Nel mese di giugno di 31 anni fa, David Bowie arrivò in concerto per la prima volta in Italia con il Glass Spider Tour. Un docufilm racconta l’evento mercoledì 13 giugno alle 21.15 su Rai 5.

"Bowienext - Nascita di una galassia" su Rai 5

David Bowie era un extraterrestre. Se sta leggendo questo articolo, ovunque sia, gli piacerebbe essere accostato a questa visione. Cantante, popstar, autore, attore, insomma un artista a tutto tondo. Era vicino alle tematiche dello spazio, basta citare una delle sue opere, “Space Oddity”, per capirlo. Il tutto è da inserire ovviamente nel contesto in cui ha vissuto, epoca in cui lo spazio era la “nuova America”, la terra della fortuna. Non è una caso che proprio quella canzone venne pubblicata 9 giorni in anticipo rispetto al primo viaggio dell’uomo sulla luna. E da attore Bowie rimase sempre legato al paranormale. Grazie al genio di David Lynch, il Duca Bianco divenne Phillip Jeffries nel film “Fire Walk With Me” (Fuoco Cammina Con Me), prequel di Twin Peaks.

Rai Cultura ricorderà il Glass Spider Tour del 1987 con il docu-film “Bowienext – Nascita di una galassia” – in onda mercoledì 13 giugno alle 21.15 su Rai5 – a due anni e mezzo dalla scomparsa dell’iconico artista britannico. Si tratta di un film “corale”, unico nel suo genere, il primo dedicato ad una popstar. Ideato e realizzato dalla giornalista Rai Rita Rocca, Bowienext è un vero labour of love della regista, che ha raccolto video-tributi artistici da tutto il mondo: cortometraggi, animazioni, testimonianze di vita, spettacoli teatrali, performance, brani originali dedicati a Bowie et alia.

È la “creatività” il miglior tributo a David Bowie e per chi ha “l’uomo delle stelle” nel cuore, Bowienext è più di un semplice docu-film. È un viaggio nel passato proiettato nel futuro, attraverso le testimonianze di chi ha collaborato con il Duca Bianco e degli artisti la cui vita ha subito un “cambiamento” dal giorno in cui hanno ascoltato una canzone di colui che ha fatto della sua vita un vero e proprio capolavoro. È un Bowie “ritrovato” attraverso rari filmati di repertorio dalle Teche Rai, come ad esempio il miniconcerto al Piper di Roma il 25 marzo del 1987 e l’intervista del 1977 realizzata da Fiorella Gentile per il programma “L’altra domenica”. Tutte pellicole che verranno riproposte per la gioia dei fan.

Bowienext è un “Fantastic Voyage” nella galassia di tributi artistici a lui ispirati e inviati dai fan da tutto il mondo. Nel corso dei due anni della sua lavorazione, Bowienext è stato arricchito con una serie di interviste ai musicisti che hanno lavorato con l’artista, come Rick Wakeman, Lindsay Kemp, Earl Slick, Mike Garson, Gail Ann Dorsey e Sterling Campbell. Non mancano anche le testimonianze dei personaggi che lo hanno conosciuto, come Dario Argento e Sydne Rome, e quelle dei critici musicali che ne hanno approfondito la figura, come Simon Reynolds e Francesco Donadio. Il film racconta, come in un doppio specchio – quello di chi lo ha conosciuto e quello di chi lo ha ammirato come fan – l’artista David Bowie e l’uomo David Jones, in un racconto fluido non cronologico, che si snoda sull’onda delle emozioni, della musica e delle molteplici connessioni bowiane. Una galassia che ha preso forma dai primi anni della carriera del poliedrico artista britannico, ma che si è consolidata attorno alla sua “Blackstar” nel momento della sua dipartita da questo pianeta (il 10 gennaio del 2016) e che rappresenta la legacy della sua arte per le generazioni che verranno. Un artista che rimarrà per sempre nella storia della musica e del costume. Come dice Rick Wakeman: “In realtà David Bowie non è mai morto”.

“Everest” è il nuovo singolo de L’ultimodeimieicani, band genovese che fonde il cantautorato italiano al pop/rock di stampo inglese.

L'ultimodeimieicani: "Per vedere il cielo devi scalare l'Everest".

Hanno incominciato a suonare insieme nel 2014 Pippo, Lollo, Benji, Pulce e Racho, i cinque ragazzi che compongono L’ultimodeimieicani. Oggi puntano ad essere la nuova band rivelazione. Dopo l’EP “In moto senza casco” (2017), che raccontava la società vissuta attraverso gli occhi della band, gli obiettivi si sono fatti ancora più seri ed “Everest”, il nuovo singolo, anticipa un album da un sapore diverso: emotivo e introspettivo. La produzione di Mattia Cominotto (Green Fog Studio) dà, ancor di più, un’ufficialità al progetto.

“Everest” è una metafora che si riferisce ai palazzi della città che ci sovrastano?

Vivendo a stretto contatto i vicoli genovesi, vediamo il cielo attraverso i palazzi, ma allo stesso tempo ci sentiamo chiusi in una gabbia. È una cosa che non succede solo in città. Sicuramente è molto individuale e soggettiva.

I palazzi non sono altro che il tessuto della società. Società che sembra non accettare realmente il mestiere del musicista. Quella a cui vi riferite è anche una gabbia dal punto di vista lavorativo?

“Everest” è anche una metafora che indica la scalata. Noi siamo giovani e spesso ci troviamo smarriti, pur sapendo di portarci addosso il fardello del “dover scalare” qualcosa, dover arrivare da qualche parte. Sono concetti che ci sono stati imposti. Noi vorremmo solo suonare e dire quello che sentiamo, senza troppe paranoie imposte dal modello di società in cui viviamo. Il punto focale comunque non è la società in sè, bensì il nostro percorso personale, in cui ci troviamo spesso a superare qualcosa in salita. Per arrivare al cielo devi scalare le montagne.

Il paradosso di questa canzone è che ha un contenuto così intenso, ma è anche un ossimoro con il ritmo concitato del pezzo.

Rispetto ai nostri primi lavori siamo cresciuti anche dal punto di vista dell’arrangiamento. Stiamo lavorando con Mattia Cominotto (Green Fog Studio), che ci sta dando una mano in veste di produttore artistico. Abbiamo unito le nostre influenze, sia il cantautorato che il pop/rock inglese (Arctic Monkeys, The Strokes, ecc.). Per questo c’è un suono più carico. Uno schiaffo in faccia: non solo da sentire, ma da ascoltare.

Quali sono le ragioni per le quali avete scelto di lavorare il vostro album all’interno del Green Fog Studio con Mattia Cominotto? 

Mattia aveva registrato il nostro EP, che era autoprodotto, senza apportare modifiche alle nostre canzoni. Questa è la sua filosofia almeno nel primo lavoro di ogni band. Dopo questo EP abbiamo iniziato a lavorare al progetto dell’etichetta Pioggia Rossa Dischi, nella quale Mattia ha deciso di includerci. Ci siamo trovati bene e subito dopo lui ha proposto di produrci il nuovo disco. L’abbiamo scelto con molta convinzione, perché ciò che stava venendo fuori dalla saletta poteva essere interpretato nella maniera giusta solo da una persona come lui. Ci sembrava che potesse tradurre al meglio la nostra musica.

Pioggia Rossa Dischi è una nuova realtà interessante. Su Musica361 abbiamo parlato recentemente dei Saam, che fanno parte del roster PRD. C’è una linea guida che unisce gli artisti che vengono prodotti? Ne state cercando di nuovi?

Probabilmente fino a fine anno il roster è completo, a meno che non ci arrivino nuovi progetti che ci facciano girare la testa. Avremo un grosso annuncio tra poco. In realtà, se ti riferisci a una linea di genere, non l’abbiamo e non vogliamo averla. C’è un’apertura verso tutti. Per adesso ci manca un rapper nell’etichetta. La volontà è quella di rimanere un collettivo anche se tutto dovesse diventare ancora più serio in futuro. Abbiamo voluto creare un progetto dove chi ne facesse parte si sentisse in famiglia.

Ogni band si sveglia tutti giorni pensando alla cosa che vorrà fare dopo. Qual è il vostro obiettivo centrale, che vi fa svegliare e vi fa pensare: “Ok, dobbiamo spaccare tutto”?

È un sentimento di rivalsa rispetto a quello che sta uscendo ora in Italia. Massimo rispetto per Calcutta, è chiaro che una conseguenza del suo successo è stata, anche, l’uscita di tanti artisti “copia” del suo stile. Noi invece vogliamo fare qualcosa di diverso, che ci appartenga e abbia un senso, sia a livello musicale che a livello testuale. Questo è ciò che ci spinge ad andare avanti, la ricerca della qualità. Ideale condiviso anche nel progetto di Pioggia Rossa Dischi.

Da questa intervista potremmo quasi coniare il termine “alternative indie” per descrivervi.

“L’indie è morto” come dicono Le Coliche (ridono). Alla fine quello che ci spinge a fare tutto è la passione per la musica. Abbiamo cominciato a suonare nella saletta del Buridda (un laboratorio sociale occupato e autogestito di Genova, nda), dopo aver scritto 3-4 canzoni abbiamo deciso di fare qualche concerto. Piano piano siamo migliorati insieme, cercando sempre di lanciare un messaggio.

Tornando, infine, su quello che sarà l’album. Avete annunciato che sarà di carattere introspettivo. Come mai?

Negli anni abbiamo iniziato a osservare in maniera più personale ciò che ci succede. Siamo molto amici, ci troviamo a vivere situazioni molto simili. Per farci conoscere, invece che un classico “piacere, sono… ” vorremmo raccontarci attraverso le canzoni e la musica.

Potete sostenere L’ultimodeimieicani partecipando alla campagna MusicRaiser dedicata proprio al loro nuovo album.

Il nuovo singolo “Blu” della band genovese sancisce l’inizio della loro nuova avventura in lingua italiana. Il suono strizza l’occhio all’indie rock.

Copertina Moscow Club - Blu

I Moscow Club vengono da Genova e hanno un suono internazionale, anzi “universale”. Dopo un’esperienza pluriennale a cantare in inglese, seguendo gli schemi degli artisti che li hanno maggiormente influenzati (Editors, Arctic Monkeys, The Kooks e molti altri), il power trio ligure ha deciso di cambiare muta e cantare in italiano. Si chiama “Blu” la nuova canzone della band composta da Gabriele Pallanca, Federico Lobascio e Dario Monaco. Per mantenere la stessa spinta post punk e new wave in questa avventura, si sono affidati alla bravura del produttore Mattia Cominotto presso il Greenfog Studio di Genova.

“Blu” rappresenta il vostro primo singolo in italiano. A cosa è dovuto il passaggio alla vostra lingua madre? Che difficoltà avete avuto nel comporre? 

Il passaggio all’italiano è stato dovuto a Federico, che ha sentito la necessità di far esprimere la band nella propria lingua madre. Ci siamo guardati in faccia, sapendo comunque di aver dato alla luce un EP come “Six Indie City” (2015), che sintetizzava e racchiudeva in sè l’esperienza in inglese, e abbiamo trovato nuovi stimoli A quel punto per noi è stata una scelta importante. Visto che la musica italiana negli ultimi anni ha avuto un maggiore ascolto, sopratutto da parte dei ragazzi, abbiamo pensato che fosse giusto provarci, senza sapere a cosa andavamo incontro. In primo luogo abbiamo provato a rifare i pezzi non incisi, che erano rimasti in saletta, adattandoli in italiano. Non eravamo convinti. Quindi abbiamo deciso di cambiare proprio il metodo di scrittura. Passare dall’inglese all’italiano è come cambiare lavoro, tutti i metodi che avevamo fatto nostri in questi anni non andavano più bene. L’italiano è una lingua molto meno musicale, ti rende più nudo di fronte all’ascoltatore. L’inglese, grazie alle assonanze, ti fa nascondere dietro le sue parole. Siamo ripartiti con una nuova impostazione.

Forse per provarci davvero all’estero bisogna andare fuori dall’Italia. Vivere in prima persona quello che si canta, nella lingua in cui si canta. 

10 anni fa, o di più, la vena indie rock ha scatenato un fenomeno. Se suonavi in una band non potevi fare altro che quella cosa lì, tendente ai The Kooks, agli Arctic Monkeys. Figli degli Oasis e con una nuova ondata brit che veniva da Sheffield, piuttosto che da Brighton, non potevi farne a meno. Per questo l’inglese era la scelta ideale. In più, lo facevi a Genova o in Italia, ma sapevi che non ti saresti trasferito. Lo facevi per passione, ma allo stesso tempo sognavi.

Ma lasciamo l’inglese al passato, anche se l’estero ritorna in altro modo nelle vostre canzoni. Nel nuovo singolo “Blu” è presente esteticamente la tematica orientale. Come è nata l’idea e a cosa è attribuita?

La scelta della tematica orientale è venuta dopo le decisioni del regista del video, Tiziano Colucci, ed è slegata dal testo della canzone. C’è piaciuta così tanto l’idea del regista da farla diventare anche l’estetica della cover, che ha un l’ideogramma di “blu”. Il video, come il testo della canzone, vuole essere di carattere universale, ci sono una ragazza cinese, un ragazzo di colore, che insieme a noi fanno un mix per dare un messaggio universale, che vada oltre all’Italia o a Genova nel nostro caso. Nello specifico la canzone vuole suscitare la mancanza verso una persona, che ognuno può impersonificare a piacimento, perché non parla esplicitamente di un amore, nemmeno di una amicizia.

Quali spiragli ci sono nel mercato per far emergere qualcosa di nuovo?

Ormai tutto passa dal produttore, l’etichetta può contare, ma non basta. Se guardiamo le ultime uscite, le produzioni sono di alto livello. Se vuoi emergere non puoi non farti fare un disco da un produttore bravo, serio e conosciuto, che plasma il suono a favore, anche, del passaggio in radio.

Quindi la radio ha ancora senso in un periodo storico dove gli ascolti vengono spinti tanto sulle piattaforme streaming? 

Si, ha totalmente senso. La radio si ascolta. Nonostante internet e le piattaforme, è ancora una potenza. Per arrivare alle radio importanti devi avere un’etichetta e un ufficio stampa che siano altrettanto una potenza.

Avete citato band come gli Arctic Monkeys e questo apre una finestra interessante. Se dal 2016 è tornata la moda synthpop in Italia (Thegiornalisti, Ex-Otago, ecc.), ho notato che nella nuova ondata di band emergenti vengono spesso fatti riferimenti agli Arctic Monkeys e la proposta si sta spostando proprio su quel tipo di suono, ma in italiano. Avete notato anche voi questa cosa? 

L’ultimo singolo di Calcutta, “Paracetamolo”, ha un riff molto “turneriano” (facendo riferimento ad Alex Turner degli Arctic Monkeys, nda), infatti Calcutta è un discorso a parte, lui può fare quello che vuole. L’itpop si sta dividendo in diverse parti, quella synthpop e quella che strizza l’occhio agli anni ’60/’70 (Calcutta, Giorgio Poi, ecc.). Noi nasciamo come power trio, abbiamo avuto quel tipo di influenze e limitarle agli Arctic Monkeys sarebbe sbagliato. Si potrebbero aggiungere i The Kooks, come già anticipato, i Phoenix, gli Editors, tutta quella parte new wave e post punk che caratterizza parte del nostro suono. Non possiamo anche non citare due mostri sacri come Franco Battiato e Lucio Battisti. I tre cardini di un pezzo dei Moscow Club sono la ritmica in sedicesimi, un basso con il chorus e un arpeggio con riverbero e delay.

Nelle case e in tutte le autoradio d’Italia arrivò un fenomeno che cambio radicalmente diverse generazioni: gli 883, composti da Max Pezzali e Mauro Repetto.

MusicAmarcord: la figura mitologica degli 883

Nel mondo non li conosceranno in molti, ma un’icona amarcord italiana degli anni ’90 sono stati, senza dubbio, gli 883. “Sei un mito” cantava Max Pezzali, accompagnato dall’esuberante Mauro Repetto. Erano loro il vero mito.

Cosa si cela dietro il grande successo degli 883? Sicuramente una delle tante formule magiche è stata la figura da direttore artistico di Claudio Cecchetto, il “Re Mida” della musica/radio in Italia. Inoltre, gli arrangiamenti erano ad hoc per l’epoca: simil disco dance, ma molto pop, dal ritornello super accattivante. Queste sono le caratteristiche vincenti che vengono attribuite, da sempre, agli 883.

Ma la loro vera forza sono stati i testi. Per rendere una canzone universale è necessario che tutti gli ascoltatori, dai più simili ai più opposti, condividano lo stesso pensiero. Così è stato, magicamente. Gli 883 parlavano di te, non come ne parlerebbe un conoscente, ne come lo farebbe il tuo migliore amico. Parlavano di te come se fossi allo specchio. E sapevano cosa ti dava gioia, cosa ti dava tristezza, quali fossero quelle angherie della vita che ti ostacolavano tutti i giorni. Il tutto in maniera intergenerazionale. Fenomeni veri. Amarcord lo sono diventati quando ancora erano insieme e continuano ad esserlo oggi ogni volta in cui Max Pezzali e Mauro Repetto fanno un passo per strada.

Se poi si pensa a quanto, oggi, vengano definiti “fenomeni” artisti che nemmeno parlano di noi, ma della loro vita assurda, distante dalla quotidianità, la nostalgia cresce esponenzialmente. È stato un grande mix: il giusto periodo storico, le direttive artistiche di un visionario esperto, gli arrangiamenti moderni (all’epoca) e i testi che toccavano nel dettaglio le peripezie della nostra vita. Forse, tra vent’anni, parleremo di altri artisti, forse, quelle che saranno le nuovissime generazioni, vivranno la “quotidiana guerra con la razionalità” senza sapere chi la cantava. Ma oggi l’amarcord in Italia sono gli 883. E lo saranno ancora per molto.

 

Il continuo ritorno dei sintetizzatori è portato avanti, questa volta, da una band scozzese.

Si chiamano Chvrches, vengono dalla Scozia e hanno fatto un album synthpop, Love Is Dead, degno di nota. Avete visto Stranger Things e siete nuovamente ossessionati dagli anni ’80? Bene, loro sono proprio quello che stavate cercando, con suoni e arrangiamenti moderni.

La band, guidata da Lauren Mayberry, è al suo primo lavoro non autoprodotto, ha iniziato a lavorare a questo disco a febbraio 2017, a Los Angeles, con produttori di fama mondiale: tra i tanti ci sono Greg Kurstin (Adele, Sia, Noel Gallagher) Steve Mac (Demi Lovato, Shakira).

Quando un album ha avuto un lavoro importante alle spalle lo si sente dalla prima traccia, non a caso “Graffiti”, che apre il disco, fa capire subito di che pasta è fatto Love is Dead. Suoni definiti, nitidi, elettronica in primo piano, che lascia anche molto spazio alla voce. La potenza armonica e sonora dei sintetizzatori è sfruttata a pieno. Anche la parte ritmica sfrutta sample e trigger. A volte nasce la curiosità di sentire come sarebbero state alcune tracce con suoni di batteria meno compressi e reali, ma probabilmente sarebbero stati fuori contesto.

Ciò che è stato ripetuto più volte in questa rubrica è che un album è valido quando viene voglia di ascoltarlo più e più volte. I Chvrches sono riusciti in questo intento. Se per loro “Love Is Dead”, ascoltando questo disco l’unico amore che sembra non essere deceduto è quello per la musica.

Da anni il ritmo dell’estate è inserito nella categoria “Reggaeton”, anche se non è sempre così. In molti dicono di detestare il genere, altri lo adorano.

Ha senso odiare il reggaeton?
Photo by Levi Guzman on Unsplash

Il reggaeton è sulla bocca di tutti. “Odi et amo” direbbe un odierno Catullo. Un genere che rappresenta il vento estivo, tanto quanto fece il Festivalbar in Italia negli anni duemila. “Despacito” è diventato un fenomeno mondiale, la bandiera pop di un movimento, sinonimo di questo odio e amore. Mentre migliaia di persone continuano a ballare questo ritmo, altri sembrano non apprezzarlo. Ad esempio, non è raro aver sentito dire da qualche dj, con tono altezzoso: “Questa non la suono”.

Dietro a parole del genere ci sono diverse motivazioni che possono essere analizzate. Intanto il reggaeton è uno dei ritmi latini divenuti celebri a livello mondiale come un’influenza all’interno della musica pop. Ma quello che oggi noi chiamiamo “Reggaeton” è soltato un’appendice di quello nato a Porto Rico alla fine degli anni ’80. Lo scopo di questo genere è essere suonato nella dancehall, la pista da ballo. Si basa su un gioco sincopato che dà un ritmo assolutamente riconoscibile. Una delle motivazioni che spinge le persone ad “odiare” il reggaeton è che è mainstream: la popolarità di questo genere l’ha reso, a tratti, scontato. È “troppo normale” aspettarsi oggi una hit reggaeton, quindi l’ascoltatore medio si lamenta. Quando, invece, Daddy Yankee faceva uscire “Gasolina” nel 2004, il popolo europeo accolse come una novità questo movimento. E a pensarci bene il suono è cambiato molto da allora.

Parlando sempre di pop music, se Daddy Yankee ha iniziato a diffondere il verbo, Pitbull ha continuato sulla stessa strada, “I Know you want me” in primis. Ma c’è una grossa differenza tra il linguaggio musicale di Daddy Yankee (più tradizionalista) e quello di Pitbull (più pop), sintomo del fatto che le influenze latine stavano creando qualcosa di nuovo e distante dalle radici del genere.

Nascono così i sottogeneri, come il Moombathon ad esempio, che si vanno a fondere con le tendenze del momento. Oggi di hit “Reggaeton” ce ne sono molte, ma gli artisti che lo suonano nella maniera classica sono pochi. Altre motivazioni di chi non apprezza il genere sono i contenuti frivoli dei testi e la strumentalizzazione del corpo della donna. Quando si sentono affermazioni del genere bisogna ricordarsi che la moda del momento è la trap, dove i contenuti non sono sicuramente la parte principale e le ragazze vengono spesso chiamate “bitch”. Va ricordato che, a monte, la danza nata insieme al reggaeton è estremamente sensuale e richiede che ci sia un contatto continuo dei corpi di chi lo balla. Da questa tradizione nasce ciò che ora si chiama “twerking”, mossa femminile che, unita alle movenze del ballerino reggaeton, può ricordare la mimica di un rapporto sessuale. Quindi, non si può parlare realmente di strumentalizzazione del corpo, se la tradizione vuole proprio che il corpo sia alla base di questo movimento.

Ma il vero punto della questione è: “Ha senso odiare un genere musicale?“. No, può non piacere, ma perché odiare una forma d’arte? Per andare controcorrente? Non ha molto senso. Inoltre, è vero che l’eccessivo uso della stessa forma ritmica ha reso il tutto un po’ scontato, però è proprio quel tipo di ritmo che ha un effetto benefico sul nostro corpo, tanto da farci ballare. Quando una canzone ha il potere di farti suscitare qualcosa ha vinto, che sia popolare o meno poco importa, che parli di cuori infranti o di serate sensuali a condividere la stessa coperta ancor meno. Quindi, se il dj metterà il reggaeton, la pista ballerà sicuramente e, se non vorrà metterlo, dovrà cercare qualcosa che ci faccia ballare di più. Stiamo sempre parlando di dancehall in fin dei conti.

Di nuovi e veri cantautori non se ne vedono spesso. Luca Tudisca, con il nuovo singolo “Quando ti manca qualcosa”, fa ben sperare in merito.

Luca Tudisca: "Vado dove mi porta la musica" | Musica361

Luca Tudisca è un cantautore italiano che ha deciso di fare un percorso diverso dai suoi colleghi. C’è sicuramente chi lo ricorderà per Amici di Maria De Filippi, ma la sua vera carriera è iniziata realmente dopo il programma televisivo e lontano dai riflettori del pop. Quindi, citare Amici in realtà è sbagliato, perché sarebbe come attribuirgli quella classica etichetta, tanto da snaturarlo. Proprio così, perché mentre i suoi colleghi hanno cercato di cogliere il frutto della popolarità, Luca ha invece investito a piccoli passi sulla propria creatività, anche a costo di sbagliare, di perdere il treno giusto. Fino a quando qualcuno (e qualcosa) non gli ha dato la conferma che la musica fosse davvero il suo mestiere.

Partendo dal singolo “Quando ti manca qualcosa”, cosa ti è mancato per scrivere questa canzone? È autobiografica?

C’è stato un periodo in cui ho avuto il bisogno di fermarmi un attimo per capire cosa avessi perso e cosa avrei potuto avere. Cerchiamo sempre qualcosa di diverso, senza soffermarci su ciò che abbiamo già.

Questo brano vuole essere l’indizio di un disco oppure è semplicemente un singolo?

“Quando ti manca qualcosa” anticipa un disco che inizieremo a registrare intorno ad ottobre. Nel nuovo album mi piacerebbe sperimentare molto in studio, anche suonare live e vedere cosa esce. Non voglio pormi limiti o paletti, non ci sarà un filo conduttore. Ci renderemo conto di cosa succederà mentre lo faremo. In studio parti con un’idea, poi magari tutto cambia. Appena verrà definito qualcosa di più, si capiranno meglio le tempistiche di uscita e di promozione. Potrebbe uscire nel 2019.

Quando si parla di autunno e di “anno prossimo” si apre lo specchio del Festival di Sanremo? Sei interessato a partecipare?

Assolutamente. È un obiettivo. A chi non piacerebbe fare il Festival.

“Hai partecipato ad Amici nel 2014”: quando i giornalisti iniziano una domanda con una frase del genere senti un’etichetta addosso? 

Amici un’etichetta te la lascia. Quando mi hanno fatto questa domanda in alcuni concorsi a cui ho partecipato ho sempre risposto che io mi sono sempre comportato nello stesso modo in qualsiasi contesto. Scrivo canzoni e le canto, come cantavo lì le canto da altre parti.

A proposito di questo, chi segue il tuo percorso dovrebbe sapere che dal 2016 ad oggi sei stato vincitore di Musicultura, del premio Nuovo Imaie, finalista al Premio Bindi. La ciliegina sulla torta è stato aprire il concerto Niccolò Fabi. Senti adesso che il tuo percorso da cantautore ha davvero preso forma?

Adesso si. Adesso so cosa voglio fare, la direzione da seguire. In realtà mi sento molto più maturo adesso di quando ho fatto il programma. Sono più a fuoco. Vado dove mi porta la musica.

Tu hai preso una strada complessa, il cantautorato. Rispetto ai tuoi colleghi che hanno scelto il pop è una scelta ben diversa. C’è da sfatare il mito dell’artista che ha tutto facile perché viene visto in televisione. Quando si spengono le telecamere è dura allo stesso modo degli altri o è tutto più facile?

Non è facile, assolutamente. Anzi, in contesti come Musicultura (che Luca citerà spesso durante l’intervista come un passaggio fondamentale per la sua carriera, nda) dopo aver partecipato ad Amici, puoi sentirti dire: “Ma questo cosa è venuto a fare?”. A volte si tende ad etichettare senza conoscere davvero. Ti rimane un’etichetta, anche se c’è un percorso diverso dietro. Per esempio, di recente ho girato i teatri con uno spettacolo che si chiama “Dialogo”, dove ci sono le mie canzoni con due attori in scena. Da settembre inizieremo nuovamente. Ho tanti progetti in ballo, sto cercando di realizzarli tutti.

Hai intrapreso una nuova strada con Platonica e con Zibba alle produzioni. Come pensi sarà il futuro al fronte di questa scelta? 

Ho trovato (in Zibba, nda) una persona che mi può dare una grande mano. Ci siamo conosciuti durante Musicultura. Ci stimiamo a vicenda e abbiamo deciso di lavorare insieme. Quando due persone viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda è più facile lavorare.

In quale momento hai capito di poter vivere di musica?

In realtà ci sono state varie fasi. Ad esempio, c’è stato un periodo in cui non riuscivo proprio a suonare e mi sono preoccupato. Ciò che mi ha fatto capire che questo è il mio mestiere è stato Musicultura. La mia ex ragazza mi iscrisse senza che io sapessi nulla. Oggi credo in quello che faccio, sono più sicuro. Ogni tanto ne parlo con il mio coinquilino, che è un cantautore. La nostra è una condanna, adesso non puoi più tornare indietro, perché è talmente bello quello che fai, vivere di musica, che non mi immaginerei da nessun’altra parte se non a scrivere e a suonare.

Oggi le chiamano “playlist”, ma le compilation avevano tutto un altro senso, erano raccolte fatte per durare nei decenni, fino a diventare amarcord.

MusicAmarcord: il valore scomparso delle compilation

Ti ricordi cosa significava dire qualcosa attraverso una raccolta di canzoni? L’imbarazzo di consegnare un CD o una cassetta con le nostre tracce preferite? Imbarazzo, sì, perché la musica racconta i tratti della nostra complessa personalità. Anche quando non vuoi. La compilation era un regalo sentito e intimo.

Ricordi quando si organizzava un lungo viaggio, qualcuno si occupava di raccogliere le canzoni per tutti e tirava fuori una di quelle raccolte con il nome scritto a pennarello? “Capodanno 2009”, ad esempio. Dischi che ritrovavi in macchina per caso anni dopo, persi tra un raccogli CD a forma di elefante e il libretto d’immatricolazione. Bastava la traccia uno ed era subito quel capodanno.

Ricordi, invece, quando c’era il Festivalbar, sinonimo dell’estate in arrivo? Sapevi già che tutte le canzoni di quell’anno le avresti trovate nella compilation. E la pubblicità l’avrebbe ricordato in rotazione. Anche se, a dirla tutta, quando si parlava di compilation e pubblicità non poteva non venire in mente “Hit Mania Dance”.

Oggi le compilation sono diventate playlist, ma sappiamo bene che non è la stessa cosa. Una playlist, per avere senso, deve essere mirata, targettizzata. Non contiene le bonus track impreviste. Una playlist la puoi linkare, la puoi inviare alla mail di qualcuno, non la lascerai mai nella vera cassetta della posta. Una playlist è una raccolta. Una compilation aveva un valore nascosto. Quando la musica non era così facilmente accessibile, avere un CD, o una cassetta, che contenesse la maggior parte delle canzoni del momento (o le proprie preferite) era un piacere difficile da descrivere. C’era una ricerca dietro. Quando la trovavi ti sentivi completo, almeno per quelle ore spese a consumarla. Persino la canzone da skippare aveva un senso, tranne per quell’amica che le skippava tutte ogni 30 secondi. Quindi, anche se è obsoleto, anche se è totalmente amarcord, ogni tanto ascolta ancora quella compilation nascosta nella tua auto. Toglile la polvere e non imbarazzarti. Perché lì dentro, tra una traccia e l’altra, ci sarà un breve momento di silenzio, occupato dai ricordi.

È uscito, a fine aprile, “In Bolla”, il primo disco ufficiale di Sonny Willa.

Sonny Willa, è un rapper ligure che ha riportato la tecnica e gli incastri nel suo nuovo disco “In bolla”, uscito per Platonica, etichetta diretta artisticamente da Zibba. Cercare di restare sulla cresta dell’onda, portandosi dietro un background da freestyler, non è facile, oggi che la trap ha standardizzato molto lo stile, ma Sonny, con i suoi testi sul filo tra ironia e cinismo, ha voluto dare un’interpretazione originale e diversa della realtà che ci circonda.

“In bolla” può essere definito un disco rap in un periodo trap?

Sono cresciuto con la wave rap e l’ho seguita, c’è anche la trap in questo disco. Ho i miei coinquilini di Milano che sono i più forti d’Italia a fare la trap, quindi ho preso ispirazione anche da loro. Sono cresciuto con il rap e il rock nelle orecchie. Faccio rap, ma ascolto di tutto, questo mi ha permesso di aprire la mente sui testi.

C’è anche molta ironia nell’album, un frangente che in Italia non è stato davvero approfondito nell’hip hop.

Il disco ha una linea fantozziana e tragicomica, fino ad espandere i problemi al punto da farli diventare ironici.

Pensi che sia davvero “in bolla” il tuo ultimo lavoro?

È la prima volta che un progetto mi viene così “in bolla”. Diciamo che è il mio vero primo progetto ufficiale. È come una prima volta.

Si può dire che questo è, a tutti gli effetti, un disco improntato per il live?

Bravo, te ne sei accorto, non se n’era ancora accorto nessuno. Il progetto si basa molto sul live e lo potremo portare ovunque, dalla strada ai festival. È un’occasione per stare in mezzo alle persone e dire al prossimo di essere felici nonostante i problemi della vita.

Quale traccia consiglieresti di ascoltare?

Ne ho tre da consigliare. A livello tecnico “Ronaldinho” è la più potente di tutte. “Frank” è il pezzo a cui sono più affezionato. La terza è “Nuvole”, che è una parte conscious e trap del disco, dove spiego di quando sono stato in carcere a Londra e ho avuto un paio di peripezie.

Come ti trovi a far parte del nuovo progetto di Platonica e con Zibba da produttore?

È una scommessa che stiamo facendo tutti quanti e che sta andando alla grande. Mi aspettavo un decimo dell’hype che gira intorno alla cosa. Tutto è ancora da vedere, siamo agli inizi della promozione, quindi vedremo come evolverà. C’è un grande team dietro a tutto questo. Con Zibba è stato il lavoro più veloce che abbia mai fatto. Siamo entrati in studio senza una canzone, dopo un quarto d’ora ne avevamo una. È un produttore rapido a costruire canzoni.

Abbiamo iniziato l’intervista accostadoti al rap. Il tuo disco è ricco di incastri e riporta molto alla tecnica. Pensi che in questo momento di evoluzione musicale e di ritorno al passato possa tornare anche l’old school rap?

Spero di no e sarà difficile. Credo che ci saranno altre evoluzioni di questo genere. L’ascoltatore medio oggi è adolescente. Loro non conoscono davvero la potenza del vecchio rap. Ciò che va in tendenza a volte non è sempre valido. Quindi è molto difficile ipotizzare un cambiamento verso la “old”. Anzi, il rischio è che peggiori la qualità. Il messaggio e i contenuti non vengono sempre recepiti dalle persone più acerbe.

Il Compact Disc è stato l’emblema della digitalizzazione della musica. Sebbene oggi sia un supporto ancora utilizzato, è impossibile non vedere il suo declino.

MusicAmarcord: il CD, la digitalizzazione e il suo reale declino

Il CD è stata una delle rivoluzioni tecnologiche che ha maggiormente inciso sulla storia e sul mercato della musica. Prima di questo, la musica si divideva in vinili e musicassette, il segnale era considerato analogico. Acronimo di Compact Disc, il CD è un disco in policarbonato trasparente, che contiene al suo interno un foglio sottile in alluminio. Nel momento in cui viene scritto, l’alluminio viene inciso con i dati dei brani convertiti in pits and lands (buchi e terre), i quali possono essere letti unicamente dalla tecnologia ottica dei lettori CD.

Il CD è stata la bandiera della musica digitale, del campionamento del suono. In parole semplici, un suono analogico, per essere registrato e riprodotto digitalmente, deve essere diviso in migliaia o milioni di piccolissime moli di dati, che possiamo idealizzare come dei puntini. Unendo tutti i puntini si ri-produce digitalmente un segnale suonato analogicamente. Questo ha cambiato tutto. Se il CD fosse stato un politico dei giorni nostri, le sue promesse elettoriali sarebbero state: mantenere almeno la stessa qualità del vinile, se non migliorarla; aumentare la portabilità e diminuire le dimensioni; avere una maggior capienza dei floppy disk. Tutto vero, non a caso l’industria si è completamente diretta sul CD, facendo scomparire dalla faccia della terra tanti giradischi. Inizia ad essere possibile riversare i brani sui propri personal computer e nasce la consapevolezza di poter avere una traccia liquida, singola, manipolabile. Concezione che porterà ai fenomeni dell’iPod, dei lettori mp3 e di eMule (con le relative conseguenze). Tutto il mercato ha dovuto adeguarsi al cambiamento (copertine, booklet, negozi di dischi, etc.).

Ma ad oggi, la terra bruciata che ha lasciato la pirateria, e la nuova natura in crescita data dallo streaming, hanno ridotto all’osso la vendita di un supporto che ormai è inutile. Il vinile si è preso la rivincita che gli spettava, è tornato ad essere un oggetto da collezione, una bandiera della musica ricercata. Non ce ne siamo ancora accorti, ma si sta esaurendo il senso del CD nella linea temporale della storia della musica. Ha dato tanto, ha cambiato il mondo, ma deve lasciare il posto al futuro.

Top