Continua la lotta contro i bagarini online, ma non è ancora nata una piattaforma certificata che garantisca l’acquisto e la vendita di biglietti già comprati.

Secondary ticketing: un problema ancora irrisolto

Capita spesso di imbattersi in gruppi Facebook (fan club o eventi ) dove le persone che non possono andare a vedere un concerto, ma hanno già comprato il biglietto, si trovano nella situazione di doverli vendere.

“Vendo 2 biglietti per X il 20 luglio allo stadio Y, contattatemi in privato”.

Sicuramente c’è qualcuno che vuole approfittarsene, ma molte volte sono persone che hanno ricevuto il biglietto per regalo o, semplicemente, non possono andarci e vorrebbero cedere a terzi il proprio titolo allo stesso prezzo di vendita. Abbiamo provato a contattarne alcuni in privato e abbiamo capito che, procedere di persona in persona, è il modo migliore per trovare soluzioni senza accedere a siti che raddoppiano o quadruplicano i costi reali degli spettacoli. Una volta decisa la transazione (che avviene nei confronti di uno sconosciuto, per quanto PayPal possa venirci incontro) sorge una problematica: il nominativo. Quindi, sia il venditore che l’acquirente entrano nel seguente loop:

  • “Dammi un giorno che mi informo”
  • “Guarda che ho altre persone che stanno cercando il biglietto. Sei sicuro che ti interessa?”
  • “Si, ma ho bisogno di capire come cambiare il nominativo”
  • “Se vuoi ti invio una copia dei miei documenti”.

Eccetera, eccetera. Tutto risolvibile, come avevamo già scritto su Musica361, se le stesse grandi aziende di ticketing promuovessero una piattaforma sicura dedicata a queste esigenze degli utenti.

Oggi il secondary ticketing continua ad esistere, è calato, ma ha ancora mercato. È recente la notizia in cui la FIFA ha denunciato un famoso sito di rivendita di biglietti per violazione della legge sulla concorrenza sleale. Anche alla Scala di Milano, secondo il Corriere della Sera, sono stati licenziati alcuni dipendenti della biglietteria che avevano inserito sui siti di secondary ticketing biglietti a prezzi maggiorati. Sebbene contro questa piaga si stiano spendendo ingenti forze nel tentativo di contrastarla, sembra ancora tanto il lavoro che ci sia da fare. E a rimetterci sono, in primo luogo, i consumatori: chi non fa in tempo a comprare il biglietto di un concerto probabilmente non lo troverà e chi vorrà rivenderlo legalmente si troverà in grande difficoltà.

 

Qualcuno si ricorda di “In The Shadows” e di “The Reason”? Era il 2003/2004.

MusicAmarcord: The Rasmus e gli Hoobastank

Non ce ne vogliano i fan più accaniti, ma due caposaldi degli amarcord del 2000 sono stati i The Rasmus e gli Hoobastank. Sicuramente avranno continuato la propria carriera con nuove canzoni, ma per chi è ancorato ai ricordi musicali basta citare questi due nomi per far tornare il 2003, anno in cui uscivano rispettivamente “In The Shadows” e “The Reason”.

Negli anni 2000 l’alternative rock andava parecchio, ma nessuno si aspettava una band finlandese nelle casse delle radio del globo. I The Rasmus hanno registrato nel 2003 il loro album “Dead letters” dopo aver acquisito, ad inizio millennio, il “The” nel proprio nome, vista l’omonimia con il dj svedese Rasmus che minacciava di fare causa. E se per loro l’entrata negli anni doppio zero non è stata delle migliori, tre anni dopo, appunto, sfornano un successo mondiale. “In The Shadow” ha raggiunto le top 10 di svariati paesi, l’album ha ricevuto 8 dischi d’oro e 6 di platino per un totale di due milioni di copie.

Più esperti, ma soprattutto statunitensi, anche gli Hoobastank proponevano un alternative rock, con meno importanza alle chitarre rispetto ai colleghi finlandesi. La band nasce nel 1994. Sei anni dopo, nel 2000, realizza colonne sonore per film (Spider-man 2, Daredevil) e videogiochi (Halo 2). È nell’anno già citato che prendono piede con il loro successo: “The Reason” è il nome di un album che parte blando con l’uscita del primo singolo “Out of Control”. Ma il successo è dietro l’angolo e la title track diventa il tormentone estivo del 2004. Alta rotazione in tutte le radio e tv del mondo. Si esibiscono anche in Italia agli European Music Awards di Roma. Sbagliate a pensarli estinti, hanno continuato a fare dischi e a fine maggio 2018 è uscito il loro nuovo album “Push Pull”.

The Rasmus e Hoobastank sono due band che, dopo un successo globale, si sono ridimensionate e hanno continuato la loro gloriosa carriera. “Fare il tormentone” è una delle opportunità più difficili nella musica, non esiste la ricetta vincente, ma quando capita hai giocato l’asso. Comunque andrà la loro carriera, quelle canzoni sanciranno sempre un periodo storico. E voi, nel 2003, cosa stavate facendo mentre le ascoltavate?

 

Dopo il caso torinese c’è da chiedersi se l’arte di strada venga davvero rispettata nelle città in cui è permessa.

All'arte di strada mancano gli spazi, ma si tagliano gli orari

Di recente, a Torino, è stato proposto in Comune il sequestro degli strumenti musicali a chi suona per strada. Letta così sembra la folle idea di un dittatore, ma leggendo a fondo la notizia si scopre la realtà. Il regolamento torinese fisserebbe delle fasce orarie più corte (dalle 16 alle 18 e dalle 20 alle 21) nelle vie del centro, mentre lascerebbe maglie più larghe per le periferie (dalle 10 alle 22 con due ore consecutive di esibizione nello stesso posto). Chi sgarrerà potrà rischiare il sequestro della strumentazione. Fonte del dettaglio è il Corriere della Sera, che ha riportato anche le parole del sindaco Chiara Appendino sul regolamento: “Viene fatto proprio per garantire al meglio l’attività degli artisti conciliandola con la quiete dei residenti”.

Queste decisioni vengono prese a causa delle lamentele, sia dei residenti che degli esercizi commerciali. Sicuramente tra gli artisti di strada non si avrà sempre l’occasione di ascoltare Mozart o Springsteen, però è anche vero che l’arte porta benefici turistici proprio agli stessi esercizi commerciali. Quando si trovano centinaia di persone ad ascoltare un artista, queste si troveranno proprio di fronte ai negozi adiacenti allo spettacolo. E in quel caso gli esercenti si lamenterebbero lo stesso? Seguendo il ragionamento, quindi, il problema non sembrerebbe di orari, ma di spazi.

Il caso di Torino è importante per la proposta fatta dall’assessore ai giovani, Marco Giusta, il quale in sede comunale ha proposto un piano di riorganizzazione degli spazi delle esibizioni. Questa idea comprende, in caso di inottemperanza delle regole, il sequestro degli strumenti. Nella maggior parte delle città italiane gli artisti di strada non possiedono spazi definiti con precisione, i quali, invece, potrebbero diventare luoghi di aggreazione se specificati con una mappa.

Basti pensare a qualsiasi piazza famosa, con orari e spazi adibiti all’arte di strada, in cui il turista, l’appassionato e il passante potrebbero trovare, con ricorrenza, una diversa forma artistica a diversi orari della giornata. Ancor meglio sarebbe se la possibilità di usufruire di determinati spazi fosse prenotabile online, ma sappiamo quanta difficoltà ci sia ancora oggi per digitalizzare la burocrazia nella pubblica amministrazione. Questa utopia è un servizio che non esiste e che implica un investimento, nuovi posti di lavoro. L’Italia è un paese dove la cultura dovrebbe essere tra le priorità, considerando il nostro patrimonio storico-culturale. Se Torino sta almeno provando a trovare un giusto compromesso, a suo modo, perché non esiste un regolamento nazionale in merito? Perché in ogni regione bisogna essere soggetti ad ordinanze differenti?

Sono appena approdati in rete due nuovi servizi che puntano a cambiare il mercato dei nuovi media: Instagram TV (IGTV) e YouTube Music.

Rivoluzione sul web: arrivano IGTV e Youtube Music

Si è parlato molto del calo di contenuti su Youtube Italia e sulla perdita di freschezza delle piattaforme che hanno monopolizzato i nuovi media. Ma ecco che in un lampo l’estate duemiladiciotto si è accesa con due cambiamenti importanti: Instagram TV (IGTV) e YouTube Music.

La prima riporta in auge un termine anacronistico dei media, la TV. Il web si è posto da subito come lo “schermo alternativo”, altri lo hanno definito “la nuova televisione”, ma di fondo tutti i contenuti provenienti da internet hanno avuto, come minimo comun denominatore, un fattore di controtendenza a danno della televisione. La TV nelle nuove generazioni è ormai sinonimo di arretratezza, poiché pochi format delle reti pubbliche riescono a canalizzare l’attenzione di spettatori under 30. Eppure Instagram, dopo il grande successo delle stories e delle dirette, ha voluto dedicare uno spazio specifico dove pubblicare contenuti personali, il suo modo di intendere una tele-visione: rigorosamente in verticale e con la possibilità di registrare fino a un’ora di contenuti. Subito le webstar hanno iniziato a popolare la piattaforma, così anche i profili minori hanno colto l’occasione per diventare un nuovo “canale” d’intrattenimento. Funzionerà IGTV? Sarà un nuovo modo di estendere i “15 minuti di popolarità” di Warhol? Lo scopriremo. La mossa risulta sicuramente interessante, al fronte del massiccio utilizzo delle dirette da parte degli utenti. Musica361 è stata testimone diretta nella sala stampa Lucio Dalla, durante il Festival di Sanremo, della calca di colleghi giornalisti che hanno ormai canalizzato il proprio flusso sulle dirette live. Si sta facendo strada un nuovo modo di comunicare, a discapito, talvolta, della qualità.

La seconda novità, invece, coinvolge direttamente la musica. YouTube ha deciso di aprire ufficialmente il proprio servizio di streaming: YouTube Music. Quando si parla di questo colosso di proprietà Google le cifre in ballo sono importanti, sia per quanto riguarda la pecunia, sia per le visualizzazioni. Sarà forse un nuovo metodo per ristabilire un giusto valore nella battaglia contro il value gap? L’offerta è allettante, perchè, oltre alle canoniche playlist per mood, generi e ricerca, ci saranno anche disponibili cover e contenuti live esclusivi. Quindi, se YT Music vorrà provare a sfidare il colosso Spotify, dovrà puntare sia sugli utenti, ma soprattutto sugli artisti, riconoscendo loro introiti maggiori in base alle visualizzazioni. E Youtube ha già dalla sua parte tanti contenuti che Spotify non ha mai avuto. Quale sarà, quindi, la contromossa per cercare di non farsi minare il mercato? Anche questo sarà da valutare. La competizione è iniziata e adesso ce n’è davvero per tutti i gusti, bisogna solo scegliere bene.

“Pelle d’oca e lividi” è il nuovo lavoro di Gatto Panceri, il quale ha spiegato su Musica361 il lavoro meticoloso che ha svolto.

Gatto Panceri: "Sono orgoglioso del nuovo disco"

Gatto Panceri è tornato. Per le nuove generazioni è un nome nuovo, per chi, invece, ha avuto un la possibilità di vivere a pieno la musica italiana degli anni ’80/’90, lo ricorderà come un cantautore incisivo, capace, tra le tante canzoni scritte, di “cucire su misura” la celebre “Vivo per lei” per Andrea Bocelli e Giorgia. Il ritorno di Gatto è legato all’album “Pelle d’oca e lividi”, uscito lo scorso 25 maggio e prodotto dall’etichetta ‘Hit Rainbow’ di Roby Facchinetti, voce e anima dei Pooh, che ha speso recenti elogi su Panceri sulla sua pagina Facebook.

Quattro anni di duro lavoro alla ricerca di un nuovo album da “one man band”. Soddisfatto della riuscita?
Sì, la gestazione del lavoro è stata meticolosa, senza fretta proprio per consegnare alla stampa un lavoro che dal mio punto di vista fosse ineccepibile. Assodato che la perfezione in musica non esiste, devo dire che personalmente a ogni “play“ e di ogni singolo brano sono orgoglioso del risultato ottenuto. È il cd che sento più mio dei 12 pubblicati in carriera.

Quali sono le tracce del disco che hanno maggiormente inciso sul pubblico, quali, invece, quelle che, a suo parere, rimarranno più nascoste, per gli intenditori?
È presto per dirlo, non è passato neanche un mese dall’uscita. Dai primi consensi e dai commenti sui social di chi ha già acquistato il cd emerge però che il mio pubblico sta apprezzando tutto il lavoro. Naturalmente, i brani più di impatto arrivano subito: ma ho notato che vengono recepite dopo un po’ di ascolti anche le tracce in cui ho osato di più sperimentare.

Come verrà suonato il disco dal vivo?
Suonerò in concerto accompagnato da una band di 6 elementi: ma il calendario è attualmente in lavorazione, e non ho ancora date divulgabili. Il 23 giugno, alle 20.30, terrò un minilive gratuito al ‘Parco Dora Live’, a Torino, dopo un firmacopie del nuovo album. Al momento sono impegnato nella promozione radio, stampa e tv del cd. Da fine luglio a metà ottobre sarò in concerto in giro per l’Italia.

La musica è cambiata molto negli ultimi cinque anni. Al fronte della sua esperienza, qual è il suo pensiero sulla nuova distribuzione digitale? C’è meritocrazia o vince chi sponsorizza di più?
Naturalmente chi è più promosso è avvantaggiato: ma questo da sempre, e non solo nei canali digitali. Gli ultimi cd che personalmente ho acquistato li ho presi da iTunes, anche per evitare la scomodità di recarmi nei pochi negozi rimasti aperti. Innegabile che il futuro della musica in vendita sia da affidare sopratutto a internet.

Un album nel 2018 è una grande sfida. Il pubblico è ancora abituato ad ascoltare 19 tracce oppure ci si sta abituando a procedere per singoli?
Ormai quasi tutti procedono a singoli, che poi eventualmente raccolgono in un album. Ma un vero album è qualcosa che deve essere creato già dagli albori, per essere tale. Altrimenti, la si deve chiamare “raccolta“ di pezzi spaiati: o, alla vecchia, un “the best”. Ma io credo che ancora ci sia un pubblico che ama i concept album, lavori che si godono ascoltandoli nella loro interezza.

Nella musica di oggi c’è qualcosa che manca rispetto agli anni ’90?
Due periodi imparagonabili. Le produzioni pregiate e curate sicuramente oggi rispetto ad allora sono sempre meno. Oggi, la parola chiave in discografia è “low budget“ da quando le vendite sono crollate. Con sempre meno soldi e impegno i cd sono in genere miseri, e vuoti di sostanza vera. Mancano nuove leve che arrivino da utili gavette sudate, e studi musicali seri e approfonditi. Mancano produttori musicali che investano ancora il loro tempo su giovani davvero talentuosi, e non improvvisamente, e spesso casualmente, balzati fuori dai vari talent.

Qual è il prossimo obiettivo per Gatto Panceri? Sanremo 2019?
Il Festival mi ha dato tanto in passato, e quindi non escluderò mai, per coerenza e rispetto, la possibilità di ricalcarne il palcoscenico. Naturalmente, spero che questo cd continui a divulgarsi bene, e poi a fine anno si vedrà come procedere: sicuramente potrò pensare di candidarmi per Sanremo 2019, ma è ancora presto ora per deciderlo.

Il 20 giugno 2018 è stata la prima data di Cesare Cremonini allo stadio San Siro. Sul palco ha ripetuto più volte: “Era un mio sogno”.

Il sogno di Cremonini a San Siro

C’è un momento specifico in cui un artista smette di essere una persona comune e diventa personaggio pubblico. Il passo successivo, come è avveuto per Cesare Cremonini, è diventare un mito, seguito da una grande comunità di fan. Cambia il punto di vista delle persone quando ti vendono in alto su quel palco. Sei un supereroe: senza paure, perfetto in ogni sua sfumatura, che entra in scena con il costume delle grandi occasioni. Eppure anche i miti sono persone, esattamente come noi, i quali hanno riposto obiettivi e speranze nelle proprie passioni. Lo stadio di Milano, San Siro, la “Scala della musica pop”, era uno dei sogni di Cesare. L’ha ripetuto più volte a voce alta ieri sera, tra una tempesta di colori e il coro avvolgente del pubblico in ogni sua canzone. “Era un mio sogno”.

Se lo merita Cremonini, che ha fatto un percorso in ascesa, che si è reinventato pop sintentico pur rimanendo un poeta, un vero cantastorie. San Siro è stato sinonimo non solo di un professionista padrone del palco come pochi in Italia, ma anche di un musicista a tutto tondo, che passa dal pianoforte, alla chitarra acustica ed elettrica. Anche se l’acustica dello stadio non è stata una compagna fedele del suo concerto (colpevole l’eco e un ritorno di basse frequenze), lo spettacolo è stato sopra le aspettative, un vero show. Il limite della lingua italiana incontra la difficoltà di esportazione di alcuni capolavori nostrani. Cremonini meriterebbe palchi internazionali per la facilità e il talento con cui sta calcando gli stadi italiani. Speriamo solo non passi troppo tempo prima della prossima volta. Questa la ricorderemo in molti. Buon viaggio Cesare, che sia andata o ritorno, l’importante è che sia così.

Nato dai jukebox, il Festivalbar è la manifestazione canora italiana che sta più a cuore ai nostalgici.

Jukebox
Fonte: ollyjelley.tumblr.com

Non era formale come il Festival di Sanremo, non era solo per teenager come TRL, era il Festivalbar. Dal 1964 al 2007 questo evento ha sancito ufficialmente in Italia l’inizio dell’estate. “Festival-bar” è un nome particolare, non è stato scelto facendo la crasi di qualcosa riguardante musica e chiringuito, bensì con un criterio che ha sempre accompagnato questa manifestazione. Quando, nel 1964, Vittorio Salvetti ideò questo format, lo pensò come una gara fra le canzoni dell’estate: la misurazione delle preferenze del pubblico avveniva attraverso gli ascolti rilevati dai jukebox, disseminati nei bar di tutta Italia (Fonte: Wikipedia). Da ciò nasce lo spirito del Festivalbar: scovare la canzone dell’estate.

Così è rimasto fino al 2007, anche se nell’evoluzione tecnologica si è passati dalla rilevazione dei jukebox agli ascolti radiofonici. Poco importava, il vincitore era secondario, il punto centrale è sempre stato lo spettacolo. Metri di nastri sono stati sovrascritti nelle VHS di ogni casa, perchè guai a perdere l’appuntamento con il programma. Il vero successo del Festivalbar ci fu tra gli anni ’80 e il 2000, quando, acquistato dalle reti Fininvest (Mediaset), venne trasmesso su Canale 5, per poi approdare sul Italia 1 nel 1989. L’amore incondizionato per le canzoni trasmesse in ogni edizione poteva essere colmato dalle storiche compilation della manifestazione.

Due erano i punti forti di questo programma: i presentatori, passati alla storia, e gli artisti, colonna sonora delle estati italiane. Tra coloro che hanno condotto il Festivalbar si ricordano Claudio Cecchetto, Amadeus, Gerry Scotti, Fiorello, Alessia Marcuzzi, Simona Ventura, Elenoire Casalegno, Marco Maccarini, Daniele Bossari, Michelle Hunziker e molti altri. Gli artisti sono elencati in questa tabella delle edizioni.

Il playback era una formula classica di questo programma, abbandonato per la prima volta nel 2002. Una tra le tappe storiche del format era a Lignano Sabbiadoro. L’epicentro dell’evento era la finale, rigorosamente all’Arena di Verona. Verso il finire degli anni ’80, il Ministro dei Beni Culturali negò il proseguimento della finale nella storica arena, per proteggere il patrimonio dell’anfiteatro. In quell’occasione il Festivalbar divenne itinerante, girando le piazze più importanti d’Italia, per poi tornare all’Arena lo stesso anno in cui Vittorio Salvetti morì, lasciando il programma al figlio Andrea.

Il declino è avvenuto dal 2006 al 2008. Tra i molti che si sono interrogati sul perchè, c’è chi ha provato anche a spiegare chi ha “ucciso” il Festivalbar. Tra le ragioni, la crisi economica della discografia in quel periodo (da ricordare il fenomeno iPod emergente, i lettori mp3 e la pirateria). Il mercato della musica era cambiato e il Festivalbar la pagò cara con la mancanza di ascolti. Ma oggi è tutto diverso, oggi il mercato è rifiorito e lo streaming, come i jukebox degli anni ’60, è padrone di questo business. Allora perchè non riportare in auge una manifestazione che ha accompagnato per quasi 50 anni i telespettatori, magari con l’ausilio delle nuove tecnologie web? Probabilmente non accadrà, ma sperare non costa nulla.

In un solo anno la vita dei Seawards è cambiata completamente. A giugno scorso usciva il loro primo EP, adesso hanno aperto i The Script nei palazzetti.

Seawards, dal primo EP ai palazzetti in apertura ai The Script 1

“Verso il mare, che si affaccia sul mare”. Questa è la traduzione di Seawards, il nome di un duo, composto da Giulia Benvenuto e Francesco Proglio De Maria, che porta con sè il Mar Ligure, più precisamente quello di Imperia. Ma il mare può essere declinato anche in metafora, “un mare di gente”, “un oceano di folla”, lo stesso mare di fronte al quale hanno cantato lo scorso 10 e 11 giugno, al Mediolanum Forum di Assago (Milano) e al Gran Teatro Geox di Padova, in apertura ai The Script. Sono giovani, cantano in inglese, con testi e suoni originali. Hanno cantato al Teatro Ariston durante l’ultima puntata del Roxy Bar di Red Ronnie, sono stati in rotazione su Mtv Generation, hanno partecipato al Collisioni Festival. Teneteli d’occhio, perchè la nave è già salpata.

Un anno fa usciva il vostro primo Ep “85 BPM”. Un anno dopo avete aperto i The Script nei palazzetti. Siete già riusciti a realizzare tutto quello che è successo? 

Non abbiamo ancora ben capito cosa sia successso. Prima di salire sul palco del Mediolanum Forum e del Gran Teatro Geox abbiamo pensato: “Saliremo e ce ne renderemo conto”. E invece ancora oggi non abbiamo realizzato.

Cantate in inglese, siete giovani e internazionali. Adesso a cosa state puntando, qual è il passo successivo da raggiungere?

Il passo successivo è diventare sempre più internazionali a livello di arrangiamento.

Descrivere la vostra musica a parole è complesso, perché è davvero originale. Dal primo ascolto capisci che stai ascoltando qualcosa di nuovo, che non puoi incasellare in un genere specifico. Quali sono stati i vostri riferimenti artistici?

Questa è una domanda che ci fa sempre piacere ricevere. Le nostre influenze sono completamente opposte. Francesco è blues, legato alla chitarra acustica, mentre io – risponde Giulia – difficilmente ascolto il suo genere durante il giorno. Per quanto mi riguarda ascolto musica elettronica e pop americano. Fondendo i nostri riferimenti abbiamo creato qualcosa di originale.

Si fa proprio fatica a dire: “I Seawards suonano come…”, perché sia a livello nazionale, che internazionale, non si trovano paragoni adatti a ciò che proponete artisticamente. Ed è più che positivo. 

Quando ci chiedono che genere facciamo non sappiamo esattamente cosa rispondere. Dipende molto da che cosa percepisce ognuno dal nostro mix.

Avete trovato un connubio artistico con Zibba, il vostro produttore, nonchè direttore artistico dell’etichetta Platonica. Come è nato il rapporto con lui e come si è evoluto?

È stato lui a scoprirci in una piazzetta ad Imperia prima di un suo concerto. Ci siamo conosciuti e ha iniziato a guardarci un po’ di nascosto nei mesi successivi. Poi ci ha proposto di fare l’EP. La collaborazione è continuata in crescendo e adesso con Platonica è tutto una bomba. Ci stiamo trovando benissimo, c’è un rapporto di famiglia con tutto lo staff e il roster.

Spostiamoci sul nuovo singolo “Walls”. Qual è il tema centrale della vostra canzone? Avete scelto di cantare in inglese, quindi non è detto che tutti in Italia capiscano i vostri testi. 

Si, infatti i nostri genitori ci chiedono sempre di tradurgli i testi (ridono). Racconta una storia che ho vissuto sulla mia pelle – risponde Giulia – ovvero quella di due persone che, nonstante si amino alla follia, vengono bloccate da persone esterne. Per quanto possano cercare di non pensarci, di rimanere lontani, non ce la fanno, si vedono di nascosto e tornano insieme.

Nei vostri video la metafora visiva ha un grosso impatto. Quale interpretazione è giusto dare al video di “Walls”? 

L’interpretazione è libera. Noi ovviamente abbiamo messo all’interno un nostro pensiero: entrambi siamo gli unici che si vedono in faccia, perché noi siamo la storia, siamo quello che stiamo raccontando. Tutti coloro che non si vedono in faccia sono persone che vengono bloccate dagli agenti esterni.

C’è una ricorrenza nei vostri progetti: i video della regista Megan Stancanelli. Lei ha trovato il modo di rappresentare la vostra musica, così orginiale, nell’arte visiva? 

A Megan dobbiamo veramente tanto. Giulia, non fosse per lei, non avrebbe mai iniziato a cantare. Quando le abbiamo fatto sentire qualcosa dei nostri pezzi, si è proposta per realizzare i nostri video. C’è coesione ed empatia quando lavoriamo insieme e, a lavoro finito, i nostri video ci piacciono moltissimo.

Qual è il vostro approccio nella scrittura delle canzoni? Come mai avete scelto l’inglese? 

In realtà l’ho un po’ imposto a Francesco – risponde Giulia – perché, quando ci siamo conosciuti, lui scriveva in italiano. Ho deciso di scrivere in inglese, perchè è una lingua che mi piace alla follia. Guardo spesso film e serie in lingua. La trovo bella, musicale. Sicuramente fare melodie in inglese è più facile rispetto all’italiano, è più difficile fare metafore.

Però anche in questo avete qualcosa che vi contraddistingue: molti emergenti (anche se chiamarli tali dopo aver fatto due date nei palazzetti sarebbe sbagliato, nda) che decidono di scrivere in inglese, poi vacillano nella scrittura o hanno testi che sono abbastanza banali nella traduzione. Mentre, invece, la struttura delle vostre canzoni è più complessa e la parte testuale è profonda. Questo rende il tutto ancora più interessante. 

Grazie per il complimento. È la prima volta che lo sentiamo dire, non capita spesso. Quando andammo a fare i provini in un talent ci dissero che avevamo una pessima pronuncia e giudicarono male le nostre canzoni.

Direi che dopo gli ultimi risultati con i The Script, chiunque vi abbia giudicato male debba ricredersi. Cosa rappresenta per voi la musica? 

Non ricordiamo un giorno in cui dalla cameretta non sognassimo un palco come il Mediolanum Forum. Per me – Giulia – la musica è una rivincita.  Ho iniziato a cantare da piccolina. Ho smesso nel momento in cui ho deciso di dedicarmi completamente allo sport. Quando ho deciso di riprendere, mio padre era contro, non ci credeva. Oggi, invece, è diventato il mio primo fan insieme a mia mamma. È stata una rinascita.

Prossimi appuntamenti del “WallsTour” dei Seawards (in aggiornamento)

07-07-2018 @ “Varigotti Insieme” – Varigotti (SV)
22-07-2018 @ “La Spiaggetta” – Bassano del Grappa (VI)
8-09-2018 @ “Maccastoria” – Vedano Olona (VA)

 

Una delle cantanti amarcord degli anni 2000 sta per tornare nel panorama musicale dopo una malattia estenuante.

MusicAmarcord: l'emopop di Avril Lavigne

Se una generazione di ascoltatori ha speso il proprio tempo a flagellarsi con Laura Pausini, un’altra ha deciso di affogare le delusioni d’amore insieme ad Avril Lavigne. Siamo nel 2002, il periodo è quello di Mtv, in particolare di TRL, quando una giovane artista canadese decide di farsi conoscere al grande pubblico con i suoi singoli “Sk8r Boi” e “Complicated“. Si chiama Avril Ramona Lavigne, classe 1984.

Aspetto punk, teschi, cinture a scacchi, Converse e abiti neri, pronta a catapultare milioni di ragazzine in un mondo dark, ma allo stesso tempo pop. Nulla a che fare con il punk, si cantava l’amore in quel periodo e lei, in particolar modo, ne raccontava le delusioni, le promesse infrante e le speranze. Ma non solo, anche tante difficoltà di una ragazza dalla vita travagliata. Fece scalpore quando, dopo vari successi, tornò nel 2007 con il singolo “Girlfriend“, sicuramente più pop di come aveva abituato il suo pubblico. La criticarono molto, eppure “The Best Damn Thing” fu proprio uno degli album più conosciuti della cantante, con all’interno “When you’re gone” e “Innocence“.

Ha continuato a fare album fino al 2013, poi tutto d’un tratto è scomparsa dalle scene. Lei stessa ha rivelato di essere stata colpita dalla malattia di Lyme, portata da un batterio che infesta le zecche, le quali possono trasmetterlo all’uomo e agli animali (Fonte: Wikipedia). Avril ha raccontato su People il suo calvario, per il quale ha avuto enormi difficoltà per circa due anni. Lo scorso aprile, Mtv ha divulgato le foto della sua prima apparizione dopo la malattia. La cantante ha partecipato al 25° Race To Erase MS Gala di Los Angeles, mostrandosi in perfetta forma e senza accusare in alcun modo il passare del tempo. A inizio anno aveva dichiarato che è al lavoro sul suo nuovo album, a cinque anni di distanza dall’ultimo. In questi anni è cambiato totalmente il mondo della musica, si fa fatica a pensare ad Avril Lavigne, come l’abbiamo conosciuta, nel contesto odierno. Quindi sarà curioso ascoltare un nuovo lavoro, all’alba dei suoi 34 anni e con esperienze che non sono più le semplici rotture con un fidanzatino.

Ma se lasciamo una parte di noi nella musica che ascoltiamo, allora le generazioni cresciute con Avril Lavigne si ricorderanno di lei alla prima nota. La forza delle sue canzoni era proprio quella di andare a toccare il nervo scoperto. Quando è così non lo dimentichi, per questo Avril avrà sempre un posto nella vita dei nostalgici degli anni 2000.

 

Amato o odiato, l’artista di “Ciny” è il più influente della scena trap italiana. I numeri e i featuring internazionali confermano il suo successo.

Intervista a Sfera Ebbasta. "Rockstar" è il nuovo album

Sfera Ebbasta ha raggiunto, di recente, vette internazionali. Nella scena trap italiana è sicuramente uno dei maggiori esponenti, insieme a Ghali, non a caso condividono proprio lo stesso beatmaker Charlie Charles. Ma quali sono le ragioni per cui Sfera Ebbasta è riuscito ad ottenere tutto questo successo? Molti se lo chiedono, soprattutto coloro che portano avanti diverse “crociate” nei suoi confronti. Rispondere in breve è difficile, quindi mettiamoci comodi e analizziamo con calma cosa traspare dalla sua proposta artistica.

Melodia e musicalità

Uno dei punti forti delle canzoni di Sfera sono le parti melodiche del cantato. Se nel rap la ritmica degli incastri (il flow) è una parte fondamentale, nella trap, dove, ancor di più, la base è padrona, la melodia del cantato risulta un punto chiave. La maggior parte di canzoni di Sfera Ebbasta hanno diverse sezioni ad alto impatto melodico, che rendono accattivanti i suoi pezzi. Il contenuto testuale delle sue tracce verrà analizzato più avanti. Prendiamo ad esempio la sua hit “Cupido“, nella quale troviamo quattro diverse melodie: il ritornello “Con le altre faccio lo stupido…”, la strofa “Ami se rispondo male…”, il “doppio” ponte “E vieni qua, mentre fumo un blunt…” e “Anche se la sera, quando si fa tardi…”. Tutte e quattro le sezioni sono coinvolgenti al punto da rimanerti in testa, quindi quando stai camminando per strada e pensi: “Questo ‘nanana’ che continua ronzarmi dove l’ho sentito”? È probabile che sia una canzone di Sfera. Questa dote è particolarmente internazionale, basti pensare che rap e trap in lingua inglese si sono insediati in Italia senza che molti degli ascoltatori capissero i testi, ma rapiti, appunto, dalla melodia e dagli incastri. Sempre a livello melodico, un altro punto di forza delle canzoni di Sfera sono i controcanti, le sporche e gli stacchi (come “Flash Flash” in Cupido), sempre nel momento giusto della traccia, per spezzare, creare contrasto e manetenere l’ascoltatore attento.

Freshness del personsaggio

Prima di arrivare ai contenuti, va analizzata la personalità di Sfera Ebbasta. Controcorrente e provocatorio: gli occhiali for woman fatti diventare un must, l’ossimoro del doppio Rolex al Concertone del Primo Maggio (Festa dei lavoratori). Tutto comunica il voler stare sulla bocca del prossimo. Se qualcuno pensa che Sfera sia forte, ha vinto lui. Se qualcuno lo odia, lo deride, vince sempre lui. E questo porta soltanto a quella parola di cui si fa abuso al giorno d’oggi, Sfera Ebbasta fa tendenza: nella moda, nella musica, nel porsi verso il prossimo, nelle movenze dei video, nel modo di gesticolare, nei tatuaggi, nei contenuti. Tanti altri colleghi sono solo suoi copia-incolla che non hanno ancora capito la differenza tra essere un personaggio (Sfera) e fare il personaggio. Per questo il rapper di “Ciny” può essere definito uno dei capi saldi italiani della società dell’apparire. I numeri lo confermano.

Periodo storico-culturale

Ogni periodo storico ha un’incidenza sulla cultura. Nel mondo della musica è alla base di qualsiasi avvenimento. Il jazz, ad esempio, si è formato durante il meltin pot delle migrazioni mondiali in America, il paese dove trovare fortuna, mentre l’hip hop, invece, era un movimento di espressione artistica e di protesta delle comunità afroamericane costrette a vivere nei ghetti. La trap è un’appendice del rap che si è fusa con la musica elettronica dopo la nascita della dubstep. Questo genere ha trovato un terreno fertile nell’immaginario collettivo grazie alla viralità dei social. Se il gangsta rap era espressione di potenza tramite l’ostentazione e l’incitazione alla violenza, la trap sembra farsi carico dell’istigazione degli haters: più qualcosa può essere provocatorio, più avrà un ritorno (lo si vede dal recente exploit di Young Signorino). In più, l’immagine, il vestiario, lo sfarzo, hanno marcato a tal punto la provocazione da trasformarla da controtendenza a tendenza. Questo apre uno spiraglio su un possibile inizio del declino del mercato trap o della possibile necessità di trovare qualcosa di nuovo che rompa gli schemi: i tatuaggi sulla faccia non bastano più, quale sarà la prossima mossa?

Sfera in tutto questo è diventato un simbolo e cavalca l’onda della viralità e del narcisismo. Visto che lui, insieme a Ghali e la Dark Polo Gang, è stato un pioniere della trap, oggi gode del riconoscimento dei fan, i quali lo elevano a uno status di grazia. Considerando Sfera come il classico anti-eroe della narrativa (il Walter White della trap), è chiaro che il suo status venga giustificato qualsiasi gesto decida di fare, dal provocatorio al solidale, dal legale all’illegale.

Contenuti 

La diaspora sui contenuti, soprattutto in Italia, è all’ordine del giorno. Saranno i quasi 70 anni del Festival di Sanremo, sarà che siamo un paese con una grande storia cantautorale, sará che abbiamo visto nascere e morire il sommo Dante e altrettanti magnifici esponenti letterari. Però ricordiamoci anche di cosa stiamo parlando. Perché intanto i divertissment sono sempre esistiti in qualsiasi forma d’arte. Inoltre, il movimento hip hop non ci appartiene, l’abbiamo fatto nostro come molte altre nazioni. E l’hip hop nasce come rottura degli schemi, in un contesto completamente diverso, in un paese con un’altra cultura. Quindi andare ad imporre dei “contenuti”, in senso aulico, sarebbe assolutamente fuori contesto. Detto ciò, chi pensa che parlare di droga, sessualità, abusi o rapporti interpersonali deviati non sia un contenuto, dovrebbe capire realmente in che mondo stiamo vivendo. Del velo di Maya ne ha già parlato egregiamente Schopenhauer, si consiglia di fare riferimento a lui.

In Sfera Ebbasta, tendenza e provocazione trovano il loro sfogo nel linguaggio utilizzato, che è cambiato nel tempo, mantenendo tratti di originalità assoluta, che denotano la firma di Sfera. Se nel suo periodo underground una tematica ricorrente era la Purple Drunk, e la conseguente comunità che c’era attorno a questa sostanza home-made, oggi che è in major l’ago della bilancia si è spostato. La bevanda viola è una citazione artistica al passato, in periferia, tra le difficoltà della vita che ti schiacciano se non metti il petto in fuori e le affronti. Per questo, oggi, Sfera Ebbasta ha come tematica principale il riscatto, come per dire: “Ho grattato il fondo, ma ora mi prendo tutto, cazzo”. C’è autocelebrazione, come tutti gli esponenti dell’hip hop dagli anni ’90 ad oggi, ma sempre con originalità. È logico che i temi trattati nel passato e nel presente siano molteplici, ma le tematiche medie riscontrate sono quelle elencate. E la forza di Sfera è che il riscatto non lo urla il suo personaggio, ma la sua persona. In due tracce dell’ultimo album “Rockstar“, Sfera Ebbasta sembra abbandonare per un secondo la sua sovrastruttura per tornare Gionata Boschetti, il ragazzo di Cinisello Balsamo: in “Tran Tran“, ad esempio, canta “dei miei pensieri riempivo la stanza, dopo gli sforzi di una vita intera” oppure “non ho mai chiesto niente a nessuno”. Poi torna nuovamente nel personaggio Sfera Ebbasta, ma l’introspezione è chiara nei suoi pezzi se si decide di ascoltare con attenzione. Un’altra traccia in cui accade nuovamente questo è “Ricchi per sempre“, in cui dice: “Saremo ricchi per sempre, ma forse no, va bè fa niente, ho scritto una canzone, sì quella è per sempre”. Oltre al riscatto, l’accettazione. Oggi Sfera è al top, ma Gionata sa bene che potrebbe non durare per sempre. Sfera si vanta di “fare i soldi”, Gionata accetta un possibile declino, “ma forse no, va bè fa niente”, non ha paura dei riflettori spenti, perchè ha già vissuto di peggio. Sempre nella stessa traccia parla del padre e del rapporto che lo lega stretto alla madre (“Ma almeno sono riuscito a far ridere mamma”). È interessante come “Ricchi per sempre” sembri una confessione di Sfera a Gionata, come per dire: “Ce l’abbiamo fatta” (dal testo: “E mi è tornato in mente, che non avevamo niente, nelle tasche solamente le mie mani fredde, qualche sogno infranto e le sigarette”. Egli parla probabilemente alla madre, agli amici, ma anche a se stesso). “Ho scritto una canzone sì quella è per sempre”, anche questa è una nota personale. Se Gionata fosse davvero superficiale come lo dipingono quando è vestito da Sfera, non avrebbe scritto “Ricchi per sempre” e queste frasi. Gionata sa bene che alla fine sono sempre le canzoni a sancire se qualcosa rimarrà o sará solo una foglia che aspetta di cadere quando il vento avrà cessato di soffiare.

Charlie Charles

“Last but not least” dicono gli anglosassoni. Se Sfera ha successo lo deve solo a Charlie Charles? No, per le ragioni elencate sopra, ma sicuramente Charlie è uno dei vettori del suo successo. La storia dell’urban music è piena di connubbi artistici tra beatmaker ed MC, quindi ben venga. Sarebbe come togliere Don Joe ai Club Dogo, un’eresia. L’esperienza e la dedizione di Charlie Charles sono una pedina fondamentale, perché oltre alla produzione del beat, lui è il direttore d’orchestra della parte musicale di Sfera Ebbasta. La base, come ha confessato Giame nell’intervista per la nostra testata durante il Genova Hip Hop Festival, è quello che muove le masse in questo genere musicale. Per questo Charlie Charles, come Sick Luke o Andry The Hitmaker, hanno in mano l’essenza di tutto. Perchè, in fin dei conti, a governare nella musica è sempre la musica stessa. Chi sa dove mettere le mani, chi ha studiato per farlo, è sempre un passo avanti al prossimo.

 

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