La giovane cantante ternana parteciperà nella categoria Nuove Proposte del Festival di Sanremo con il brano Insieme.

Valeria Farinacci, da Area Sanremo al palco dell’Ariston
Valeria Farinacci al Festival di Sanremo tra le Nuove proposte.

Valeria Farinacci è stata recentemente proclamata come futura nuova proposta del Festival della Canzone italiana. Ci sentiamo al telefono, come di consueto vista la distanza che non mi permette di raggiungerla a Terni, con il proposito di capire le sue impressioni e la sua personalità.

Inizia il percorso verso il Festival, come ti senti?
Bene, tutto il team è elettrizzato, dobbiamo metterci al lavoro per essere pronti per Febbraio.

Come è nata l’idea di partecipare ad Area Sanremo?
Alcune mie amiche cantanti mi hanno consigliato questo percorso. Avevo bisogno di seguire uno stage formativo come quello di Area Sanremo, incontrando personaggi del calibro di Beppe Vessicchio, Francesca Michielin e molti altri, tutti aperti al dialogo. Abbiamo avuto modo, poi, di esibirci dal vivo nei locali e nelle piazze di Sanremo. Come ho detto mi è stato consigliato e ne è valsa davvero la pena, anche io lo consiglierò sicuramente ad altre persone.

Che ambiente hai trovato?
Splendido, davvero. Sinceramente non mi aspettavo di trovare un ambiente simile e di incontrare altri artisti con cui legare, in particolar modo tra noi otto finalisti si è creato un bel rapporto, perché ci siamo conosciuti il primo giorno e fino all’ultimo siamo stati insieme: provini, serate live, viaggi e interviste. Mi sarei aspettata un ambiente molto più competitivo, questa cosa in realtà non c’è stata e sono molto felice di dirlo. Ci siamo sostenuti a vicenda tra i finalisti e continueremo a farlo.

La canzone che hai presentato, Insieme, vuole invitare le coppie a durare nel tempo.
È un po’ come se fosse una ricetta per creare un rapporto che sia stabile e duraturo, cosa molto difficile soprattutto per noi ragazzi. C’è un messaggio di speranza all’interno del testo che io tengo davvero a comunicare, soprattutto quando sarò sul palco dell’Ariston.

Come mai hai scelto questo tema?
Ho avuto modo di lavorare con Giuseppe Anastasi (autore di Arisa, ndr) e insieme abbiamo cercato di sviscerare le storie dei ragazzi di oggi, abbiamo cercato un messaggio che potesse arrivare a tutti e che mi rappresentasse. Oltre al messaggio di speranza legato ai rapporti di coppia, nella parte finale il tema si allarga e diventa un “bisogna stare insieme” generale, dedicato al mondo e alla globalità. Trovo che sia importante comunicare questo nella nostra contemporaneità.

Il palco dell’Ariston è molto importante, per alcuni artisti è stato determinante, per altri no e magari sono emersi successivamente. Nel tuo caso, il Festival, che esperienza pensi possa essere?
Io spero che il Festival possa essere una vetrina per il mio progetto, logicamente. So anche che molti artisti sono passati dalle Nuove Proposte senza aver vinto, ma continuando molto bene il loro percorso artistico. Un giornalista mi ha raccontato che Mango addirittura non era entrato nelle Nuove Proposte, poi è diventato una parte importante della musica italiana come sappiamo. Tutto dipende da come giocherò le mie carte sul palco e quanto riuscirò a comunicare al pubblico. Se riuscirò a comunicare i miei messaggi tramutandoli in emozioni allora sarò contenta. Un artista deve saper comunicare emozionando.

In che modo sei arrivata a Giuseppe Anastasi? Sicuramente è stato un grande passo avanti nella tua carriera poter collaborare con un autore del suo calibro.
Ho fatto un concorso a Terni, la mia città, dove in palio c’era una borsa di studio per il CET di Mogol. In giuria, alla serata finale, c’era Giuseppe Anastasi a rappresentare il CET. Dopo aver vinto il concorso ho sfruttato l’opportunità della borsa di studio e grazie a questa ho avuto modo di incontrarlo insieme anche a Giuseppe Barbera, a Mogol e a Carla Quadraccia (in arte Carlotta), insegnante di canto della scuola, che mi sta seguendo come manager nel mio progetto. Da lì è nato tutto. Loro hanno creduto in me e voglio sempre ricordarlo, devo questo mio traguardo a loro e al loro aiuto.

Ad Area Sanremo, insieme a te, hanno partecipato alcuni ragazzi dei talent. Che opinione hai dei talent come format televisivo? Che impatto hanno secondo te oggi nella discografia italiana?
Un percorso come quello di Area Sanremo ti permette di conoscere alcuni artisti a tutto tondo. Io stessa ho fatto un provino ad Amici, è un percorso diverso quello dei talent. Anch’essi riescono ad essere formativi, soprattutto dal punto di vista della gestione mediatica, ti insegnano ad approcciarti con le telecamere e come sfruttare i social. Guardando i risultati si può dire che questo format sia una componente importante della musica odierna. È sbagliato pensare che non ci si faccia le ossa facendo un talent, però ritengo che un percorso come Area Sanremo sia migliore.

Capita a volte di immergersi nella musica e ritrovarsi in un racconto. Ecco l’effetto dell’ultimo album de Lastanzadigreta.

Lastanzadigreta: storytelling musicale
Lastanzadigreta.

La musica è in continua evoluzione e ri-mediazione: digitale, analogico, mp3 e vinile. Persino il racconto ha acquisito una nomenclatura digital, adesso si usa dire “storytelling” e se ne abusa perché fa cool. In questo caso, però, questo termine casca a proprio a pennello, perché c’è un gruppo che, di recente, ha riportato la musica al racconto, talvolta fiabesco, tramite la dote del cantautorato.

Lastanzadigreta milita in quelle scoperte piacevoli e particolari, difficili da spiegare quindi mai banali. L’ultima opera di questa formazione di musicisti torinesi si chiama Creature selvagge ed è complesso dedicarle un genere se non lo storytelling. In questo album si passa da un cantautorato pop, alla colonna sonora cantata, passando per alcuni suoni che personalmente mi ricordano Parigi e, perché no, arrivando al medioevo. Non a caso si affronta l’argomento della sonorità, uno dei punti cardine del gruppo, il quale utilizza strumenti poco comuni come marimba, bidoni, weissenborn, cigar box, banjolino, clavietta basso, glockenspiel, didjeridoo, farfisa e theremin. Sembra quasi un abominio dire che tra questi appaiono anche piani, voci, synth e chitarre.

Lastanzadigreta: storytelling musicale 1Ecco quindi che, seppure l’ascolto in streaming non permetta una fruizione classica di un LP, l’effetto che dona Creature Selvagge è quello di sentirsi trasportati in diverse dimensioni, diversi racconti, diverse personalità. Allora una pagina bianca prende forma nell’immaginazione che proietta l’ascolto: le parole diventano una matita che si muove al ritmo di una descrizione e i colori vengono dati dagli arrangiamenti, a volte distensivi, con pennellate dolci, altre volte impetuosi, da rovesciare gli acquarelli sulla tela.

Se a me qualche suono ha ricordato Parigi ad altri può ricordare qualsiasi regione del mondo, l’importante è ciò che proiettano questi racconti sonori, tanto che sembra quasi un dovere morale dare un’interpretazione a queste sensazioni. Nascosto tra le righe c’è il significato dell’arte, l’espressione di sé che diventa un piacere per gli altri, il protagonismo istantaneo che diventa eterno altruismo, una delle favole più antiche del mondo, che, nella nostra contemporaneità ricca di giudizi e disuguaglianze, riporta tutto al nucleo centrale, il piacere della fruizione artistica.

Quando leggo, infine, che Lastanzadigreta (composta da Leonardo Laviano, Alan Brunetta, Umberto Poli, Jacopo Tomatis, Flavio Rubatto e Dario Mecca Aleina) affianca dal 2011 l’attività musicale con la didattica attraverso il suo progetto JAM (che pone la pratica strumentale e l’esperienza della musica d’assieme al centro di un percorso di crescita artistica e personale) capisco che l’ascolto mi aveva trasmesso le giuste sensazioni: tutto questo è una piacevole scoperta.

Il tema dei telefonini ai concerti è un evergreen, capita sempre più spesso di farsi domande a proposito.

tema dei telefonini ai concerti
Davvero un video con lo smartphone durante un concerto è più prezioso di un ricordo emozionante?

Di recente sono stato al Mandela Forum di Firenze per il raduno del BarMario (Fan club di Ligabue, ndr), in cui il Liga ha fatto un gran regalo ai fan proponendo live tutte le canzoni dell’ultimo disco Made in Italy, più una folta scaletta di canzoni di repertorio. Ho deciso di andare nel parterre, visto che avevo voglia di scatenarmi e di stare in compagnia dei miei amici. L’alta statura non è mai stata una mia qualità e il palco del palazzetto fiorentino quel giorno era molto basso, per cui risultava davvero difficile vedere qualcosa persino per coloro di media statura. Questo prima ancora che Ligabue entrasse sul palco, perché, appena il rocker di Correggio è arrivato davanti al microfono, duecento braccia alzate con tanto di telefonini mi hanno completamente impedito la visuale. Risultato? Sono andato a vederlo in tribuna con la mia fidanzata, tanto per questa occasione i posti erano assolutamente liberi.

Mentre mi staccavo dalla compagnia dei miei  amici alti fino alla solitaria tribuna, mi sono chiesto: «Ma se fosse stato un concerto normale in cui non avessi potuto spostarmi dal settore acquistato?» In quel caso sarebbe stato un grosso problema, perché probabilmente non avrei visto nulla, oppure avrei visto tutto dallo schermo dei telefonini degli altri.

Ora, siamo a un concerto, il tuo cantante preferito si sta esibendo, capisco la foto ricordo, in cui scatti e metti via il cellulare, ma fare tanti video consecutivi veramente non lo concepisco. In primo luogo, tu, caro “regista da concerto”, sei a un evento live, con un’acustica studiata per proporti un’esperienza d’ascolto indimenticabile e pensi che il tuo video (in molti casi gracchiante) possa riprodurti la stessa empatia dei bassi che in quel momento ti stanno attraversando il corpo?

In più c’è un secondo punto da non trascurare. Viviamo le nostre vite tra computer, smartphone e altri tipi di schermi. A un concerto, in cui si può essere immersi nella pura realtà musicale da una a tre ore, c’è chi registra almeno (se non di più) tre minuti di canzone guardandola da uno schermo. Non conviene comprarsi successivamente il dvd di quel tour da rivedere comodamente a casa, fatto da professionisti delle riprese? Mi è realmente capitato di trovare persone attrezzate con videocamere particolari che stessero nel parterre a riprendere tutto il concerto, facendo ovviamente dei video mossi perché nel frattempo la folla saltava dalla gioia. Deve essere anche difficile vivere un evento musicale con la paranoia che, una volta arrivati a casa, le riprese si vedano male o l’audio sia pessimo.

Visto che dietro ad un video c’è tendenzialmente la voglia, sacrosanta, di avere un bel ricordo da tenere, mi chiedo retoricamente se sia meglio avere una bella esperienza impressa nella memoria del nostro cervello oppure un nuovo video all’interno dei nostri hard disk. Permettetemi, in questo caso, di preferire l’analogico.

Progetto musicale di origini trentine che fa del pop non-sense la sua bandiera.

Pop X: originalità borderline
Foto © www.xl.repubblica.it.

Come mi capita spesso, mi sono ritrovato un giorno nei correlati di Youtube, situazione assai complessa perché, una volta iniziato a vedere il primo video, non sai mai quando finirai di uscire dal tunnel. Uno tira l’altro, come i pop corn al cinema. Così, finito l’ennesimo video e inconsapevole di come fossi riuscito ad arrivarci, leggo nei correlati “Pop X – Secchio”, nel canale di Bomba Dischi, la stessa etichetta discografica di Calcutta. Mi si accende una lampadina, anche se, tendenzialmente, un’etichetta che ha già un autore così forte nel suo roster è difficile che abbia altrettPop Xante perle.

All’ascolto rimango basito. Secchio è una canzone completamente senza senso, con linguaggio talvolta scorretto, ma al tempo stesso è una “figata pazzesca” e ha un ritornello che ti rimane inciso nella testa. Al ché, sempre nei correlati, leggo “Pop X – Secchio Camino”, un video della canzone durante una camminata con i fan che la cantano live. E qui mi si apre un altro mondo, perché Pop X è davvero molto seguito. I commenti ai video hanno un linguaggio veramente molto simile a quello dei testi proposti, sintomo di una fanbase molto fedele.

Pop X è un progetto audiovisivo composto da Davide Panizza (frontman, cantante, compositore) e i compagni di viaggio Walter Biondani, Niccolò Di Gregorio, Luca Babic, Laura Jantunen, Andrea Agnoli e Alberto Parisi. Le canzoni prodotte sono elettro-pop non-sense, con un suono che mi ricorda molto le soundtrack di alcuni videogiochi 8 bit, accompagnato da un arrangiamento che funziona e una cassa che spinge. I testi sono scorretti, divertenti e magnetici al tempo stesso. I video e l’immagine di questo progetto è un misto tra pop (art), vintage e altro non-sense. Per questo motivo, in alcuni articoli, Pop X è accostato al trash, a mio parere erroneamente.

Benché ci sia questo non senso di fondo e tutti i componenti dicano, provocatoriamente, di attingere dal panorama trash italiano («a noi piace molto lo squallore italiano, e il nostro Paese ne produce moltissimo», da La Stampa) secondo me etichettare come trash questo progetto evita di approfondire gli argomenti proposti soltanto perché borderline.

Invece, ciò che trovo estremamente curioso e orecchiabile è proprio l’utilizzo di epiteti offensivi particolari, ossimori e citazioni sessuali che devono essere approfondite per capire davvero Pop X. Prima tra questi, citando appunto Secchio, è la frase “che sono un frocio perso”. Ora, la parola “frocio” è una grave realtà, visto che viene purtroppo ancora usata frequentemente come insulto nei confronti degli omosessuali (peraltro siamo nel 2016, dovremmo considerarci tutti fratelli, diamoci una svegliata, ndr). Ma nel caso di Pop X c’è un costrutto veramente interessante. Se fossimo alle elementari e ci presentassero la frase da completare “che sono … perso” penso che nessuno esiterebbe a scrivere “innamorato”. Ecco che “frocio perso”, inserito in una cornice non-sense, acquisisce finalmente un significato romantico e positivo. Da qui si sfocia nel nuovo album Lesbianitj, uscito per Bomba Dischi, che contiene la canzone di cui vi ho già parlato.

L’originalità di Pop X non si può discutere, resta a voi la scelta di scoprirla davvero, magari nel tunnel dei video correlati di Youtube.

Classe 91, Filippo Ghiglione è un genovese che suona folk inglese, con un carattere davvero intraprendente.

Filippo Ghiglione, in arte "River"
Filippo Ghiglione, in arte “River”

22 ottobre. Sono a Sestri Levante, in un ex convento che ospita concerti, seduto in platea ad aspettare l’inizio del concerto di Zibba. In apertura arriva un ragazzo che imbraccia la sua chitarra, si avvicina al microfono e inizia a cantare. “Ok, questo è forte”. A metà del primo pezzo ho già capito che questo ragazzo genovese, che si fa chiamare “River” (e sotto la maschera Filippo Ghiglione) ha due o tre marce in più. Canta in inglese, ricorda il folk britannico in stile Ed Sheeran e mi fa venire una voglia matta di saperne di più sul suo conto. Così, finito il concerto di Zibba, magistrale come sempre, chiedo tempestivamente a River l’amicizia su Facebook e in qualche settimana ci mettiamo d’accordo per un’intervista.

Come nasce il progetto “river”?
Il nome “river” lo uso dal 2012, anno in cui ho pubblicato il mio primo EP per l’etichetta torinese Sounday. Prima suonavo in una band, ma ci siamo divisi, così ho deciso di intraprendere un percorso da solo. Ho scelto river perché, essendo abituato ai nomi singoli delle band, volevo qualcosa di simile, l’idea di uscire con un EP con il mio nome e cognome non mi piaceva tanto, quindi ho pensato di ascoltare l’EP e di farmi venire in mente qualcosa dalla musica. Una delle prime immagini che ho avuto è stata quella di un fiume, proprio perché alcune canzoni avevano un andamento tranquillo, come l’acqua che ti scorre lungo la schiena sotto la doccia, altre erano più forti come un fiume in piena, da qui il nome “river”. Ho deciso di riprendere in mano il progetto nel 2014 e iniziare a scrivere in inglese, poi studiando cinema al DAMS di Torino ho avuto modo di coinvolgere amici videomaker creando una sorta di collettivo audiovisivo composto da loro e altri amici musicisti. In questo modo diamo importanza sia alla musica che all’immagine video.

Un po’ come ha fatto la Machete Crew nel mondo hip hop, mentre nel tuo caso si parla di folk acustico. Come mai hai scelto di scrivere il tuo nome artistico in minuscolo? Anche questa è una scelta particolare.
Quando lo vidi scritto in minuscolo mi sembrava che acquistasse una migliore attenzione dell’occhio e allo stesso tempo, non avendo lettere maiuscole, dava un senso di semplicità e simmetria. Per questo ho deciso di adottare i caratteri minuscoli anche per i titoli delle canzoni.

E invece come sei arrivato ad aprire il concerto di Zibba?
Guarda è successo tutto per caso (ride). Io avevo suonato al Randal di Sestri Levante ad una manifestazione che si chiama Stop Wars Beatles Night, una serata dedicata ai Beatles, rivisitati dai Beatzone in chiave semiacustica. Alla fine dell’evento uno degli organizzatori mi ha chiesto il contatto e alcune tracce. Casualmente qualche mese fa stavo cercando delle date da gennaio in poi per la promozione del nuovo EP, ho contattato il Randal e gli organizzatori mi hanno detto che ci sarebbe stata la possibilità di aprire il concerto di Zibba insieme a Gioacchino Costa. È successo tutto da un momento all’altro, non me l’aspettavo proprio, è stata una cosa fighissima perché Zibba in Italia è uno degli autori e degli artisti che mi piacciono di più. In particolare lui e Niccolò Fabi.

Che tra l’altro hanno collaborato nella traccia di Zibba Farsi male.
Infatti è uno dei pezzi che preferisco dell’album Muoviti svelto.

Concordo a pieno. Visto che hai citato la musica nostrana, in questo periodo il mercato musicale italiano sta vedendo gli indipendenti alla conquista delle major, che impressione ti sei fatto di tutto questo?
Il mercato musicale sta diventando sempre più libero e soprattutto si ha la possibilità di raggiungere molte più persone rispetto a un tempo, perché anni fa se non avevi i contatti giusti certi numeri non li facevi. Poi è anche importante crearsi una fanbase, una sorta di rumor nel giro indipendente. Alcuni artisti, anche esteri, ancora prima del discorso musicale, sono venuti fuori con immagini, video, secret concert, che creavano hype intorno ad un prodotto. Tutto ciò è un segnale di quanto la comunicazione sia importante oggi.

Come mai hai scelto di cantare in inglese?
Di solito si inizia in inglese poi si continua in italiano, mentre a me è successo un po’ il contrario. Poi per l’università che ho frequentato ho visto molti film in lingua inglese o con i sottotitoli in inglese quindi c’è stato un allenamento nei confronti di questa lingua. Inoltre sono sempre stato legato al mercato musicale estero, quindi quando ho deciso di iniziare a scrivere qualcosa mi è venuto spontaneo scriverlo in inglese. Dovrò vedere come evolverà la mia musica e se continuerò con questa lingua, come hanno fatto anche Joan Thiele o Wrongonyou (artisti italiani che cantano in inglese, ndr).

Cantare in inglese ti permette anche di avere un bacino di utenza maggiore.
Cantare è qualcosa che mi permette di vivere in empatia con le persone e questa lingua ti mette a contatto con un pubblico più ampio. Parlando della mia scelta a livello sociale, gli ultimi risvolti politici mondiali non sembrano presagire un mondo cosmopolita, anzi piuttosto un mondo chiuso. Io comunque credo nell’essere cosmopoliti e una lingua che ti permette di arrivare a tante persone, anche se a volte con difetti di pronuncia, credo che sia qualcosa di positivo.

Ascoltandoti viene in mente la scena busker folk inglese ed interpreti come Ed Sheeran e Passenger. Ti ispiri a questi artisti? Rimarrai su questo stile acustico?
Intanto grazie per il complimento, quelli che hai citato sono artisti che piacciono molto anche a me e inoltre, parlando di busker (artisti di strada), insieme al mio collettivo UGA stiamo lavorando con il comune di Genova per cambiare la regolamentazione e per riuscire a venire incontro agli artisti. Credo che il busking sia qualcosa da tutelare e da rendere possibile. Per quanto riguarda il suono che vorrei proporre, la mia intenzione è quella di prendere spunto dal folk moderno, oltre agli artisti che hai citato altri che possono essere d’ispirazione sono The Tallest Man on Earth e Justin Vernon. In particolare proprio quest’ultimo ha un sound che mi incuriosisce molto, mixando il mood malinconico del folk all’elettronica.

Concentrandoci invece sul tuo prossimo EP, puoi anticipare qualcosa di ufficiale?
La data da segnarsi è il 26 dicembre, giorno in cui uscirà su Spotify. C’è già un video su Youtube del primo singolo estratto, Spellbound. Per tutto il mese di novembre, invece, ho deciso di prendere un’altra traccia che si chiama Snowflakes e l’ho divisa in 6 clip da trenta secondi l’una che usciranno una volta a settimana, in modo da anticipare l’uscita dell’EP e del video completo, successivamente disponibili in concomitanza. Sono stato ispirato dai Radiohead, visto che nell’ultimo disco hanno fatto brevi clip di preview delle canzoni pubblicate sul loro profilo Instagram. Sulla pagina facebook www.facebook.com/riverofficialpage si possono trovare tutti i titoli e tutte le informazioni a proposito dell’EP.

Hai parlato spesso del collettivo di cui fai parte, di cosa si tratta UGA (Unione Giovani Artisti)?
Quando sono entrato nel collettivo mi sono trovato ad affrontare insieme ad altri, dieci progetti musicali che provavano a percorrere strade diverse: c’era chi amava il cantautorato in stile Dalla o Graziani, chi invece faceva canzoni inglesi come me. Abbiamo deciso di avvicinarci e unire le forze, perché è sempre difficile proporre da soli la propria musica. Tutto è iniziato con una rassegna in un locale che si chiamava la Locanda (oggi Bootleg) e da questo abbiamo fatto altre date in giro. Si lavora insieme per far cresce il proprio progetto e quello di tutti.

Cosa ci vuoi trasmettere con la tua musica?
Ciò che vorrei maggiormente è essere onesto con me stesso, con la mia musica, anche rischiando di non piacere alle persone. Per adesso, anche seguendo questa filosofia, sono riuscito fortunatamente a creare empatia con il pubblico che mi ha ascoltato e questo, a mio parere, è un bellissimo risultato.

Il gruppo romano Thegiornalisti è sull’onda del successo dopo l’uscita del loro nuovo album.

Thegiornalisti: Completamente Sold Out
Thegiornalisti (Foto © www.radiopuntonuovo.it).

Poche storie, stiamo parlando del gruppo del momento. Si fanno chiamare Thegiornalisti per i loro testi rosa schietti come la carta stampata, innamorati dell’amore e di tutto ciò che gli gira attorno. La band italiana composta da Tommaso Paradiso, Marco Antonio Musella e Marco Primavera sta scalando le classifiche con l’album “Completamente Sold Out” e con il loro pop da sognatori, che ha coinvolto persino le radio nazionali.

Ci sentiamo per telefono, non potremmo fare altrettanto visti gli innumerevoli spostamenti tra tour, prove, instore ed interviste. Nonostante ciò la chiacchierata è amichevole e tranquilla, senza fretta, cercando di scoprire cosa significhi far parte di una band indie ormai sulla bocca di tutti.

Come state vivendo l’uscita dell’album?
Stiamo vivendo bene questo momento, ora siamo in tour e non riusciamo a valutare effettivamente tutti i risultati. Metabolizzeremo forse tra un mesetto.

In radio vi si sente sempre di più, se “Fuoricampo” è stato molto apprezzato con “Completamente Sold Out” e con il singolo “Completamente” si può dire che abbiate fatto centro. Sentite di essere sotto i riflettori?
Vedendo tutte le pagine Facebook che sono nate per prenderci in giro direi di sì (Ridono). Quel che ci sta accadendo è tutto positivo, possiamo dire tranquillamente che ce la stiamo godendo.

Vi sentite mainstream?
Siamo all’inizio di un qualcosa, ma è prematuro considerarci mainstream. Mainstream è Zucchero, rispetto a noi c’è ancora qualche differenza (Ridono). Sicuramente siamo in una posizione che al momento è difficile da definire.

L’indie italiano ha sempre più protagonisti che stanno emergendo con sintetizzatori e suoni elettronici. Come mai avete scelto anche voi l’elettronica?
Già con “Fuoricampo” abbiamo portato avanti questo stile, è stata una scelta dettata dalla volontà di proporre un’armonia molto “dream” e per far questo abbiamo avuto bisogno di quei suoni. Volevamo far uscire la nostra anima super malinconica. Poi il rock ci aveva un po’ stufato, anche se effettivamente non l’abbiamo mai fatto.

E comunque il panorama italiano non era abituato al vostro tipo di pop.
Esatto, non ce n’era. C’era il vintage sulle chitarre, non c’era questa riscoperta degli anni ’80.

Al pubblico spiccano due cose ascoltando e guardando i Thegiornalisti: i testi, pieni d’amore, sentimenti ed emozioni, e un look retro curato ed affascinante. La vostra immagine è un messaggio che volete comunicare oppure avete proprio uno spirito hipster?
In realtà, questa immagine retro è soltanto legata al video di “Completamente”, se potessi vedere come siamo vestiti ora in treno ci paragoneresti a tre rapper neri. A noi piace la modernità con stile, non ci vestiremmo mai nella vita di tutti i giorni con il vestiario del video, se guardi i nostri profili Instagram lo puoi vedere.

Comunque avete colpito anche quel tipo di personalità e di stile.
Noi cerchiamo di combinare la modernità (gli smartphone e i social), alla retromania e pensiamo che questo si noti.

Siete un gruppo nuovo, fresco e lontano dalle telecamere dei talent. È necessario andare in televisione per fare musica?
Dipende da che tipo di carriera vuoi fare. Se non hai nulla da perdere e hai una bella voce perché no, l’importante è non perdersi d’animo se ti rifiutano. Se hai la passione, quella vera, consigliamo di fare una carriera partendo dal basso, girando vari club, suonando live.

Di recente è nata un’iniziativa da parte del direttore di Rockol, Franco Zanetti, il quale ha chiesto a Sky di evidenziare e approfondire gli autori delle canzoni che vengono scelte ad XFactor, visto che generalmente chi scrive e compone passa in sordina. Cosa ne pensate? In particolare Tommaso, che ha lavorato a “Luca lo stesso” per Luca Carboni.
Parlando appunto di Carboni, in ogni intervista in cui si parla di “Luca lo stesso” lui cita Tommaso, Dario Faini, i Thegiornalisti e questo è un suo grande merito. Gli autori sono sottovalutati, ma in realtà sono il motore della musica italiana odierna, visto che tutti gli interpreti che stanno in classifica raramente scrivono le proprie canzoni. È un lavoro che andrebbe considerato maggiormente dai media e dagli stessi interpreti.

Concludiamo parlando di “Completamente Sold Out”, qual è il senso totale dell’album?
Dietro ad un apparente velo malinconico questo album contiene un’esortazione alla gioia di vivere. Abbiamo cercato di spronare le persone a godersi la vita anche nei momenti più difficili, senza risparmiarsi, tirando fuori tutto quello che si ha, soprattutto nei rapporti personali. “Completamente Sold Out” è un grido, un grido di esistenza.

Al Teatro Quirinetta di Roma, Luca Bussoletti ha festeggiato i suoi quarant’anni tra ricordi di carriera e il prossimo album in arrivo.

Luca Bussoletti, un compleanno sul palco
Luca Bussoletti.

I cantautori italiani sono una specie rara da preservare, menti creative sempre in elaborazione. Anche se lontano dalle casse del mainstream, Luca Bussoletti è un volto del pop italiano. La sua lunga carriera, partita nel 2004, lo ha portato a girare l’Italia calcando palchi importanti insieme a grandi nomi della musica nostrana come Irene Grandi, Alex Britti, Tricarico e Jack Savoretti.

Analizzando la carriera di Bussoletti, è da apprezzare e stimare la partecipazione all’UniWeb Tour promosso da Red&Blue, il tour live acustico di artisti emergenti in diretta sulle web radio delle principali università italiane. La decisione di passare per gli atenei e le relative web radio è assolutamente da applaudire considerando il grande patrimonio italiano, ancora poco sfruttato e conosciuto, della radiofonia universitaria. Sicuramente Bussoletti ha vissuto sulla propria pelle il potenziale di queste realtà.

Lo scorso 2 Novembre, per festeggiare i suoi quarant’anni, il cantautore ha deciso di suonare al Teatro Quirinetta di Roma presentando al pubblico il singolo Correre, uscito il 30 settembre come anticipazione del suo nuovo album, ormai in fase di ultimazione. Il brano ha un featuring d’eccezione, la “Targa Tenco” Mauro Ermanno Giovanardi, ospite, insieme a Tricarico, sul palco romano. Nel corso del live, Riccardo Noury, portavoce nazionale di Amnesty Italia ha consegnato a Bussoletti il premio “Arte e diritti umani 2016”: la sua Povero drago è stata scelta da Amnesty International per festeggiare i quaranta anni dell’organizzazione. Parte della serata è stata dedicata al Premio Nobel Dario Fo, con cui Bussoletti duettò nel brano A solo un metro, riproposto con orgoglio.

La particolarità del mercato musicale, una volta deciso di voler conoscere qualche artista in più dei soliti noti, fa emergere personalità originali che, a proprio modo, trasmettono racconti ed emozioni con un linguaggio nuovo, talvolta sperimentale. Bussoletti, in questo clima indipendente, è un cantautore pop con dell’estro da non sottovalutare, da scoprire e da ascoltare volentieri.

Il panorama hip hop è sempre stato circondato dai mondi del beat e delle rime. È necessario capire dove ci siano delle prevalenze e soprattutto perché.

musica hip hop: è più importante la base o il testoDopo tanti anni di ascolto assiduo di musica hip hop ho voluto scavare nel profondo, chiedendomi se effettivamente fosse più importante la base o il testo. Prima di andare nel concreto è necessario premettere qualche punto.

Al giorno d’oggi il producer e il rapper hanno carriere che procedono in parallelo, non solo perché sembrano tra i mestieri più gettonati dai giovani, ma soprattutto perché chi produce le basi riesce ad avere un risultato così efficace da prevalere talvolta sul testo. Se prendiamo la prima metà degli anni ’90 non troviamo certo lo stesso risultato: quando si parlava di beat ci si riferiva solitamente ad un groove ritmico con un sottofondo che serviva da perfetta architettura per il testo. Quindi, in breve, ti “scappava la gamba”, ma ascoltavi maggiormente il contenuto di una canzone hip hop. Ad oggi troviamo beatmaker che hanno uno stile musicale incredibile, alcuni casi italiani citabili sono Don Joe, i 2nd Roof e il freschissimo Charlie Charles, tutti maestri nei giochi tra kick e hihat, nel farci calare nel mood del perfetto hip hop. Arriva adesso la domanda che mi ha fatto pensare tutta la settimana: in tutto questo, che ruolo ha il testo?

Ripartiamo dagli anni ’90, la old school. Secondo me c’è qualcosa che tutti sanno, ma che in pochi vogliono dire, come se fosse un mistero nascosto. Il rap dei pionieri italiani, nel nostro Paese, è sempre stato inteso alla perfezione visto che era cantato nella nostra lingua madre, mentre quello estero, sebbene sia portato in alto dagli estimatori, è stato compreso solo da chi si è andato a tradurre i testi. Quindi, quando negli ultimi dieci anni il rap è diventato mainstream, alla portata di tutti, chi non ha tradotto i testi della old school, ascoltando solo una melodia di base e voce, si è stupito dei contenuti portati dall’hip hop in Italia. È stato un errore enorme che continua ad esserci tutt’oggi. Il rap nasce dal ghetto e porta fuori la rabbia della violenza subita dal sistema mista alla voglia di rivalsa nei confronti della vita, non lo si può castrare del linguaggio duro.

Arriviamo ad oggi e soprattutto al panorama italiano. Sono certo che talvolta ci sia entusiasmo per alcuni pezzi che non hanno contenuti. Lo stile “gangsta rap” c’è sempre stato, è vero, non mi stupisco più per l’autocelebrazione, per i discorsi sui soldi e sulle donne, ma sono sicuro che se certi testi avessero delle basi diverse non avrebbero lo stesso successo. Poi bisogna anche vedere ognuno che tipo di idea di contenuto abbia in mente, questo è ovvio, però se penso alla situazione che avevano Tupac e Notorious BIG o ai loro contenuti riesco a giustificare il loro linguaggio, i loro temi, anzi è giusto che siano così forti e diretti. In Italia non siamo in USA, per fortuna o per sfortuna, e quindi trovo che gli argomenti di cui parlare dovrebbero a volte essere più coerenti con il sistema.

La base sta diventando più importante del testo, anche nella new school purtroppo, perché alla quinta traccia in cui mi spieghi che ti piace stare sul divano a farti le canne e che i tuoi amici “fanno brutto” da far paura, capisco solamente che sei una copia di tanti altri. Secondo me, ai giorni nostri, avrebbe ipoteticamente più senso produrre il disco di un immigrato in Italia, che sputa rime sulla schifezza del sistema e sulle brutalità che il mondo, purtroppo, gli ha riservato. Questo sarebbe vero rap, duro e schietto, ancor meglio se meritatamente supportato dai nostri migliori beatmaker.

Nelle radio passano nuovi gruppi e cantautori italiani, il tutto fuori dai riflettori e dagli schermi.

Calcutta, Thegiornalisti e Ex-OtagoUn baffo, un paio di rayban, due risvoltini e una camicia retrò. Anche questo riassume parte di quello che è la “new school” della musica leggera italiana, emergenti “emersi” per davvero (finalmente), approdati pian piano dove tutti possono ascoltarli. Si gioca sul look “hipster”, sia dalla parte degli interpreti, sia da parte del pubblico, ma la verità è che si sta tornando indietro per andare avanti. Il vinile torna di moda come i sintetizzatori, che stanno riempendo le radio con i loro suoni così carichi ed elettronici, accompagnati da parole solo e soltanto d’amore.

Cito tre nomi: Calcutta, i Thegiornalisti e gli Ex-Otago. Finalmente qualcuno di nuovo viene trasmesso dalle radio nazionali, qualcuno che scrive i propri pezzi, qualcuno che non fa parte di un talent, qualcuno che si è fatto la gavetta (vera) ed è arrivato lì perché ha voluto arrivarci con i tempi giusti. Questo è un segnale forte e il successo che stanno avendo questi tre nomi è dovuto al fatto che la loro musica è vera, non è sotto i riflettori e soprattutto, prima di arrivare al pubblico per la loro immagine, questi artisti vengono percepiti per le loro melodie. Mentre nell’ultimo decennio un viso è diventato più importante di una voce e di una parola, ci stavamo dimenticando di questo piccolo dettaglio: la musica è fatta di suoni, soltanto dopo e secondariamente verrà l’immagine.

Tornando quindi alla musica, i testi hanno al loro interno un senso di libertà totale, c’è chi esorta a limonare, a tornare indietro dall’ultimo amore andato male, a vivere un sentimento, che sia gioia o rabbia, dolore o felicità. Se sono arrivato a parlarvi di “emergenti mainstream” vuol dire che questi artisti hanno già un loro pubblico e le speranze a questo punto sono due: intanto che continuino così bene la loro carriera, perché i risultati sembrano ottimi; poi, che molti altri gruppi o cantautori avanzino dal basso dell’underground verso il mainstream mantenendo la propria identità, senza essere snaturati dai meccanismi delle classifiche radiofoniche o dalle logiche industriali della discografia.

Quando cento sconosciuti si trovano in un locale, con una birra in mano e pensano all’unisono che un emergente abbia davvero del talento, il più è fatto. Bisogna solo farlo ascoltare a più persone, va bene anche ad occhi chiusi.

Sta tornando la musica italiana. Finalmente.

Per le foto di copertina: www.gazzettinodisalerno.it




Il singolo Un istante di noi di Rosmy è primo nella classifica radiofonica della gara.

Rosmy finalista al Premio Mia Martini
Rosmy (Foto dalla pagina FB ufficiale).

Sono passati ormai ventuno anni dalla scomparsa della voce più viscerale ed emozionante della musica italiana, la grandissima Mia Martini e, come ogni anno, ci stiamo avvicinando alle finali del premio a lei dedicato, che si terranno tra il 20 e il 22 Ottobre.

Spicca come prima in classifica radiofonica del Premio Mia Martini Rosmy, cantante e attrice teatrale, la quale è arrivata in finale con il singolo Un istante di noi.

Il brano è molto orchestrale, di stampo “sanremese”, perfettamente coerente con la tradizione della musica leggera italiana. In un’atmosfera di violini e in un sottofondo molto morbido, si fa strada il testo di questa canzone d’amore dedicata alla fugacità di un momento, che talvolta può essere metaforicamente eterno. Il brano, inoltre, fa riferimento alla domenica, un giorno che rompe la monotonia quotidiana di tutta la settimana, ridando colore alla vita e anche alla coppia. In riferimento a questa particolarità della canzone, Rosmy ha dichiarato di ritrovarsi nelle parole del Leopardi: «Rivivo un po’ quello che scrive Giacomo Leopardi ne “Il Sabato del villaggio”, dove l’attesa di quel momento di festa presuppone sempre una speranza.

rosmy-finalista-premio-mia-martiniA breve uscirà Il videoclip musicale di Un istante di noi, dove entreranno in conflitto diversi sentimenti e stati d’animo, ma alla fine vincerà quello più importante nella vita di ognuno di noi. La risposta come si potrà capire dal video e dalla canzone sembra facile, anche se non è mai scontata».

Per quanto il brano non sia una hit al primo ascolto e la strofa risulti poco incisiva, la melodia del ritornello è vincente dopo solo qualche riproduzione e questo spiega la prima posizione in classifica radiofonica del Premio Mia Martini.

A questo punto c’è solo da aspettare gli esiti delle finali a fine Ottobre che incoroneranno una nuova proposta per l’Europa. I riflettori sono tutti puntati sul paese natio di Mia, Bagnara Calabra, dove si terrà la finale. I meriti di questa grande opportunità per gli emergenti vanno a Nino Romeo, per aver portato grandi nomi a contatto con i giovani della musica italiana.

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