Affermato giornalista, caporedattore di AllMusic Italia, direttore artistico di Radio A8 e critico musicale, l’instancabile Simone Zani ha da poco pubblicato “La festa di Don Martello”, primo romanzo scritto con lo sguardo di chi ama raccontare e raccontarsi. E noi di Musica361 ve lo raccontiamo.
Come è nata la voglia di pubblicare un romanzo?
«Dal desiderio di confrontarmi con un linguaggio diverso, quello della letteratura. Nel 2015, durante una vacanza, avevo iniziato ad abbozzare uno storyboard, che poi ho abbandonato tornando al lavoro. Durante il lockdown 2020, con più tempo libero a disposizione, ho ripreso in mano il progetto. Nonostante anche qualche difficoltà – ho perso e riscritto alcuni capitoli durante la stesura – sono riuscito a terminare la storia con lo spirito giusto».
Come ti ha ispirato Bregano, il tuo paese natale?
«Ci ho vissuto per quasi 30 anni. Un paese di meno di 700 anime. Ho conosciuto le criticità della vita di paese, l’essere sempre sotto la lente di ingrandimento, soprattutto quando “non sei omologato”. Non è facile nella mentalità di paese accettare che un ragazzino preferisca passare tempo a leggere, ascoltare un disco o assistere ad un concerto, anziché giocare ad una partitella di calcio. Non c’è volontà denigratoria, semplicemente la voglia di raccontare esperienze di un luogo dove sembra che le piccole cose abbiano un’importanza totale. Quando sei ragazzino ne soffri, poi gli anni passano e cambi vita appena ne hai la possibilità. Lettori di paesi di tutta Italia hanno riscontrato le medesime sensazioni che ho avuto io. Tutto il mondo è paese nel vero senso della parola».
Don Martello è esistito?
«No. Don Martello compare solo alla fine e per tutto il romanzo la storia si costruisce sul pettegolezzo. Si tratta di uno spunto per poter descrivere il paese. Al centro del romanzo c’è il pettegolezzo stesso».
Da giornalista e solitamente da intervistatore, che effetto fa al contrario sentir parlare di sé?
«Il mio mestiere è dare visibilità all’arte altrui stando un passo indietro. Francamente trovo piacevolmente inaspettato e quasi imbarazzante tutto questo affetto. Non sono una persona che si ferma a guardare quello che è stato, mi piace sempre pensare che il traguardo migliore sia il prossimo. Senza retorica, è il mio modo di concepire la vita e il lavoro».
Come ricordi la prima intervista realizzata?
«Male! Non fu una bella esperienza. L’intervistato concluse dicendomi di non pensare alla musica ma di dedicarmi ad altro…Poi fortunatamente arrivò la prima intervista musicale, telefonica, a Gatto Panceri e la prima in presenza ad Al Bano. Il mio primo festival di Sanremo fu l’anno dopo, nel 1999. Il 99,9% delle interviste della mia carriera mi hanno dato qualcosa. Nel tempo si è creato un solido rapporto con gli artisti, oltre la relazione intervistatore-intervistato. Mi sono conquistato la loro fiducia e stima».
Pur non avendo pregiudizi nei confronti dei generi musicali per mestiere, quali sono quelli che ami?
«Il pop italiano. Quella che una volta veniva considerata prettamente “la musica di Sanremo”. I miei ascolti si orientano sempre ad artisti in qualche modo legati a quel mondo. In particolare però ho una passione per un cantautore anch’esso passato da Sanremo ma più rappresentante del folk, Davide Van De Sfroos. Mi piace come racconta la vita. Avevo le lacrime agli occhi dalla prima all’ultima canzone quando ha suonato a San Siro».
Tu ti occupi anche di sport: cosa significa realizzare un’intervista sportiva e una musicale?
«L’intervista sportiva, soprattutto se realizzata al termine di un evento, deve cogliere istantaneamente l’aspetto più emotivo. Quella musicale ti dà invece la possibilità di approfondire, soprattutto se si tratta della presentazione di un disco, un brano o di una carriera».
Il libro si apre con una citazione dei Ricchi e Poveri e non è la sola. In filigrana al romanzo c’è sempre la musica?
«La citazione dei Ricchi e Poveri non è casuale perché Bregano è effettivamente un paese che sta sulla collina. In più il romanzo è ambientato nel 1985, anno in cui i Ricchi e Poveri vinsero Sanremo. La musica non è una colonna sonora o un filo conduttore, ma sì, se vuoi, una filigrana. Se ne parla spesso. Nel finale cito anche una canzone di Al Bano e Romina, ascoltata alla radio da Don Martello. E anche una canzone di Memo Remigi – oggi residente a Varese – portata al successo da Iva Zanicchi, La notte dell’addio».
Questo romanzo rimane un episodio isolato o hai in programma altri lavori?
«Due settimane dopo aver concordato la pubblicazione di Don Martello mi è arrivata la proposta di un’altra casa editrice. Così ho pensato di terminare la bozza di un altro spunto, già a buon punto. Durante il secondo lockdown ho approfondito la vicenda di uno dei personaggi del primo romanzo. Una sorta di spin-off. Però se ne riparlerà tra qualche tempo».
Scrittura, musica e poesia: come le ordini nella tua vita?
«La musica è la mia vita. E la possibilità poter portare ogni giorno il mio punto di vista sul panorama musicale mi rende orgoglioso. La poesia è stata un approccio. Quando nasci e vivi in un paese come Bregano cerchi una valvola di sfogo e l’ho trovata nello scrivere in versi la quotidianità. La scrittura in prosa invece è una passione recente, vedremo».
A quale evento tra tutti quelli vissuti sei più legato nella tua carriera?
«Sanremo. Sono fan e spettatore del festival da una vita. La prima volta avevo 17 anni, era il 1999. Ricordo quando sono entrato per la prima volta all’Ariston come inviato. Un’emozione che non so descrivere, per quanto bella. Nonostante abbia seguito come inviato 22 edizioni, per me Sanremo è sempre affascinante come la prima volta. La realizzazione di un sogno da bambino».
Cosa ne pensi di questa edizione, appena conclusa?
«Coraggiosa. Non è stato facile per Amadeus e Fiorello procedere tra infinite difficoltà e polemiche. Compresa l’assenza del pubblico. I Måneskin? Hanno alle spalle un certo percorso musicale, sono giovani e hanno potenzialmente un futuro. Personalmente avrei scelto Colapesce e Dimartino, ma se avesse vinto anche Ermal Meta sarebbe stato lo stesso. Francamente negli anni ho perso la smania di tifare. L’importante è fare una bella figura al festival e credimi non è scontato. In fondo la vera vittoria è sempre dopo, nel cuore delle persone».