le sue particolarità, sarebbe sbagliato fare di tutto questo una critica. Alla fine basta pensare che stanno tornando di moda gli anni ’80 e il cantautorato, questo è l’importante, aspettiamo solo il ritorno di Mtv, allora sì che il mondo troverà finalmente il proprio equilibrio musicale. Se internet è riuscito a smuovere qualcosa sicuramente è un bene, ogni nuova tecnologia cambia la società, la cultura, l’arte, tra cui si annovera solitamente la canzone. Dobbiamo solo imparare a coglierne i frutti. “Tua madre lo diceva, non andare su YouPorn”, questa, infatti, non l’hanno scritta gli Squallor.
Giuseppe Anastasi, da autore a cantautore
Uno degli autori italiani odierni più importanti, che ha firmato alcune tra le canzoni in vetta alle classifiche, diventa cantautore con il suo nuovo album.
Giuseppe Anastasi non ha bisogno di presentazioni, le canzoni che ha scritto parlano da sole: “Sincerità”, “La notte”, “Malamorenò”, “Meraviglioso amore mio”, “Controvento”, “Guardando il cielo” per Arisa e la recente “Il diario degli errori”, cantata da Michele Bravi, scritta insieme a Cheope e Federica Abbate. Nonostante questo, un autore così talentuoso ha deciso di non fermarsi alla routine, ma di intraprendere nuovi stimoli paralleli, quelli del cantautorato, incisi in un album che uscirà a gennaio.
Il primo singolo estratto si chiama “2089” e racconta il futuro sterile che Anastasi sembra intravedere nelle nuove generazioni, quelle legate al mondo digitale.
Da cosa nasce l’idea di fare un pezzo che parla del futuro? È partito tutto da un sogno che avevo fatto dove pensavo al futuro, inoltre, facendo l’insegnante, stando tanto con i ragazzi, mi sono reso conto che c’è una generazione (quella digitale) un po’ più triste del solito, con più problemi. Nei miei 40 anni ho vissuto due generazioni, quella prima e dopo internet, quindi posso fare un minimo di raffronto tra le due, i ragazzi di oggi, non avendo vissuto la prima era, si trovano catapultati in questa, che ha dei pro e tantissimi contro.
Il tuo singolo è uscito a ridosso delle selezioni per il Festival di Sanremo. Parteciperai quest’anno? Se si, come cantante o come autore? Non dico niente per scaramanzia, si vedrà in seguito. È uscito tutto a novembre perché il mio numero fortunato è il nove (gioco di parole con il mese, nda). Comunque la scelta starà a Baglioni.
Come è stato portare al pubblico una tua canzone da cantautore, dopo anni di successi da autore, quindi dietro le quinte? È stata una sensazione strana, inedita, nel senso che, quando mi è arrivato il video, la prima volta in cui l’ho visto ero discretamente imbarazzato di me stesso, non ero abituato a vedere la mia immagine che cantasse. Dopo la quarta volta mi sono accorto che fossi credibile, adesso mi riconosco quando mi rivedo, riconosco Giuseppe quindi spero che alla gente arrivi questa parte credibile.
Il tuo album avrà sonorità coerenti a quelle del tuo singolo “2089”? L’album è molto simile al singolo, è il live che faccio da un po’ di tempo, con qualche sonorità più moderna, ma con una maggioranza acustica. Il disco uscirà a gennaio e con esso tutte le date che potrete trovare sui social.
Che cosa ascolti quotidianamente? Per ora l’ultimo ascolto, che è un ascolto studio, perché tendo ad analizzare i testi, l’armonia e la melodia, è stato il disco di Caparezza “Prisoner 709”, un album che mi ha colpito moltissimo, Michele (in arte Caparezza, nda) scrive veramente bene. Il prossimo, perché non ho ancora avuto il tempo, è quello di Cremonini, del quale ho ascoltato solo “Poetica”, e sono molto curioso di sentire il disco, perché lui è una persona che stimo molto. Praticamente tutto quello che esce lo ascolto, non puoi scrivere se non leggi o non ascolti. Poi, facendo l’insegnante, devo restare sempre aggiornato.
Che importanza ha la figura dell’autore oggi in Italia? La figura dell’autore è sempre stata di un’importanza fondamentale in Italia, mentre nei paesi anglofoni il testo fa da contorno alla melodia, alla musica o all’arrangiamento, in Italia non puoi prescindere dal testo. Le canzoni che passano alla storia sono quelle che dicono qualcosa: non solo te la fanno ascoltare, ma te la fanno vivere.
A tuo parere gli autori hanno la visibilità che meritano? L’autore non cerca la visibilità, se la vuole inizia a fare il cantautore. Adesso anche i talent stanno dando più importanza agli autori, ma nell’immaginario collettivo la canzone è di chi la canta, non di chi la scrive. È giusto anche così, non sarebbe giusto dire: “La notte di Giuseppe Anastasi” o “Il diario degli errori di Giuseppe Anastasi e Federica Abbate”, è giusto dire che siano di Arisa e di Michele Bravi. Le canzoni sono di tutti, di chi le scrive e di chi ci mette la faccia.
A un/una ragazzo/a che volesse fare l’autore, cosa consiglieresti? Anche se può sembrare banale, la prima cosa che posso dire è di studiare, possibilmente saper suonare uno strumento e cantare. Si può insegnare la tecnica, ma non l’ispirazione, perché ognuno ha un’idea personale sulla vita che vive. Nell’ultimo album di Caparezza c’è una tecnica di scrittura a livello metrico, a livello di rime, che chi vuole scrivere è giusto che conosca. Se qualcuno vuole scrivere in rima che studi De André o Mogol, in Italia fortunatamente possiamo imparare da tanti.
Cosa ne pensi dell’esplosione che ha avuto nell’ultimo anno e mezzo la musica italiana attraverso le etichette indipendenti? È un’esplosione giusta, è un modo diverso di dire le cose, è un’alternativa in più. Un tempo sembrava esserci solo il talent, adesso, grazie alla rete e a tutti questi indipendenti che stanno lavorando bene, c’è un ventaglio molto più ampio.
Il jazz di Nat King Cole su Rai5
Il documentario “Nat King Cole: Afraid of The Dark” in onda su Rai5 martedì 5 dicembre alle 22.40 per la trasmissione “Ghiaccio Bollente”.
La musica ha il potere di unire i popoli. Il jazz, una parola che ai più sembra avere la puzza sotto il naso, è stato il punto di partenza di tutta la musica mondiale, perché ha unito tradizioni europee e africane in un mondo nuovo, da scoprire: l’America. All’inizio del Novecento gli Stati Uniti erano la terra dove cercare fortuna, dove arrivavano i più coraggiosi sperando di svoltare la propria vita. In questo melting pot è nato il jazz, nell’umiltà dell’aggregazione tra culture, dove il minimo comune denominatore era la ghettizzazione degli stranieri.
Quando ti chiami Nathaniel Adams Coles, e nasci in Alabama nel 1919, nessuno ti dirà che diventerai Nat King Cole, ma sicuramente partirai in salita a causa del colore della tua pelle. La mano del destino è presente da subito, quando la famiglia si trasferisce a Chicago, una delle patrie del jazz. I genitori di Nat sono devoti alla religione, il signor Coles è ministro della chiesa Battista, mentre la madre è organista, il ché permette a Nathaniel di avvicinarsi alla musica, in particolare alla classica, al gospel e allo studio del jazz. Vivere in un sobborgo come Bronzeville ha permesso al piccolo di percepire tutta l’atmosfera jazz che circondava Chicago negli anni ’20, periodo nel quale egli scappava di nascosto per andare a sentire fuori dai locali musicisti del calibro Louis Armstrong. Sarà l’ispirazione a Earl “Fatha” Hines a fargli iniziare una carriera, a metà degli anni ’30, con il nome di Nat Cole.
Tutta la sua storia verrà raccontata su Rai5, in onda martedì 5 dicembre alle 22.40 per “Ghiaccio Bollente”, dove verrà trasmesso il documentario “Nat King Cole: Afraid of The Dark”. In quest’opera il regista Jon Brewer ripercorre l’apparente storia di Nat King Cole, unica stella nera di Hollywood nell’America della segregazione e del pregiudizio razziale.
Il suo stupefacente talento vocale sembrò spazzare via i pregiudizi e gli consentì di diventare una delle più celebrate icone jazz di tutti i tempi. Il racconto prova a ricostruire i veri sentimenti dell’artista che tutti consideravano faro di speranza per gli oppressi, e documenta come in realtà, a porte chiuse, coloro che erano intorno a Cole cercarono di confezionare un’immagine del cantante rendendolo ciò che non era: bianco.
Attraverso i diari privati di Cole, materiali d’archivio mai visti, contributi della vedova di Cole, Maria, di altri membri della sua famiglia e di famosi artisti del periodo – tra cui Tony Bennett, Harry Belafonte, Nancy Wilson, Sir Bruce Forsyth e molti altri – vengono alla luce storie inedite sull’artista, inserite nella situazione politica e sociale dell’epoca.
Jimi Hendrix, The Uncut Story su Rai5
Continua la storia di Jimi Hendrix, appuntamento con Ghiaccio Bollente su Rai5. La seconda parte tratterà gli anni dal 1961 al 1967.
Jimi Hendrix è stata un’icona mondiale della musica, una leggenda. Se si pensa ad una chitarra elettrica, non si può non associarla al suo nome, colui che peraltro si dice avesse un talento innato, un orecchio tale da inventare un modo di suonare, un genere musicale. L’immagine negli anni ’60 iniziava a valere qualcosa anche nel mercato musicale, ma non era certamente influente come oggi, eppure anche in questo Hendrix si distingueva: la sua chioma afroamericana era un simbolo rivoluzionario per milioni di giovani che avevano deciso di cambiare il pensiero del mondo.
Rai5 prosegue il racconto su Jimi Hendrix a partire dal suo periodo in esercito nel 1961, dovuto ad un arresto che lo mise di fronte all’ardua scelta tra la reclusione e l’arruolamento. Proprio in quel momento la sua vita cambiò radicalmente e gli fece incontrare un bassista con il quale formò una band che lo accompagnò dopo il congedo. Da qui iniziarono le prime esperienze come musicista a fianco dei grandi dell’R&B, passando per New York sino allo sbarco nella Swinging London.
Questi sono gli argomenti al centro di Ghiaccio Bollente, la trasmissione dedicata al secondo episodio del documentario in tre parti “Jimi Hendrix: The Uncut Story”, in onda lunedì 4 dicembre alle 23.05 su Rai5 (canale 23 del digitale terrestre). Obiettivo del documentario, che Rai Cultura propone nei giorni in cui cade il 75° anniversario della nascita, è raccontare tutta la verità, senza censure, sulle luci e le ombre della vita di Jimi Hendrix, scomparso nel 1970 a Londra a soli 27 anni, dando origine alla cosiddetta maledizione del “Club 27”, i talenti deceduti a 27 anni, tra i quali sono presenti Jim Morrison, Amy Winehouse, Kurt Cobain e altri artisti. Con la piena collaborazione della famiglia Hendrix, e i contributi di BB King, Les Paul, Jeff Beck e altri illustri commentatori, il film restituisce un ritratto a 360° di una figura che, a oltre 40 anni dalla sua scomparsa, continua ad ispirare nuove generazioni di musicisti.
Radio digitale in Italia dal 2020
Dopo un emendamento del Governo sembra essere arrivato l’ultimatum anche per la radio FM. Il passaggio al digitale è datato 2020.
Si è parlato spesso di radio in digitale, con la consapevolezza di non sapere quando ci sarebbe stato il definitivo spegnimento delle FM, ancora elogiate da diversi operatori del settore. Finalmente c’è una data: il 2020. Secondo HdBlog, infatti, grazie ad un emendamento presentato dal Governo in Commissione Bilancio del Senato è stato previsto sia lo spegnimento delle frequenze analogiche, sia un impegno totale nei confronti delle nuove tecnologie digitali in campo radiofonico. Dal 2020 tutti i ricevitori dovranno disporre di un’interfaccia per la ricezione della radio digitale e di tutte le nuove forme di comunicazione dell’informazione ad essa legata (audio, immagini e testuale).
Questo sposta sempre di più l’ago della bilancia verso le tecnologie 5G, svolta alla quale stanno puntando diverse aziende italiane del settore tecnologico per cercare di colmare il gap con gli altri paesi europei. Dal 2019 inizierà il vero cambiamento con l’obbligo di vendita di sole radio attrezzate al digitale, più o meno lo stesso tipo di procedimento che abbiamo visto per la televisione.
La questione rovente sarà la scelta definitiva tra il DAB (Digital Audio Broadcasting) e la web-radio: il primo prevede una trasmissione digitale in diversi modi, anche via satellite, la seconda ovviamente via internet. In Italia molti network nazionali hanno già istituito dei consorzi per le trasmissioni in DAB, il problema è che il passaggio a questa tecnologia per le realtà locali sarà difficile a causa dei costi, il ché produrrà una conseguente decimazione. Cosa che non accadrebbe (così marcatamente) con le trasmissioni via web, le quali viaggerebbero in parallelo con la tendenza a rendere tutto connesso in rete, visto che l’Internet of Things è il futuro più vicino a noi.
Sicuramente la radio digitale rivoluzionerà completamente il modo di concepire la radiofonia: saranno presenti radio tematiche e probabilmente potremo ascoltare radio da tutte le parti del mondo. Questo cambiamento influirà nettamente sul mercato musicale. È difficile capire oggi quali saranno gli sviluppi, di sicuro una nuova era sta arrivando.
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