Chiuderà la prossima settimana, dopo 18 anni di attività, la Salumeria della Musica, storico locale milanese di via Pasinetti gestito da Massimo Genchi Pilloli. E poi?

Locali361: l’ultimo assaggio de La Salumeria della Musica

Quel post pubblicato da Massimo Genchi su facebook la scorsa estate 2017, che inizialmente aveva stupito molti, pare purtroppo invece avere inequivocabile conferma dato che la programmazione de La Salumeria della Musica non è stata aggiornata dopo fine aprile. Sembra proprio che lo storico locale di via Pacinotti sia tristemente destinato a entrare nel novero di quei locali milanesi che come il Rainbow, La Casa 139, il Rolling Stone e Le Scimmie hanno chiuso i battenti negli ultimi 15 anni.

Il locale di Genchi è stato protagonista della riqualificazione della zona Ripamonti, quartiere caratterizzato da ex capannoni industriali, cortili e aree dismesse che hanno conosciuto dai primi anni del 2000 una nuova vita dal punto di vista artistico. In uno di quei capannoni, oggi l’attuale Salumeria della Musica, aveva sede una fabbrica di catene d’oro, i cui resti sono ancora evidenti nell’architettura odierna, scheletro dell’originale struttura ripresa anche nel logo del locale. E laddove si ascoltava prevalentemente rumore di presse, a partire dal 31 dicembre 1999, col primo concerto di Nicola Arigliano, ebbe inizio un’era di 18 anni di musica d’autore accompagnata da vini e salumi di qualità. Chi non ha mai messo piede nella Salumeria o non ne avrà più occasione deve immaginare un ambiente con un palco sul quale si esibiscono band dal vivo e un bancone con un “salumiere” che affetta per il pubblico ottime mortadelle, salami, coppe, prosciutti, accompagnati a formaggi, vini della fornita enoteca e altre specialità regionali.

Curioso considerare che, con la fondazione della Salumeria, tornò ad avere un nuovo fermento musicale quella zona milanese dove tra il 1958 e 1975, precisamente al civico 11 di via Barletta, si trovavano i mitici studi Fonorama di Carlo Alberto Rossi nei quali furono registrati alcuni dei più leggendari album della storia del pop-rock italiano e singoli di Mina, Lucio Battisti e la PFM.

La Salumeria è (stato) un locale piuttosto singolare, o comunque si può dire che abbia fatto scuola, grazie all’anima del suo gestore, Massimo Genchi Pilloli (50), da sempre amante di quei concerti jazz allestiti in posti angusti e fumosi ma dall’aria familiare. Per questo si può dire che il nome del locale magari “non suoni bene” ma sicuramente lo si ricorda proprio perché rispecchia chiaramente gli elementi che lo caratterizzano, quello musicale e quello casereccio. In quell’atmosfera hanno avuto luogo circa 4000 concerti, principalmente jazz da Pat Metheny, primo gran nome nel maggio 2000 al battesimo italiano di Norah Jones ma col tempo anche rock, funky, pop, soul e musica d’autore: da Joss Stone a Keith Emerson passando per Stefano Bollani, Gianna Nannini, Laura Pausini, Samuele Bersani, Gino Paoli, Fabrizio Bosso, ospitando pure Rock Files la trasmissione radiofonica di Ezio Guaitamacchi su LifeGate Radio e persino Enzo Jannacci e Diego Abatantuono, che creò nel 2002 una compagnia stabile di comici poi diventati protagonisti delle prime puntate televisive di Colorado Cafè. Un locale dunque apparentemente informale ma allo stesso tempo qualificato, nel quale poteva anche capitare di trovarsi accanto a personaggi del mondo musicale italiano come Fernanda Pivano od Ornella Vanoni.

Locali361: l’ultimo assaggio de La Salumeria della Musica 1
Enzo Jannacci sul palco de La Salumeria della Musica

A decretare la fine della Salumeria nessuno screzio con i proprietari e nessuna crisi ma solo stanchezza nel constatare quanto un genere come il jazz, che purtroppo fatica sempre più ad evolversi e imporsi, abbia inevitabilmente portato a modificare il palinsesto dovendo introdurre ben altri generi che sempre meno hanno incontrato i gusti di Massimo. La Salumeria, contro ogni logica modaiola, è nata come spazio per ascoltare jazz e musica di qualità almeno 5 sere a settimana, promessa sempre più tradita da necessità di mercato, come Massimo aveva sottolineato anche in un’intervista qualche mese fa: «Sono costretto a mettere in programmazione serate più lontane dal mio gusto, come i tributi a grandi del passato. Qui il pubblico viene, ma dieci anni fa non l’avrei mai fatto, preferendo di gran lunga un concerto di Renato Sellani. Anche per me c’è un limite a tutto» (da La Repubblica del 16/11/2017).

Prevista dunque la prossima settimana l’ultima data, sabato 28 aprile, con il concerto della Tom’s Family, repertorio di cover prevalentemente funk e soul di Stevie Wonder, Ray Charles, James Brown, Al Jarreau, Aretha Franklin, Otis Redding e Marvin Gaye, con incursioni nei repertori dei Brecker Brothers e di Maceo Parker. Con quei brani la Salumeria saluterà Milano. E così non solo verrà a mancare un altro importante riferimento in città dove poter suonare rispetto al numero di musicisti professionisti che elemosinano palchi per potersi esibire ma con la perdita della Salumeria, entrata a pieno titolo nella classifica delle 195 Great Jazz Venues mondiali stilata dalla storica rivista musicale Downbeat, tramonta un’altra epoca. Quando aprì in quel dicembre 1999, a solo un mese dalla chiusura del Capolinea, leggendario jazz club in zona Naviglio Grande nato nel 1968, la Salumeria venne subito accolta come una sorta di passaggio di testimone. La prossima settimana invece, a fronte del fatto che nuovamente si estingua un altro pezzo di storia milanese, purtroppo non si hanno ancora notizie di un eventuale subentro nello spazio di via Pasinetti.

Torna dal prossimo 18 giugno al 28 luglio nell’area esterna de Le Gru in provincia di Torino una delle manifestazioni musicali di punta del panorama estivo. Ecco le anticipazioni.

GruVillage 105 Music Festival, 13° edizione

Nato nel 2006 come serie di serate animate da dj e ospiti per intrattenere residenti e avventori del torinese nel mese di agosto, dal 2007 il progetto Gru Village si è sviluppato al punto da realizzare un vero e proprio cartellone di concerti e spettacoli con nomi di richiamo per dedicarsi infine esclusivamente alla musica live, divenendo così uno dei festival di punta nel panorama estivo italiano. In questi anni hanno calcato il palco del Gru Village Simple Minds, Dream Theater, Jack Savoretti e Ian Anderson insieme ad artisti italiani come Litfiba, Elio e le Storie Tese, Fabio Concato, Mario Biondi, Pino Daniele, Francesco Renga, Francesco Gabbani, Enrico Ruggeri, Le Vibrazioni ma anche jazzisti da Gigi Cifarelli e Tullio De Piscopo a George Benson, Pat Metheny, Chick Corea, solo per citarne alcuni. E anche per l’estate 2018 pare confermata una programmazione di grande qualità per soddisfare un pubblico sempre più trasversale.

Ad aprire questa edizione nella consueta location immersa nel verde sarà il 21 giugno una delle migliori band italiane di sempre, la PFM, per proseguire con le atmosfere gospel dei Sunshine Gospel Choir e gli aggressivi ritmi rap di Gué Pequeno, diventato con il suo ultimo album Gentleman l’artista italiano più ascoltato su Spotify nel 2017. Serata evento il 12 luglio con la Filarmonica Jazz band e il featuring di Ginger Brew, mentre attesissima il 17 luglio la tappa del tour di Francesco De Gregori che regalerà classici e canzoni meno note, mai passate in radio o raramente eseguite. Da un cantautore della tradizione a Bob Sinclair, dj francese che farà scatenare l’arena sulle note delle hit che lo hanno consacrato uno dei maggiori interpreti della dance mondiale e poi una band britannica ska di culto, i Madness. Il 23 luglio uno dei due vincitori dell’ultimo festival di Sanremo, Fabrizio Moro, che interpreterà l’immancabile Non mi avete fatto niente insieme ai successi di 22 anni di carriera e comparirà anche l’idolo dei giovanissimi, Riki, con le sue hit, da Perdo le parole all’ultimo singolo Sbagliato. Per il secondo anno consecutivo poi il Festival si concluderà il 28 luglio con un grande evento gratuito, La notte della taranta con più di 30 musicisti e ballerini guidati dalle voci di Antonio Amato e Antonio Castrignano, apprezzati custodi della musica popolare salentina.

Da sempre il GruVillage stringe collaborazioni con brand che possano arricchire la manifestazione grazie a uno scambio reciproco di competenze e servizi: partner privilegiato di quest’anno sarà Radio 105, nell’ottica di un progetto pluriennale che coinvolgerà anche altre emittenti del Gruppo RadioMediaset per dare visibilità al Festival attraverso i canali radio, i siti e i principali social network. Gli ascoltatori di Radio 105 potranno vivere l’evento attraverso i collegamenti con gli studi di Milano, mentre i più fortunati potranno assistere ai live non solo accedendo all’Arena da un ingresso a loro dedicato grazie ai biglietti messi in palio in anteprima dall’emittente lo scorso 9 aprile ma in occasione dei concerti saranno presenti talent di Radio 105 che raccoglieranno, fino a pochi minuti prima dell’inizio dello show, le emozioni degli artisti nel salotto allestito nel backstage. «Ringrazio Le Gru per avere scelto il Gruppo RadioMediaset per questa partnership», ha dichiarato L’Amministratore Delegato di RadioMediaset Paolo Salvaderi, «con questo importante tassello prosegue il nostro progetto di attestarci come promotori attivi di eventi e presidiare con i marchi delle nostre emittenti i luoghi dove si fa musica dal vivo e il Piemonte e Torino sono per noi un territorio fondamentale». Il Presidente del Consorzio Esercenti di Le Gru Renato De Carli aggiunge: «Avere l’opportunità di presentare una line-up così altisonante con un partner come Radio 105 arricchisce ulteriormente il lavoro fatto fino ad oggi grazie al supporto di una radio così trasversale e cosmopolita: questo è solo un primo passo verso una collaborazione che non si fermerà all’esperienza estiva».

Il GruVillage è un festival totalmente prodotto, gestito e finanziato dal Consorzio Esercenti Le Gru che investe in questa manifestazione capace di veicolare contenuti creativi e promuovere il territorio: il biglietto del festival potrà essere utilizzato anche dopo gli spettacoli perché permette di accedere a sconti legati alle visite cittadine, ai musei e ai trasporti per raggiungere e tornare dal GruVillage, sia per i torinesi sia per i “turisti della musica”, che possono approfittare anche di pacchetti turistici creati appositamente da Booking Piemonte.

Locali361 vi presenta un locale milanese di recente apertura che, come il Moulinski, ambisce a diventare un altro dei nuovi riferimenti culturali in città: Valentina Ferrario ci racconta il suo Let’s Feel Good

Locali361: Let’s Feel Good, showroom culturale

Valentina Ferrario, laurea in comunicazione e due master in giornalismo e marketing, dopo 18 anni tra televisione (Mediaset, La 7) e radio (Radio 101) fonda Art Special Day, magazine on-line che dal 2014 si occupa di arte e società a 360°, realizzato grazie alla collaborazione di più di 500 volontari in tutta Italia: «È un progetto no profit concepito non solo per soddisfare le tante curiosità culturali degli appassionati di arte ma soprattutto uno strumento per supportare la crescita professionale di giovani che vogliano imparare un mestiere e vedere pubblicati i loro primi articoli. Sono orgogliosa di contribuire a ciò in prima persona, sto raccogliendo buoni risultati sia dal punto di vista editoriale che etico».

Art Special Day non è l’unico progetto della vulcanica Valentina che lo scorso 30 settembre 2017 ha dato vita anche ad un nuovo locale in via Bezzi nel quale non solo «una volta a settimana si fa riunione di redazione con i collaboratori di Milano per poi definire la linea editoriale in tutta Italia ma anche per dare uno spazio concreto a tutti i meneghini che ci seguono su Art Special Day, allargando questo concept-magazine a veri e propri “aperitivi culturali”. Il giornale è il mezzo grazie al quale sono nate e nascono idee e collaborazioni, ad esempio con associazioni o festival in giro per l’Italia a cui abbiamo dato e diamo visibilità on-line tramite collegamenti skype o contenuti video e da oggi anche fisicamente nel caso in cui abbiano voglia di raggiungerci a Milano».

Locali361: Let’s Feel Good, showroom culturale 2
Musica dal vivo al Let’s Feel Good

Valentina ha chiamato il suo locale Let’s Feel Good cioè “andiamo a star bene”, non solo perché suona bene ma anche perché porta in sé un significato positivo dato che «le nostre serate culturali si svolgono in un ambiente gradevole con eventi che hanno lo scopo di donare benessere godendo di arte insieme ad una raffinata degustazione enogastronomica. Grazie a particolari fornitori abbiamo a disposizione un dettagliato menù biologico a base di centrifughe, succhi, birre, vini, toniche, cole e insieme food vegetariano, anche se non esclusivamente. Da maggio inaugureremo una nuova drink list con i nomi di tutti gli artisti che abbiamo trattato al Let’s in questi primi mesi, da Van Gogh a Modigliani, con cocktail creati e studiati in base agli ingredienti preferiti dei clienti».

Il Let’s rispecchia l’anima di Valentina, anche stilisticamente: «Questo ambiente parla anzitutto di me, dalle materie culturali proposte alla lista dei vini di cui sono appassionata, tanto che curo personalmente i rapporti con le cantine. C’è anche il mio lato più genuino: l’angolo bar è tutto rivestito in legno e le luci sul bancone a forma di confetture della nonna rievocano una tradizione culinaria rispettosa della natura. L’angolo conferenze per eventi d’arte piuttosto che per concerti acustici invece è arredato con un divano rosso e piccoli tavoli vintage in modo da favorire vicinanza e condivisione». Il locale è di piccole dimensioni, 45 posti a sedere per 85 mq calpestabili, una sorta di club a entrata libera: «In poco meno di 7 mesi abbiamo raggiunto più di 11.000 fan che seguono una programmazione dal martedì alla domenica: ogni sera il nostro aperitivo offre qualcosa di diverso, dalla lettura al dibattito su un libro a un incontro sulle mostre in auge. In qualità di direttore di un giornale d’arte sono sempre ben informata su tendenze, mostre ed editoria».

Locali361: Let’s Feel Good, showroom culturale 1
Valentina Ferrario tiene uno degli incontri d’arte del Let’s Feel Good

La clientela del giovane Let’s non ha ancora un’età definita, «molti ritornano perché ritrovano altri “simili” che condividono la nostra filosofia: gli eventi d’arte richiamano in particolare i giovani ma la matrice comune degli avventori è la curiosità. E poi la musica: la serata di giovedì è dedicata al jazz, venerdì musica live di nicchia e il sabato un pubblico transgenerazionale che sa più apprezzare tributi a Battisti, De Gregori, Jannacci, Gaber, Celentano o Paul McCartney e Pink Floyd, artisti vintage ma sempre di grande richiamo, così come l’omaggio ad Amy Winehouse che si replicherà il 14 aprile». Il prossimo 22 aprile, in coincidenza con la fine del fuori salone, prevista la festa di compleanno di Art Special Day: «Terrò un incontro sul senso della riproducibilità dell’arte oggi e chiuderemo con un concerto revival di Mary & The Quants».

Il locale ha aperto i battenti da poco ma Valentina già pensa al futuro: «Sto cercando una location che mi permetta di portare il Let’s Feel Good in ambienti esterni nel mese di luglio e non solo. Il Let’s è più un progetto che un luogo fisico: voglio estendere il binomio buon cibo/intrattenimento culturale di qualità presto anche a festival, saloni, fiere o persino altri locali che abbiano voglia di condividere i nostri contenuti. E non solo su Milano: tra 5 anni mi piacerebbe esportare questo progetto anche in altre città». Conclude motivata: «Arte e cultura nel nostro quotidiano sono solitamente ingiustamente relegati in luoghi presieduti da esperti o cattedratici ma l’erudizione rappresenta solo una faccia di una più grande sfera sociale di cui tutti noi siamo protagonisti e ogni giorno diretti artefici della nostra stessa identità culturale. “Cultura”, dal latino còlere, significa appunto coltivare. E cosa coltiviamo dunque? Valori che diventino frutti e quindi nuove fondamenta della società del domani: cosa che anche io, nel mio piccolo, voglio contribuire a realizzare attraverso il Let’s».

Dal Blue Note al nuovissimo locale della zona Cagnola a Milano inaugurato a gennaio e ispirato a un personaggio dei fumetti: scopriamo il Moulinski

Locali361: quattro mesi di Garage Moulinski
Alessandro Balzani © Rita Cigolini 2018

Ai confini nord ovest di Milano, in prossimità dell’autostrada dei laghi, ha aperto i battenti da alcune settimane in via Pacinotti il Moulinski, noto anche come Garage Moulinski, perché «sorto dalla riprogettazione del retrobottega di un ex garage per biciclette e motorini risalente agli inizi del Novecento. Molti lo chiamano confidenzialmente anche Mou», afferma soddisfatto il proprietario Alessandro Balzani. Laureato in economia e commercio e impiegato fino a qualche tempo fa in tutt’altro settore, da tempo la vita da ufficio gli andava stretta e viene ispirato dall’idea di una nuova attività proprio quando scopre questo spazio in vendita: «L’ho acquistato e poi ho rifatto il tetto in legno e aggiunto nuove vetrate e aperture per dare più luminosità: già immaginavo come sarebbe diventato».

L’arredamento del Moulinski è caratterizzato da un “palco centripeto”, vero fulcro introno al quale si sviluppa un ambiente tra bistrot e loft, nel quale si gode da ogni angolo l’esibizione artistica in corso: «Sul palco, a rendere un’aria familiare, una libreria recuperata, così come recuperate sono le scale e alcuni elementi di design; e poi tavoli semplici e funzionali abbinati a sedie marocchine in oleandro, piante di canfora e un piccolo dehors raggiungibile dal soppalco a impreziosirne l’atmosfera». Il nome del locale, perfetto nel rendere l’idea dell’offerta di spettacoli originali in uno spazio eccentrico, si ispira all’anti-eroe dei fumetti di Bonvi, Stanislao Moulinsky, insensato personaggio e nemico dell’ineffabile Nick Carter: «È un riferimento immediato per una certa generazione ma in realtà ho scelto questo nome bizzarro, e con la “i” finale, proprio per evocare la stravganza dei possibili contenuti dei nostri eventi».

Locali361: quattro mesi di Garage Moulinski 2
Moulinski interno © Rita Cigolini 2018

Il Moulinski, aperto attualmente dalle 19 in poi, offre aperitivi e cocktail, tra cui una variazione valdostana dello spritz col Chardon, vini di qualità e birra artigianale alla spina. Alla carta lo chef Nicola Sitia presenta un menù costituito da una decina di piatti, rivisitazioni della cucina mediterranea compresi i falafel e una varietà di risotti, tra i quali ne spicca uno preparato secondo la particolare ricetta dello scrittore Carlo Emilio Gadda: «Pochi piatti ma buoni e soprattutto a prezzi accessibili, sia perché abbiamo aperto da poco, sia perché non siamo in centro. Ci stiamo attrezzando per essere presto aperti anche a pranzo». Lo svantaggio al momento è che il locale, pur su strada, non è di immediata reperibilità data la necessità di imboccare un portone civico privo di insegna per raggiungerlo, anche se «è già conosciuto in zona da tanti giovani, artisti e musicisti».

Aperto dal lunedì al sabato, al Moulinski si suona dal vivo da mercoledì ma la serata di punta al momento è il venerdì, appuntamento fisso col jazz mainstream: «La programmazione è seguita da Michele Franzini che, in qualità di direttore artistico, è già riuscito a portare sul nostro palco grandi interpreti, non solo italiani. Stiamo però pensando di distinguere tra serate con jazzisti di livello e appuntamenti settimanali per band più giovani». Il jazz occupa una buona parte della programmazione ma non c’è preclusione a nessun genere, dalla musica carioca al punk acustico o la bossa nova, dalle canzoni popolari agli ensemble tra musica contemporanea e improvvisazione, barocco, folklore balcanico e sefardita: «Suono il piano ma abbastanza male da capire che la scena vada ceduta ad altri – afferma ironicamente Alessandro – per questo mi sto interessando personalmente a scovare anche nuovi gruppi e cantautori da proporre». In tema di eventi il locale raccoglierà in parte l’eredità della Salumeria della Musica ospitando, dal prossimo 12 aprile, “La Scuola milanese” formata da Carlo Fava, Folco Orselli e Claudio Sanfilippo, «narratori, musicisti e conduttori per un ciclo di tre incontri volti a raccontare Milano, per aprire nuovi punti di vista sulla nostra città e la sua storia. Ci interessa lavorare su eventi inconsueti ma che possiedano sempre un certa qualità di fondo».

Locali361: quattro mesi di Garage Moulinski 1
Entrata Moulinski © Rita Cigolini 2018

Hanno già calcato il palco del Moulinski, o lo faranno nei prossimi giorni, Tiziana Ghiglioni, Takahiro Kitte, i Gregor Kay, i Killi Billi, i Mi linda Dama, gli Ajde Zora, Billy Lester, i Maltrainsema, Alan Bedin, l’AB Quartet e «hanno fatto un’improvvisata anche Hector “Costita” Bisignani, uno dei più grandi protagonisti della bossanova di passaggio a Milano ma anche il chitarrista Luiz Meira e Patrizia di Malta o Billy Lester». Oltre alla rassegna musicale prevista anche una piccola programmazione teatrale: «Prossimamente avremo uno spettacolo per bambini di Stefano Corradi, “Pierino e il bruco” ma anche cabaret e gare di poesia». Conclude Alessandro: «L’apertura del Moulinski rappresenta sicuramente, accanto al Cinema Teatro Trieste, un’importante nuovo angolo culturale per il quartiere Cagnola e le zone circostanti – Accursio, Sempione e Portello di Milano – nelle quali mancava un significativo riferimento per la musica dal vivo declinato come curato ristorante, divertente pub ed enoteca dai prezzi ragionevoli. Siamo aperti a tutti, non è previsto alcun biglietto di ingresso né è obbligatorio cenare, c’è solo una maggiorazione sulla prima consumazione in caso di concerti. Siamo fiduciosi di crescere sempre di più».

Sul grande schermo unicamente il 12 aprile in contemporanea mondiale “Distant Sky”, una delle tappe più potenti dell’ultimo catartico tour di Nick Cave

Nick Cave & The Bad Seeds “Live in Copenaghen” al cinema
Nick Cave & The Bad Seeds

Arriva nelle sale italiane Distant Sky. Nick Cave & The Bad Seeds. Live in Copenaghen, il concerto-evento nato per far rivivere il tour di Skeleton Tree, ultimo album in studio del cantautore australiano risalente al 2016, a un anno dalla tragica scomparsa del figlio.

È in questo disco che si trova Distant Sky, brano caratterizzato da echi celtici quasi religiosi, nelle cui melodie si alternano, al suono profondo dell’organo, la voce penetrante di Nick Cave e quella pungente del soprano danese Else Torp. E proprio quella canzone complessa e inusuale è stata scelta come titolo per questa nuova esperienza artistica   testimoniata dal film diretto dal regista David Barnard, che documenta la tappa di un lungo tour dall’Australia all’Europa, passando per gli Stati Uniti, guadagnatosi alcune delle migliori recensioni dell’intera carriera della band.

«Un’esperienza sconvolgente. Ci hai preso e ci hai portato in abissi lontano da qui. Con le tue regole del gioco. Ci hai portato a mettere le mani dentro la nostra carne e abbiamo sentito insieme felicità, dolore e piacere. Profonda riconoscenza a un maestro di eleganza. È stata una meravigliosa e irripetibile catarsi» (Michela La Perna, Tutto lascia traccia)

Con la forza catartica della loro musica, Nick Cave e i suoi The Bad Seeds, una delle band più prolifiche e longeve della storia del rock, hanno proposto le composizioni di Skeleton Tree insieme a gemme del loro catalogo essenziale nella cornice della Royal Arena di Copenaghen: Distant Sky è la testimonianza di un’esibizione al pari di una sorta di rito religioso dominato dalla forza magnetica dei musicisti in totale sintonia con il suo pubblico, in un’autentica intimità capace di abbattere ogni distanza umana e artistica tra i partecipanti. Per rivivere le sensazioni di quelle ore o scoprirle per la prima volta se non si è stati tra i fortunati che vi hanno potuto prendere parte dal vivo, l’appuntamento al cinema è dunque confermato per il 12 aprile, proiezione prevista in 500 sale cinematografiche in tutto il mondo (elenco sale a breve su www.nexodigital.it).

Poesie sconosciute e altri scritti inediti di Cash recentemente ritrovati sono stati arrangiati in brani musicali grazie alle interpretazioni di colleghi legati a “The man in black” e raccolti in un album. In tutti i negozi e store digitali dal 6 aprile.

“Forever words”: le parole di Johnny Cash, la musica di chi lo ha amato
Johnny Cash

Già il produttore discografico Rick Rubin aveva resuscitato la carriera di Cash negli anni ’90 facendo conoscere la sua musica alle nuove generazioni ma stavolta il figlio John ne ha fatto rivivere le parole attraverso le voci di altri artisti contemporanei. John Carter Cash, figlio di Johnny e June, ha incredibilmente scoperto dopo la scomparsa dei genitori nel 2003, un grande ammasso di carte, un vero tesoro composto da materiale inedito costituito da lettere scritte a mano, poesie e altri documenti. Quel ritrovamento ha suggerito al figlio di Cash un progetto discografico che ha realizzato negli ultimi due anni in veste di produttore assieme a Steve Berkowitz, invitando una cast stellare di cantanti e musicisti a comporre nuove musiche per dare un’altra vita a quelle parole e scritti dimenticati.

Vede così la luce l’album Forever Words con brani in parte basati su scritti inediti e altri ispirati in buona parte dal libro “Forever Words: The Unknown Poems”. Non è un disco però nato con l’intento di riportare le “memorie perdute” di Johnny Cash, piuttosto un modo per far sì che i musicisti lavorassero a quei versi permettendogli di vivere per sempre sotto forma di musica. «É stata una sfida eccitante mettere insieme questi materiali e presentarli a persone diverse che li avrebbero portati a termine nel modo in cui papà avrebbe voluto», ha spiegato John Carter Cash. «La scelta dell’artista da abbinare ad ogni canzone è stata solo una questione di cuore: ho scelto coloro che sono stati più legati a mio padre, che avevano un vissuto personale con lui».

Il primo singolo estratto dall’album è stato You Never Knew My Mind, con le parole di Johnny Cash e la voce di Chris Cornell: 21 anni dopo la cover di Rusty Cage dei Soundgarden contenuta nell’album Unchained di Cash, Cornell ha voluto rendere omaggio a questo speciale rapporto con “The man in black” cantandone alcune delle liriche più introspettive, prima di lasciarci prematuramente anche lui lo scorso anno.

Il disco, che si apre con Forever / I Still Miss Someone in cui Kris Kristofferson recita un poema con l’accompagnamento della chitarra di Willie Nelson a introdurre nel mood del disco, annovera altri nomi come Brad Paisley, John Mellencamp, Elvis Costello e Jewel, toccando anche momenti di grande intimità come A June This Morning, lettera che Johnny aveva scritto alla moglie June, interpretata dalla coppia Ruston Kelly e Kacey Musgraves.

 

Forever Words

  1. Forever/I Still Miss Someone – Kris Kristofferson and Willie Nelson
  2. To June This Morning – Ruston Kelly and Kacey Musgraves
  3. Gold All Over the Ground – Brad Paisley
  4. You Never Knew My Mind – Chris Cornell
  5. The Captain’s Daughter – Alison Krauss and Union Station
  6. Jellico Coal Man – T. Bone Burnett
  7. The Walking Wounded – Rosanne Cash
  8. Them Double Blues – John Mellencamp
  9. Body on Body – Jewel
  10. I’ll Still Love You – Elvis Costello
  11. June’s Sundown – Carlene Carter
  12. He Bore It All – Daily and Vincent
  13. Chinky Pin Hill – I’m With Her
  14. Goin’, Goin’, Gone – Robert Glasper featuring Ro James, and Anu Sun
  15. What Would I Dreamer Do? – The Jayhawks
  16. Spirit Rider – Jamey Johnson

In occasione delle celebrazioni per i tre lustri del tempio del jazz di via Pietro Borsieri in zona isola a Milano, Locali361 vi apre le porte del Blue Note.

15 anni di Blue Note

Era il 19 marzo del 2003 quando nello spazio di una ex fabbrica di tendaggi apriva il Blue Note, primo locale in Europa ispirato all’originale format del club del Greenwich Village di New York: «Nacque per volontà della prima proprietà, una società di amanti di jazz. Da un anno e mezzo la gestione è stata ereditata da Casta Diva Group, holding company che si occupa di produzione audiovisiva e comunicazione di grandi eventi: hanno portato una nuova energia, sono presenti persino in ogni dettaglio dei recenti festeggiamenti», spiega soddisfatto Daniele Genovese, che lavora da 12 anni nel celeberrimo locale della zona isola. «Dopo la laurea e un breve master ho trovato posto qui come coordinatore organizzativo tra i vari uffici, il direttore artistico Nick The Nightfly, e un collega che da New York ci supporta per il booking internazionale. E a tempo pieno: il locale è aperto 6 giorni a settimana 9 mesi all’anno». Alcune delle numerose stelle del jazz che si sono avvicendate sul palco nel corso di tre lustri sono ritratte nelle foto stampate sui festoni che decorano le pareti del locale per l’anniversario, da Ron Carter a Clark Terry ma anche Paolo Fresu, Stefano Bollani o Fabrizio Bosso: «Questa sala ha lanciato Mario Biondi, Ivan Segreto, Rapheael Gualazzi ma ricordo anche il primo concerto in Italia di Gregory Porter, Beckett Stevens o Zara McFarlane e Jazzmeia Horn, giovani talenti della scena internazionale».

Esteticamente nel locale, che si estende su una superficie di 1000 metri quadrati su 3 diversi livelli con 300 posti a sedere, si ritrovano elementi che richiamano l’omonimo newyorkese: una sala pervasa da un’atmosfera da elegante jazz club nel quale la platea può ascoltare le esibizioni ad un passo dai musicisti con il massimo della qualità acustica da ogni posizione, compresa la balconata. A predominare è ovviamente il blu, «in riferimento all’aggettivo inglese blue che identifica tanto il colore quanto un senso di nostalgia e tristezza tipico della musica afro-americana, così come percepita dagli ascoltatori europei. La caratteristica però che contraddistingue il Blue Note milanese rispetto a qualsiasi altro nel mondo (Stati Uniti, Giappone, Cina, Hawaii e Rio) è che il nostro è il più grande». Il menù, composto da specialità italiane e internazionali semplici ma raffinate, viene aggiornato ogni due mesi compresa un’ampissima carta di vini italiani e francesi, liquori e più di 200 voci nella drink list». Il servizio è molto efficiente in modo da appagare il pubblico prima dell’inizio del primo set di ogni concerto, dal martedì alla domenica a partire dalle 9: «La nostra offerta comprende in un’unica serata ristorazione e due concerti, prevalentemente con artisti internazionali di alto livello. Ogni artista richiama un pubblico statisticamente differente, che va dagli appassionati del grande jazz agli avventori del venerdì o sabato in cerca di una serata piacevole, agli incuriositi allievi di istituti musicali milanesi».

15 anni di Blue Note 1
Nick The Nightfly © Rita Cigolini 2018

Figura fondamentale del jazz club milanese è, insieme a Genovese, il direttore artistico Nick The Nightfly, che una volta a settimana conduce da un’apposita postazione all’interno del locale la sua trasmissione Monte Carlo Nights: «Quando ho presentato quest’idea all’editore Hazan è stata subito approvata con entusiasmo: non c’è altro locale al mondo che abbia all’interno una radio nazionale, gli artisti stranieri che vengono qui non ci possono credere». In questi giorni anche Nick è impegnato nei preparativi per le celebrazioni che hanno interessato non solo la struttura, impreziosita da tanti piccoli lavori come le installazioni di Marco Lodola, ma anche gli eventi speciali come la Blue Vinyl Nite, serata dedicata al dj set destinata a ripetersi con cadenza regolare, o il flah mob in galleria Vittorio Emanuele con l’Italian Gospel Choir. Nick ricorda così il giorno di inaugurazione 15 anni fa: «Ci fu una festa ad inviti, erano presenti tanti personaggi del mondo della musica come Renzo Arbore e Carlo Pagnotta di Umbria Jazz. Il socio fondatore Paolo Colucci e io eravamo seduti in uno di quei tavoli e ammiravamo i particolari del locale ultimato e pronto per ospitare il primo concerto. Quando finalmente abbiamo visto entrare Chick Corea con la sua band, nostro padrino, ci siamo guardati negli occhi emozionati come dire “Sta accadendo davvero!” Per Milano ma anche per l’Italia fu un sogno diventato realtà».

15 anni di Blue Note 2
Blue Note, sala interna © Rita Cigolini 2018

Il Blue Note ha riportato Milano e l’Italia sulla mappa delle tappe fondamentali del circuito internazionale ma non esclusivamente per star del jazz: «Mi piace intendere il jazz soprattutto come sinonimo di bella musica creativa dato che la maggior parte dei generi musicali deriva da quella matrice. Il compito mio e del team è stato ed è quello di far conoscere non solo il jazz ma anche i suoi figli». Gli amanti della musica non prediligono solo un genere, per questo «nella nostra galleria di star trovi anche Noel Gallagher e Pino Daniele, Ornella Vanoni, Fabio Concato e Eugenio Finardi insieme a talenti nuovi ed altri fidelizzati come Steve Gadd e McCoy Tyner, che hanno contribuito a creare un solido “fan base”». La musica ha sempre rispecchiato ogni società e riguardo l’attualità del jazz Nick risponde: «Certi maestri assoluti hanno inventato ciò che prima non c’era per questo vengono ancora venerati ma il jazz è un genere che andrebbe reinventato. Robert Glastbury, esempio di jazzista che contamina il suo stile con hip hop e soul, in una delle sue prime interviste anni fa dichiarò che il jazz aveva bisogno di un calcio nel sedere: c’è bisogno di giovani come lui che abbiano una visione della storia ma sappiano dare nuove chiavi di interpretazione. Sarebbe bello veder nascere non solo nuovi nomi ma anche nuovi generi: questa era digitale sta cambiando non solo la musica ma anche il suo valore e la sua importanza».

L’ultima sorpresa svelata è la Wall of fame, un muro esterno allestito appositamente per esibire i calchi delle mani dei più rilevanti artisti che si esibiranno qui: «Lo inaugurerà sabato 24 marzo Toquinho, protagonista della serata durante la quale gli verrà assegnato il Blue Note Award, nostro riconoscimento per musicisti, autori, scrittori, giornalisti o personaggi operanti a favore della divulgazione musicale». Pensando a quanto ancora potrà offrire il Blue Note conclude: «È un locale che diventerà ancora più importante nel tessuto sociale di Milano e dell’Italia. E più a lungo vivrà più successo avrà: Long live the Blue Note!»

Dopo i concerti di Busto Arsizio e Milano abbiamo parlato con Antonella Ruggiero, attualmente in tour col suo ‘Concerto versatile’ e prossima alla pubblicazione del cofanetto “Quando facevo la cantante”.

Antonella Ruggiero, una cantante sempre più libera
Antonella Ruggiero

Una delle voci più interessanti e importanti del panorama italiano come solista ma nella memoria pop del grande pubblico inevitabilmente legata ai Matia Bazar, dal 1975 al 1989, che oggi ricorda come «l’inizio di un percorso nel mondo della musica e di un periodo di grandi viaggi che mi ha permesso di conoscere nuove mentalità e costumi al di fuori della mia città e dell’Italia, dall’ancora esistente U.R.S.S., al Giappone all’America latina. E poi le prime sperimentazioni con canzoni che ancora oggi ripropongo, sempre molto amate dal pubblico, seppure con arrangiamenti diversi». ‘Matia’ era il soprannome di Antonella e oggi “portano il suo nome” altri ma «anche Dior non esiste più eppure la sua produzione continua», afferma la Ruggiero, «è diventato comune che certi marchi vengano acquistati da altri chiamati a portarne avanti il nome nonostante l’assenza dell’anima che ha dato vita ad un progetto». E riguardo la nuova formazione precisa: «Mi fa piacere sapere che abbiano preso parte giovani ragazze dato che solitamente le donne sono spesso in minoranza nel mondo musicale e non solo».

Non stupisce il maturo e garbato distacco della Ruggiero, affatto nostalgica e sempre più libera, come il titolo del suo primo omonimo album del 1996: «Dopo l’abbandono dei Matia Bazar ho volutamente passato sette anni isolata dal mondo delle case discografiche e delle tournée dedicandomi a nuove esplorazioni personali e professionali. C’è voluto tempo per liberarmi psicologicamente da quel tipo di pressione, pur necessaria, ma che non ho mai amato. Trovo conflittuale una visione musicale dominata dal business anzichè dall’arte in quanto tale: sono prospettive che si sono sempre male accordate ai grandi numeri o che raramente hanno trovato un equilibrio». Il gusto di scoprire diversi generi musicali Antonella lo coltiva sin da piccola abituata ad ascoltare in casa l’opera, canzoni popolari e musica sacra: «A 7 anni mio nonno mi portò nella chiesa di Santa Maria di Castello nella quale per la prima volta ascoltai l’organo liturgico: rimasi folgorata da quel suono e soprattutto prodotto in quel luogo. Quel ricordo mi ha sempre accompagnato durante lo studio della musica sacra, appassionandomi nella ricerca di brani anche poco noti che poi ho riproposto negli album Cattedrali e Sacrarmonia: è stato come riprendere in mano qualcosa che ho sempre amato».

In questi mesi è in tournée insieme a Mark Harris e Roberto Colombo con il suo ‘Concerto versatile’, piccola summa di carriera con brani dalle influenze di diversi generi ed epoche insieme a classici del repertorio anni ’70 – ’80: «C’è molta creatività ed improvvisazione, versioni riarrangiate e omaggi da De André alla PFM, repertorio che ogni sera prende forma in sintonia all’emotività del pubblico,  mia e dei musicisti: questa è la bellezza che rende ogni concerto versatile ma soprattutto non replicabile».

Antonella Ruggiero, una cantante sempre più libera 1

Domenica 18 marzo tappa anche a Milano dopo l’esibizione ad Expo 2015, città che Antonella conobbe la prima volta negli anni ’70, in un momento storico profondamente mutato rispetto ad oggi: «È una delle città internazionali più illuminata e ricca di giovani creativi. Ho cantato in meravigliosi luoghi come l’Orto Botanico, Piazza Duomo o all’interno di certi splendidi palazzi. La musica mi ha permesso di conoscere con grande stupore luoghi affascinanti, siti e borghi d’Italia nei quali la storia ha lasciato tracce suggestivamente straordinarie». In tema di città italiane non si può non citare Genova, profondamente misteriosa e introversa i cui abitanti, artisti e navigatori, hanno sempre manifestato il desiderio di esportare la loro cultura nel mondo e col mondo avere scambi: «Sembra quasi inevitabile allontanarsene: anche io, come molti figli di quella terra di esploratori, ho provato questo spirto di fuga. Ci ho vissuto fino ai 20 anni e oggi, pur abitando lontano, spesso ci torno col pensiero, soprattutto a quegli stili di vita che si rispecchiavano nella sua tradizione musicale estinta con gli anni ’70. Tutto cambia, si evolve o si involve».

E mantenendo uno sguardo al passato Antonella racconta anche del suo ultimo progetto discografico, il cofanetto “Quando facevo la cantante”, la cui uscita è stata posticipata tra maggio e giugno. Si tratta di 110 brani, alcuni inediti, per un totale di 6 CD, ognuno dedicato ad un genere, dalla musica sacra a quella popolare da quella orchestrale al jazz: «Ogni traccia è stata registrata dal vivo nel corso degli scorsi anni da Roberto Colombo allo scopo di regalare oggi la mia concezione musicale assolutamente scollegata da schemi discografici. Vuole rappresentare uno stimolo a fare musica a mente libera, interagendo con musicisti di culture che provengono da mondi lontani nel tempo e nello spazio ma uniti dal fil rouge della bellezza e della sacralità, che purtroppo con la musica pop mi sembra che abbia sempre meno a che fare. Il messaggio che intendo dare a molti giovani è che il panorama musicale non è statico: il musicista è un artigiano che realizza il suo lavoro in ogni dettaglio sempre con le sue mani e la sua mente».

Antonella Ruggiero, una cantante sempre più libera 2
Antonella Ruggiero © Riccardo Panozzo

D’altra parte la creatività non si può fermare, parola di chi è stata sedotta da tante ispirazioni: «Amo entrare nelle dimensioni musicali che sanno emozionarmi, non è mai un lavoro freddo, ogni volta che ho indagato l’anima della musica popolare o ebraica è perché ho sentito di volerlo fare. A oggi penso di aver affrontato quasi tutti i generi, compresa la musica contemporanea con Adriano Guarnieri, forse il momento più impegnativo della mia carriera». Più che sperimentare probabilmente ad Antonella piace più indagare nel tempo e nei luoghi della memoria che hanno lasciato dei segni nell’umanità e continuano a farlo: «A prescindere dai miei progetti futuri voglio proseguire una ricerca nei solchi di questo pianeta che continua a lasciarci in eredità storie e opere meravigliose, anche se talvolta di autori sconosciuti o che non saranno mai citati dai media».

Alla luce di tutte queste considerazioni, cos’è la musica per Antonella Ruggiero? «Una dimensione che appartiene da sempre all’umanità, legata ad una poetica intimità e ad una visione profondamente personale del mondo: sono sicura che persino le musiche primitive, comunque furono, sono state appassionanti al punto di toccare cuori e menti dei contemporanei. E nonostante oggi si avvii verso soluzioni formalmente sempre più ipertecnologiche, la musica resta per me prima di tutto un’arte sacra, nel vero senso del termine. C’è tanta bruttura nel mondo ma attraverso la musica si può ancora recuperare un po’ di bellezza».

Locali 361 vi porta questa settimana a pochi passi dal dipartimento dei Beni Culturali e Ambientali della Statale in via Noto: visitiamo Lo Stacco, un moderno ristorante di vero intrattenimento, non solo musicale

Locali361: una pausa teatrale nella piazza de Lo Stacco 2
Lo Stacco, entrata da via Noto © Rita Cigolini 2018

Ai confini di Milano sud in via Ripamonti c’è un locale forse un po’ nascosto ma che festeggia quest’anno ben 15 anni di attività, Lo Stacco: «Scelsi questa zona defilata in prossimità dell’imbocco delle autostrade perché era perfetta per accogliere i clienti, sia per il grande parcheggio a disposizione, sia per la possibilità di divertirsi senza arrecare alcun disturbo al vicinato». Come accaduto per altre location milanesi Lo Stacco è stato ricavato da un grande ex capannone industriale prima adibito allo scarico merci: «Non c’erano né pavimenti né soffitti: ho fabbricato tutto con le mie mani curando ogni dettaglio e l’ho inaugurato, aprendo l’ingresso su strada, nel novembre 2003». Comincia raccontando così Giorgio, gestore de Lo Stacco, nome ispirato alla popolare espressione “fare uno stacco”, un invito cioè a prendere una piacevole pausa dal lavoro quotidiano.

Locali361: una pausa teatrale nella piazza de Lo Stacco
Giorgio, proprietario de Lo Stacco

Giorgio negli ultimi anni si è occupato del suo locale a tempo pieno, prima però operava nel settore delle ristrutturazioni «ma ho sempre avuto la passione della cucina e dello spettacolo. Data la crisi che ha colpito anche il mio settore ne ho approfittato per dedicarmi a quello che mi piaceva. Ci vuole però tempo per migliorarsi, la strada da fare è stata ed è ancora lunga, soprattutto in una piazza come Milano». A proposito di strada, quello che colpisce entrando nel locale, oltre all’ampiezza, è proprio un allestimento da piazzale urbano con tanto di marciapiede e lampioni a vista: «Il progetto originario prevedeva un ambiente né troppo elegante né spartano ma essenzialmente milanese, che rievocasse in particolare la zona dei Navigli. Di quell’idea iniziale è rimasto solo qualche arredo, dato che ho in seguito considerato che un allestimento troppo marcato avrebbe potuto rappresentare un limite per l’attività di un locale che, come Lo Stacco, si volesse invece prestare a più tipologie di eventi».

Altra caratteristica peculiare è un dotatissimo palcoscenico a fondo sala, con il preciso obbiettivo di abbinare ristorazione e intrattenimento: «Abbiamo cominciato con spettacolini e concerti per una clientela latino-americana, programmazione che abbiamo poi gradualmente abbandonato in favore di un altro tipo di offerte e quindi di pubblico». La clientela che frequentava il locale i primi anni era costituita da giovani, oggi il target è mediamente intorno ai 30 anni: «A pranzo ospitiamo universitari e impiegati degli uffici vicini, abbiamo un menù a prezzo fisso costituito da piatti della tradizione italiana ma che comunque variamo mediamente ogni due settimane».

Locali361: una pausa teatrale nella piazza de Lo Stacco 3

A Lo Stacco oggi si può venire anche per cena a partire da giovedì, giorno dedicato agli amanti del teatro: «Si può cenare e assistere subito dopo a uno spettacolo, oppure venire direttamente dopo cena. Più che il cabaret privilegiamo grandi animazioni che coinvolgano attivamente tutti gli spettatori in sala, ad esempio quelli con le drag queen. Ieri sera abbiamo portato in scena Follie, spettacolo liberamente ispirato a Il Vizietto, mentre giovedì prossimo avremo un musical. Per aprile invece sono attesi i Jalisse ma raramente ospitiamo gruppi musicali, prediligiamo piuttosto artisti come Alfredo Nocera o Michele Tomatis, divertente trasformista».

In sala dunque si respira un clima solo apparentemente formale quanto assolutamente familiare, merito anche di una clientela fidelizzata che ben si relaziona all’ormai storico personale che comprende anche l’attuale direttore di sala conosciuto da Giorgio a Cuba, Raphael, curatore di costumi, scenografie e luci per ogni evento: «Lo Stacco viene spesso scelto per feste di laurea, compleanni, nubilati, celibati ma anche per la nostra discoteca ogni venerdì e sabato da mezzanotte alle 3». E non mancano anche idee per nuovi eventi: «Stiamo pensando di lanciare, a partire dal 1° maggio, il CoStacco Show, un talk show condotto da Eraldo Moretto, in arte Cesira, che intratterrà intervistando otto noti personaggi dello spettacolo, coinvolgendoli in divertenti sketch ed esibizioni. Da non perdere».

Musica361 ha incontrato i due volti storici della mitica PFM, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, attualmente in tour con l’ultimo album, “Emotional Tattoos”.

PFM: “Emotional tattoos”, una musica tra sogno ed emozione
Patrick Djivas e Franz Di Cioccio della PFM © Rita Cigolini 2018

Dopo l’addio di Franco Mussida e l’entrata di Marco Sfogli, la PFM è tornata sulle scene con la pubblicazione di Emotional Tattoos a 14 anni di distanza dall’ultimo disco di inediti. Attualmente impegnata nel tour mondiale, la band ha fatto recentemente tappa anche a Milano: abbiamo parlato con gli storici membri Franz Di Cioccio e Patrick Djivas.

Il concerto del 2 marzo al Teatro Dal Verme di Milano è diventato uno dei vostri nuovi “tatuaggi emotivi”?

Franz: «Il Dal Verme è un teatro per concerti di musica classica ma noi l’abbiamo domato (sorride)! È tanto tempo che non suonavamo a Milano ma l’affetto del pubblico è stato fantastico: abbiamo aperto con Il Regno, primo brano del nostro nuovo album, raccogliendo un fragoroso applauso spontaneo a scena aperta. Sembra che aspiri a diventare un nuovo classico della PFM, non ce lo aspettavamo».

Emotional tattoos presenta timbriche vintage da sinth e moog in stile PFM ma anche sonorità moderne. Cosa è cambiato fondamentalmente da Storia di un minuto (1971) a oggi?

Patrick: «Tutto quello che può cambiare in 46 anni di storia! Non abbiamo mai progettato il nostro sound, abbiamo sempre seguito il nostro istinto musicale senza curarci troppo del mercato. Scelta probabilmente folle da un punto di vista commerciale ma non artistico, dato che dopo circa 6000 concerti noi e i nostri fans non ci siamo ancora annoiati: il vero successo per un musicista sta nell’entusiasmo di salire sul palco ogni sera, non nel numero di dischi venduti».

Franz: «L’obbiettivo di un musicista dovrebbe essere collezionare più ore sul palco che dischi d’oro. Non siamo mai stati ispirati dal gusto della sfida discografica ma della curiosità, solo così si può scoprire sempre qualcosa di nuovo ed evolversi. Con Storia di un minuto, rompendo lo schema del formato canzone classico, abbiamo inventato un nuovo modo di fare musica che è stato in seguito definito progressive: un abito che non abbiamo volutamente deciso di indossare ma che poi non ci siamo più tolti, fino ad Emotional Tattoos».

PFM: “Emotional tattoos”, una musica tra sogno ed emozione 1
La copertina dell’ultimo album “Emotional tattoos”, 2017 © Rita Cigolini 2018

Da dove ha avuto origine la scintilla di Emotional Tattoos?

Patrick: «Da autentici session men studiosi e appassionati di musica classica, jazz e rhythm and blues. Grazie alle nuove tecnologie abbiamo potuto lavorare molto in casa autonomamente mettendo poi le canzoni a punto in studio. Il primo brano è stato La lezione, nata da un mio inconsueto giro di basso r&b e conclusa insieme a Marco Sfogli in mezz’ora. E così è stato praticamente anche per gli altri brani».

Franz: «Solitamente lavoriamo a partire da un’idea che ci intriga ma siamo sempre attenti a non assomigliare a nessuno, neanche alla PFM. Emotional Tattoos è diverso da tutti gli altri dischi ma contemporaneo, così come lo fu Storia di un minuto o PFM in classic nel quale abbiamo immaginato di fare una jam session con Verdi o Mozart».

Nella copertina dell’album siete ritratti alla guida di un’astronave: state seguendo un percorso o siete in esplorazione?

Franz: «La nostra astronave va alla ricerca di un mondo musicalmente migliore, assolutamente contro ogni rivalità tra generi musicali: è una visione molto antica che va superata. La musica è uno dei doni della vita dell’uomo, dobbiamo rispettarla e apprezzarla in ogni sua forma. E proprio come ogni diversa forma d’arte sa toccarti lasciandoti un tatuaggio emotivo, così i nostri brani, spontaneamente composti da diversi livelli musicali, vogliono sorprendere l’ascoltatore come un viaggio in una terra sonora inesplorata. Solo così si può essere veramente progressive rispetto ad un concetto discriminante di musica che rischierebbe di essere regressive».

Patrick: «La copertina visionaria è un invito ad entrare in un nuovo mondo dalle tante sfumature nel quale scoprire qualcosa che non si conosce ancora. Un principio che vale tanto per gli ascoltatori che per i musicisti: per me studiare musica è come entrare in una stanza buia nella quale a poco a poco gli occhi si abituano all’oscurità; e quando finalmente sembra di vedere qualcosa, trovi in fondo alla stanza un’altra porta, la apri e ti ritrovi nuovamente in un’altra camera, se possibile, ancora più buia. E per fortuna: non c’è niente di peggio di un lavoro creativo fatto in maniera non creativa».

PFM: “Emotional tattoos”, una musica tra sogno ed emozione 2L’album è stato pubblicato anche in lingua inglese con testi differenti dalla versione italiana. Come è avvenuta la stesura nelle due lingue?

Franz: «Siamo un gruppo italiano ma molto internazionale dunque per la prima volta, per coerenza, abbiamo voluto proporre contemporaneamente nello stesso album due versioni per ogni canzone. I testi in inglese però non sono le dirette traduzioni di quelli italiani: Quartiere generale  si riferisce alla storia politica del nostro paese che non può essere valida per un altro, dunque il testo è stato riadattato per altri ascoltatori. Come in We are not an island (Il Regno) ci sono riferimenti americani molto precisi scritti da Marva Jan Marrow, che aveva collaborato con noi già ai tempi di Chocolate Kings (1975)».

Patrick: «Ognuno ha avuto il suo compito, Franz ha scritto i testi in italiano mentre io, insieme ad Esperide (Silvia Buffagni), ho steso quelli in inglese. Dopo 50 anni di grande affiatamento c’è molta fiducia e sintonia: abbiamo registrato in studio le reciproche versioni senza neanche leggere prima i testi l’uno dell’altro».

La danza degli specchi è uno dei brani che rispecchia molto la PFM.

Patrick: «Il nostro gradimento, soprattutto nella cultura americana, dipende dal fatto che pur basandoci su una musica strutturata di matrice europea e dagli arrangiamenti curati, improvvisiamo dal vivo quasi metà dei nostri concerti. La danza degli specchi in questo senso è una sintesi di questo nostro stile: parte da un ritmo tribale di base alla Bo Didley e si sviluppa in un modo musicalmente sorprendente e complesso che cerchiamo di far arrivare in maniera molto diretta, come sempre ha fatto la PFM.

Franz: «Ci interessa prima di tutto che la melodia sia bella e, come in questo caso, il tempo viene di conseguenza. Quel ritmo tribale, passando di cultura in cultura, diventa danza popolare, poi dance, taranta e, nel culmine della canzone, ballo irlandese: una sorta di comun denominatore di tutte le danze popolari. La nostra è una visione di campo e controcampo che, fin dai tempi di A celebration, ci porta all’interno di mondi inconsueti: La danza degli specchi è un pezzo che solo PFM avrebbe potuto fare».

Nel disco si parla molto di non perder di vista i sogni: il rapporto musica-sogno è la chiave per interpretare Emotional Tattoos ma in generale anche la vostra musica?

Patrick: «Il sogno è la rappresentazione della fantasia, assoluta libertà senza limiti e la musica invece, matematica pura, è una sorta di organizzazione della fantasia. C’è un preciso legame nel rapporto musica-sogno: un esempio emblematico è in Beethoven che da sordo ha composto bellissima musica che ha solo potuto immaginare».

Franz: «La musica aiuta a catturare le percezioni dei sogni intesi come fuga dalla realtà. Musica e sogno sono dimensioni strettamente collegate: quando ascolto musica mi lascio trasportare al punto di non sentire più il mio corpo ed entrare totalmente in quell’esperienza sensoriale, come sognare. La musica è come un grande plug-in al quale attaccare qualsiasi sogno e il nostro obbiettivo dovrebbe essere saper rievocare quelle meravigliose visioni anche da svegli (sorride)».

Top