Locali361 si sposta questa settimana dalla Martesana alla Darsena per raccontarvi Le Trottoir, storico locale diretto dalla signora Vasseur e K.O. Mannarelli

Locali361: Le Trottoir, in Darsena tra storia, lettere e note
Le Trottoir in piazza XXIV maggio © Rita Cigolini

Molti ricordano Le Trottoir come locale milanese alternativo nato agli inizi degli anni ’90, originale ex sede della Fernet Branca e poi bar all’entrata di Brera in corso Garibaldi, a pochi passi dall’attuale Teatro Strehler. «Alle spalle c’era l’Hotel Napoli nel quale signorine un po’ attempate accoglievano i loro vecchi clienti e al diroccato piano superiore una bisca, secondo la tradizione dell’autentico popolo di Brera, almeno fino all’alba di una certa espansione economica», ricorda la fondatrice Michelle Vasseur, elegante signora laureata alla Sorbona con una tesi in storia dell’arte che ancora giovane giunse nel nostro paese per motivi di studio. «Mi affermai negli anni ’70 come paroliere, ho lavorato in Francia con Joe Dassin e in Italia con Vito Pallavicini scrivendo alcuni dei più bei successi per Mina, Marcella Bella, Massimo Ranieri, Adriano Celentano e Toto Cutugno. Un giorno mi fecero conoscere questo locale e mi proposero di gestirlo insieme a Max Mannarelli: lo trasformammo in uno dei ritrovi intellettuali più interessanti di Milano, esponendo quadri di giovani talenti e organizzando i primi concerti. Ho visto molti pittori, scrittori e musicisti passare a Le Trottoir, non solo per esibirsi ma come habitué».

Locali361: Le Trottoir, in Darsena tra arte, storia, lettere e note
Sebastian Bejan mostra il suo speciale Moscow Mule © Rita Cigolini 2018

Il locale ha vita in Brera fino al 2003 quando trova nuova collocazione in Porta Ticinese, in quella che era l’antica palazzina di una ex dogana progettata dall’architetto Cagnola: «Questa casa daziale fu eretta per riscuotere la gabella di transito dalle chiatte dei commercianti che lavoravano lungo le mura spagnole per volontà di Napoleone. E oggi, per destino, ci “vive” un’altra francese che fa onore al suo nome (sorride)». Riguardo invece al nome del locale aggiunge: «Trottoir significa ‘marciapiede’, insegna che funziona anche qui in Darsena, così come prima in Brera: d’altra parte Porta Ticinese è chiamata dai milanesi Porta Cicca perché anche qui c’erano molte “signorine” (chica significa ragazza in spagnolo) che si concedevano sur le trottoir». Prima che ci mettesse piede la signora Vasseur l’edificio fu una farmacia fino alla prima metà del ‘900, poi «dagli anni ’60 si avvicendarono diverse gestioni ma con alterni successi, per lo meno finchè i navigli furono una zona impestata da nebbia e gente poco raccomandabile».

Oggi il pubblico de Le Trottoir è formato da curiosi turisti ed eclettici intellettuali che lo bazzicano fino a tarda ora: «Vogliamo essere un contenitore culturale a disposizione dei tanti creativi ai quali viene dato poco supporto. Purtroppo senza denaro e visibilità non c’è neppure cultura, per questo bisogna sostenere il più possibile le menti creative per garantire artisti di qualità in eredità alle future generazioni, siano musicisti come Malika Ayane e i The Kolors ma anche personaggi come Sebastian, il nostro estroso barman». À la carte si trovano piatti della tradizione e prodotti biologici ma soprattutto cocktail, come spiega proprio Sebastian Bejan, al servizio dietro al bancone: «Ultimamente va molto anche il Moscow Mule, dalla versione passion fruit a quello rivisitato da noi oltre naturalmente all’originale».

Locali361: Le Trottoir, in Darsena tra storia, lettere e note 1
Sala dedicata ad Andrea G.Pinketts, Le Trottoir in piazza XXIV maggio © Rita Cigolini

Sulle pareti dell’ex casa daziale, tra gusti retrò e avanguardistici, colpisce ogni dettaglio disseminato nelle opere di talentuosi che attendono solo di essere apprezzate: «Al piano superiore abbiamo una sala affrescata da Jean Charles Metiase all’attenzione di Andrea G. Pinketts, nostro nume tutelare e uno dei geni letterari che avete, anzi abbiamo in Italia. È uno dei pochi intellettuali nel quale riconosco un cuore grande quanto il suo cervello ed è raro. Come molti sanno ha scritto a Le Trottoir quasi tutti i suoi romanzi».  Max Mannarelli, detto K.O., ci spiega invece come viene selezionata la programmazione musicale: «Sul nostro palco, che è un decimo del locale, ospitiamo formazioni minime di tre elementi a un massimo di sette – garantisco che i musicisti sanno stare stretti pur di suonare qui (sorride)! Di preferenza band francesi, canadesi e inglesi ma anche italiane purchè dal repertorio swing, rock, funky e comunque internazionale, così come lo è la nostra clientela: al momento i nostri gruppi di punta sono i Bang Bang Vegas e i The Sunset».

A Le Trottoir non manca mai musica per frequentatori abituali o avventori occasionali, soprattutto nel fine settimana: «Al piano terra l’Open Concert ha inizio dalle prime ore pomeridiane fino alle 22 e con la bella stagione facciamo suonare anche dj e cantautori sotto il padio, tra i nostri alberelli davanti alla piazza. Il piano superiore invece viene dedicato al jazz dal vivo, prevalentemente di lunedì e martedì; anche se, più precisamente, siamo sempre stati sostenitori del free jazz, fin dai tempi di Brera». La cornice di questo singolare simposio artistico, «nel quale si danno pure appuntamento alcuni poeti che erano soliti frequentare la vicina casa di Alda Merini», si presta anche a eventi come concorsi di cortometraggi, mostre, competizioni letterarie, reading e presentazioni di libri dalle tematiche sociali accuratamente selezionate: «Proponiamo quasi sempre romanzi legati alla cultura contemporanea, mentre per gli amanti della poesia il Navigli Poetry Slam due domeniche al mese e il FIPM. Accontentiamo tutti: come nella vita c’è chi ama la prosa, chi la poesia».

www.letrottoir.it

Pubblicato oggi il nuovo album di Jimi Hendrix composto da inediti materiali d’archivio. I dettagli nell’articolo di Musica361

 

“Both sides of the sky”: nuovi inediti di Jimi Hendrix

 

Disponibile da oggi in CD, doppio vinile 180 grammi e digitale Both sides of the sky, raccolta di una serie di brani ripuliti ed estratti dagli archivi del leggendario chitarrista di Seattle. Si tratta per la precisione di 13 tracce risalenti al periodo compreso fra gennaio 1968 e febbraio 1970, quando Hendrix, poco dopo lo scioglimento della Experience, stava entrando in una nuova fase musicale ispirata dal desiderio di estendere i confini del blues.

In Hear my train a-comin Hendrix suona ancora con la Jimi Hendrix Experience con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria ma molte delle tracce contenute in questo album sono state registrate dal trio che sarebbe diventato di lì a breve la Band of Gypsys (Jimi alla chitarra e alla voce, Billy Cox al basso e Buddy Miles alla batteria).

In due brani incisi nel settembre 1969 Jimi suona con Stephen Stills una cover di Woodstock di Joni Mitchell (precedente a quella di Crosby, Stills, Nash & Young) e l’inedito $ 20 fine. Johnny Winter suona in una versione di Things I used to do di Guitar Slim e in un brano compare anche Lonnie Youngblood, cantante e sassofonista già compagno di band di Hendrix in Curtis Knight & the Squires.

Garanzia di qualità e originalità delle registrazioni del disco, che vanno a costituire l’ideale capitolo finale della trilogia iniziata con Valleys of Neptune (2010) e proseguita con People, Hell and Angels (2013), è la produzione curata dal fonico Eddie Kramer presente in tutti i dischi pubblicati da Hendrix in vita, insieme a John McDermott e Janie, sorella di Jimi che da anni si impegna a preservare l’eredità musicale del fratello.

Track List:

1.  “Mannish Boy” (inedita)
2. “Lover Man” (inedita)
3. “Hear My Train A Comin'” (inedita)
4. “Stepping Stone” (inedita)
5. “$20 Fine” (inedita, con Stephen Stills)
6. “Power Of Soul” (versione estesa, precedentemente inedita)
7. “Jungle” (inedita)
8. “Things I Used to Do” (con Johnny Winter)
9. “Georgia Blues” (con Lonnie Youngblood)
10. “Sweet Angel” (inedita)
11. “Woodstock” (inedita, con Stephen Stills)
12. “Send My Love To Linda” (inedita)
13. “Cherokee Mist” (inedita)

Veniva pubblicato cinque anni fa dopo un lungo silenzio ‘The Next Day’, quello che venne accolto come l’album della rinascita di David Bowie. Musica361 vi invita a riscoprirlo, anzi a riascoltarlo

David Bowie: “The Next Day”, il penultimo capitolo del Duca Bianco

L’8 marzo 2013, dopo circa dieci anni di assenza dalle scene e un silenzio discografico da Reality (2003), cui aveva fatto seguito una brusca interruzione del relativo tour dovuta a problemi di salute, vedeva sorprendentemente la luce il ventiquattresimo album di inediti di David Bowie. Era stato annunciato dal nulla esattamente un paio di mesi prima nel giorno del suo sessantottesimo compleanno, quando l’artista aveva lanciato in rete, in risposta a chi oramai lo dava per finito, un nuovo singolo con relativo video: si trattava di Where are we now?, ballata intimista nella quale Bowie rievocava luoghi e momenti della sua Berlino anni ‘70 ma interpretata con una voce rotta da sembrare il preludio ad un album malinconico. Quel singolo invece venne semplicemente scelto, aveva spiegato il produttore Tony Visconti, perché “appropriato per riprendere contatto con quel pubblico che doveva affrontare lo shock del suo ritorno”: “Dove siamo ora?”, chiede laconicamente un Bowie maturo e affaticato a sé che sta invecchiando e alla sua generazione, riflettendo sulle occasioni mancate, a metà strada tra ricordi e nebbie del presente, facendo i conti con quello che è stato e quello che può ancora essere.

Riflessioni sicuramente influenzate dai recenti avvenimenti che lo avevano riguardato ma episodio raro all’interno di un disco che, all’ascolto, più che suscitare compassione intende stupire. Si tratta infatti di un album rock con canzoni dall’impatto forte e sensuale e arrangiamenti che suonano retrò o contemporanei, assecondando o ignorando con tipico humour dissacrante i testi di Bowie. Ogni canzone è studiata nei minimi dettagli e ognuna risulta, a suo modo, memorabile pur senza cercare di tenere il passo con i tempi ma attingendo piuttosto con gusto e creatività dai periodi migliori della carriera passata. Il nuovo album parte dal passato per “tornare al futuro”: in questo senso è sicuramente programmatica la copertina creata da Jonathan Barnbrook con l’immagine di uno dei dischi più venerati di Bowie, Heroes (1977), nascosta da un grande quadrato bianco e il titolo “The Next Day”. Un oscuramento che vuole indicare, più che un cambiamento, una sovversione con l’obbiettivo di scomporre, ricomporre e modellare quello che è stato.

I fan di Bowie sono i primi a cogliere echi di Let’s Dance, Scary Monsters, Ziggy Stardust e naturalmente della celebre trilogia berlinese, richiamata sin dalla provocatoria copertina, vere schegge citazionistiche all’interno di solidi brani rock innervati di sonorità acide oppure temperati da coretti pop, funky o rock’n’roll. A queste sonorità si sposano le liriche di un Bowie che, alla sua età, legge il mondo in maniera matura, cantando gli elementi immutabili della vita come lo scorrere inesorabile del tempo, i falsi miti, le tragedie umane e la fragilità delle relazioni interpersonali condite da riferimenti personali, anche ironici. “Here I am, not quite dying” dice il ritornello in apertura di The next day baldanzosa title track che rompe il silenzio degli ultimi anni riprendendo, tra un gusto funky alla Talking Heads e un rock sghembo alla Clash, spunti melodici da Repetition, Beauty and the Beast e It’s No Game in una marcia art rock sbilenca, il cui testo rivela la sua passione per la poetica medievale britannica, in una sorta di nervosa pantomima della decadenza tra chitarre acide e lugubri synth. Oppure canta “Wave goodbye to life without pain” in Love is lost con tastiere dark-sperimentali in omaggio a Ian Curtis, leader dei Joy Division, con una batteria dal ritmo tragicamente ossessivo puntellato da un organo, aggressivi accordi stoppati di chitarra e una linea vocale filtrata da effetti suggestivamente ipnotici. Sono situazioni torbide, languide, enigmatiche ed effimere, nelle quali Bowie è alla ricerca di un autentico sé mai veramente individuato, nonostante l’immagine oramai borghese: in realtà un’altra maschera apparentemente rassicurante sotto la quale si nasconde un ghigno che affiora attraverso parole talvolta beffarde talvolta profonde, come quelle di Valentine’s Day, che si riferiscono ad uno dei tanti eccidi commessi in una scuola ma restano impastate in un sound glitterato alla Marc Bolan che evolve come un mantra febbricitante e introduce If You Can See Me, pezzo esasperatamente visionario fra pulsioni drum’n bass, voci dissonanti e tempi sincopati in un’atmosfera da music hall, tra coretti e marcette condite da campanelli, tastierine e ampi spiragli dance.

In ogni brano emerge un eclettismo che spazia da diversi generi musicali: nella prima parte il blues waitsiano di Dirty Boys con i sinuosi sax malati in omaggio a Iggy Pop e The stars are out tonight, secondo singolo pop-rock che si fa strada con accordi sognanti e un ritornello tipicamente bowiano (“Le stelle non muoiono mai, muoiono una volta e poi rivivono”). Nella seconda parte invece canzoni che scorrono dignitosamente senza però l’incisività delle prime come I’d Rather Be High, brano psichedelico e antimilitarista anni sessanta, il funky di Boss Of Me o il boogie woogie spaziale di Dancing Out In Space, mentre meritano più attenzione (You Will) Set The World On Fire con tanto di riff tagliente e assolo di chitarra e la ballata You Feel So Lonely You Could Die nipotina di Rock ‘n’ Roll Suicide con esplicito riferimento a Five Years. Anche How does the grass grow plagia ironicamente l’intro di Heroes, conservando quel tono sarcastico che riconduce ad un folle pastiche alla Scary Monsters. L’album si chiude poi col catastrofismo spettrale della semiacustica Heat, caratterizzata da rarefazioni jazzy: nel ritornello “And I tell myself, I don’t know who I am”, Bowie scopre definitivamente le carte del suo dubbio esistenziale mentre il suono stridente del violino (che anticipa le sonorità di Blackstar) accompagna l’enigmatica frase “My father ran the prison”.

In The Next day c’è tutta la vita di David Bowie in una sorta di resurrezione attraverso la quale rimette in gioco gli elementi essenziali che ne hanno fatto il performer che ha segnato la storia della musica. L’ambizione in questo caso è di presentare qualcosa che possa semmai essere raccolto come nuova moda più che segnare ancora una volta i tempi e per molti fan, delusi dalla promessa del titolo, è difficile accettare che proprio quell’artista all’avanguardia che più volte mostrò al rock quali strade seguire si sia limitato a citarsi. Il valore di questo album si misura in base alle aspettative: per molti rappresentò un semplice disco-evento dopo un lungo silenzio, per molti fan il migliore da Scary Monsters o Let’s Dance, per certa critica un album discreto, per i più esigenti una mera collezione di brillanti esercizi stilistici e altri ancora invece non ne colsero per niente l’importanza. Oggettivamente nulla aggiunge alla sua carriera rispetto ad altri veri capolavori ma, anche se non può dirsi una pietra miliare, ha avuto intanto il merito di confermarsi una delle opere migliori dei suoi ultimi anni – non è più il Bowie di Heroes come ci ricorda la copertina ma sicuramente neppure quello di Reality – e resta ad oggi un album elegante che si presta a più approfonditi ascolti. In questo disco c’è “solo” un navigato artista di sessant’anni che, non sentendo più il compito di dover dimostrare nulla, utilizza le ispirazioni migliori delle sue diverse anime per esprimere più le emozioni di David che le canzoni del personaggio Bowie, che torna ad essere sé stesso guardandosi indietro e meditando consapevolmente su un’esistenza artistica e umana che sente volgere al tramonto, nel tentativo di riprendere la migliore ispirazione del passato per cercare di proiettarsi ancora una volta nel futuro. Con The Next Day cercò di immortalare il primo passo di una resurrezione che purtroppo durerà appena il tempo di affacciarsi “al giorno dopo”: tre anni più tardi l’uomo delle stelle vedrà eclissare definitivamente la sua luce interrompendo questa rinascita con Blackstar.

Dall’Alcatraz di via Valtellina alla “casa del Blues” di via Sant’Uguzzone, al confine con Sesto San Giovanni: entriamo nella Blues House della famiglia Fierro

Locali361: Blues House, l’intrattenimento musicale della Martesana
Stefano Fierro di fronte al palco della Blues House ©Rita Cigolini

Nei pressi del Naviglio Martesana in viale Monza, al confine tra Milano e Sesto San Giovanni, nasce nel 1992 la “casa del blues” ovvero la Blues House: «In questo luogo prima c’era un’officina, credo montassero strutture per camion: c’è ancora il carroponte a vista e il tipico pavimento a piastrelle rosse. Il proprietario storico era un amante del blues e aprì questo locale inizialmente per ospitare gli estimatori della cosiddetta “musica del diavolo”», introduce Stefano Fierro (42), alla gestione della Blues House dal 2008 insieme ai suoi fratelli.

«Prima dell’era di aperitivi o dj set, a metà anni ’90, il blues era ancora la musica privilegiata dell’intrattenimento notturno milanese e costituiva l’80% della programmazione», spiega Fierro, «poi inevitabilmente gli anni passano, le generazioni cambiano e con loro l’identità dei consumatori. Il locale nei tempi d’oro lavorava a pieno regime dal martedì al sabato, oggi noi apriamo prevalentemente il week end: la musica dal vivo, a parte il caso dei grandi nomi, è considerata di nicchia da molti ventenni e trentenni che, mediamente, prediligono altri tipi di eventi». La fama del locale è sempre stata legata ad artisti blues, tradizione che Stefano e i suoi fratelli hanno comunque cercato di mantenere al passaggio di gestione: «Vidi suonare per la prima volta in un paesino del lodigiano Matthew Lee, pianista rock’n’roll in stile Jerry Lee Lewis, sei anni fa: noi lo abbiamo invitato e ospitato qui fino allo scorso settembre e oggi è in esclusiva al Blue Note, così come Sagi Rei».

La competenza musicale di Fierro non è quella di un musicista ma di un “consumatore medio di musica”: «Prima della Blues House ho lavorato in un’azienda di sistemi di sicurezza e con la crisi mio padre decise di reinvestire in un’attività di cassetta in questo settore. I primi mesi sono stati difficili al punto che ci siamo visti costretti a cambiare strategia aziendale nei confronti di molte band. Il modus operandi della gestione precedente stava decadendo con la crisi, per questo abbiamo introdotto il metodo anglosassone, il door deal, ovvero una retribuzione in percentuale agli ingressi della serata. In questo modo purtroppo abbiamo perso l’80% dei musicisti che collaboravano con la Blues House ma ne abbiamo recuperati altri, scovandone anche di migliori. E chi ci è rimasto fedele ha comunque visto aumentare il suo pubblico».

Locali361: Blues House, l’intrattenimento musicale della Martesana 1
Blues House, sala interna © Rita Cigolini

Non è facile sostenersi per chi vive di musica dal vivo oggi anche se secondo Fierro non è tutta colpa della crisi: «Bisogna sfatare il falso mito del “lavoro in nero dovuto alla situazione difficile”, molti accettano condizioni ingiuste senza dire di no. Per contro non si può più guadagnare cifre importanti al netto a fronte di una serata live: mai come oggi fama, credibilità e di conseguenza cachet si costruiscono poco per volta. E anche la tanto demonizzata SIAE è sempre esistita, d’altra parte “fare musica” non significa rimanere indenni ad una legge di mercato. Adattare un modello di business alla musica non è un crimine come pensano alcuni ma un modo sensato di collaborare: capisco che non sia un momento favorevole per i musicisti di professione ma, garantisco, neppure per chi deve gestire un locale».

I concerti della Blues House sono caratterizzati da esibizioni dal contesto piuttosto informale: «Rispetto a tanti locali “contenitori” senza personalità la nostra estetica è un po’ vintage, in stile pub americano con luci soffuse, bancone lungo e, al centro dell’attività, il palco. Offriamo prima di tutto intrattenimento musicale in controtendenza alla ristorazione con musica dal vivo: tavola fredda, birre e cocktail a servizio del live e non viceversa». E fedele a tanta estetica anche lo stile dei concerti: «Alle 23 abbassiamo le luci e lasciamo il palco alle band che suonano un paio d’ore per un pubblico che ha voglia di bersi una birra e ballare in sala alla vecchia maniera».

Da tempio del blues in cui si sono esibiti anche i Creedence Clearwater Revival nel 1997, gli Animals, i Ten Years After e Phil X (chitarrista dei Bon Jovi) per citarne alcuni, oggi la Blues House è una location per concerti abbastanza aggiornata alle tendenze contemporanee: «Se ci sono band “emergenti” come i Blastema o Michele Cortese il locale è prevalentemente affollato da fans ma la maggior parte della nostra programmazione è costituita da cover o tribute band, composte da veri professionisti come il trio di Gennaro Porcelli, musicisti di Bennato o la Tribute band di Van Halen costituita dai membri del gruppo di Gabriele Fersini, attuale chitarrista di Antonacci. Legati alla Blues House anche gli Anderson Council, formazione di 12 membri che omaggia i Pink Floyd con uno show curato persino nelle luci».

L’attenzione per le tribute band riaccende inevitabilmente la polemica in merito a chi sostiene che le cover rubino il palco a chi propone repertori di inediti e Fierro per sua esperienza afferma: «Sento molto astio tra musicisti su questo argomento. La verità è che c’è chi non ha i numeri per certi palchi: è più difficile che un pubblico generico venga ad ascoltare semi-sconosciuti che fanno inediti trattenendosi fino a fine serata. Anche se ammetto di essermi dovuto ricredere in alcuni casi su certi artisti che ho inizialmente sottovalutato e che poi hanno invece dimostrato il loro talento. Può capitare talvolta e sono contento per chi è riuscito a fare strada». Con lucidità poi aggiunge: «Ho imparato col tempo a scegliere oculatamente chi far suonare e quando i clienti lasciano anche solo un bel commento su facebook dopo aver passato la serata alla Blues House i conti si ripagano sempre, in tutti i sensi. Magari non mi arricchisco ma, dopo ogni concerto, torno a casa sempre sereno, il risultato più importante».

Disponibile dal prossimo 6 aprile la colonna sonora di “The Searcher”, l’ultimo inedito docu-film su Elvis Presley

In arrivo la soundtrack di “The Searcher”, l’ultimo documentario su Elvis

Dopo The King di Eugene Jarecki presentato lo scorso anno al Sundance Film Festival, è in arrivo a pochi mesi dall’anniversario dei 40 anni dalla morte di Elvis un nuovo monumentale documentario dedicato al Re del Rock’n’Roll dal titolo Elvis Presley: The Searcher, contenente circa tre ore di materiali d’archivio e testimonianze inedite sulla sua vita e carriera.

Nel documentario verrà ripercorsa la vicenda artistica ed esplorato lo stile musicale di Elvis Presley dalle origini fino alle incisioni della Jungle Room di Graceland nel 1976, con immagini tratte dalla celebre tenuta di Memphis, interviste ai musicisti, collaboratori e colleghi che hanno avuto occasione di conoscerlo o ne sono stati profondamente influenzati come Bruce Springsteen, che ne sottolinea l’importanza nell’Olimpo dei musicisti:

Di questi artisti percepisci la straordinaria inventiva: non sai bene dove andranno o esattamente cosa stanno facendo ma lo scopri solo nel momento in cui la musica prende vita. Sei fuori da ogni confine e l’unica cosa che sai è che sei in un posto originale ed emozionante.

Thom Zimny, già autore di The Promise: The Making of “Darkness On the Edge of Town” su Bruce Springsteen, è il pluripremiato regista di The Searcher, presto presentato al South by Southwest di Austin in Texas, per poi essere trasmesso in due puntate dall’emittente HBO a partire dal 14 aprile.

Il prossimo 6 aprile Legacy Recordings, la divisione Catalogo di Sony Music Entertainment e RCA Records pubblicheranno ufficialmente la colonna sonora contenente i 18 brani più noti dell’artista e le incredibili performance live, incluse versioni alternative di note canzoni riadattate per lo schermo. L’album sarà disponibile in tutti gli store digitali e negozi di dischi nelle versioni CD, doppio LP e cofanetto da collezione deluxe.

Il cofanetto per collezionisti conterrà 27 ulteriori esecuzioni di Elvis più un disco speciale con pezzi eseguiti appositamente per la soundtrack dal chitarrista dei Pearl Jam Mike McCready e dal recentemente scomparso Tom Petty con i suoi Heartbreakers, più alcuni classici R&B e country che hanno ispirato Elvis come Home Sweet Home cantata da sua madre Gladys. Il box sarà impreziosito da un libro di 40 pagine con fotografie rare, note di copertina del compositore Warren Zanes e del regista Thom Zimny, che in proposito ha dichiarato: “Avevo in mente questa colonna sonora fin dall’inizio. Non stavo solo facendo un film ma pensando anche a chi, dopo aver visto il film, volesse portalo sempre con sé. La Sony ha permesso a me e al team di ricercatori la realizzazione di questa raccolta che noi consideriamo parte integrante del film”.

Toccante e illuminante la testimonianza di Tom Petty a riassumere il valore del documentario:

Dio lo benedica. Era la luce per tutti noi, gli siamo tutti debitori per aver iniziato la battaglia. Non aveva una ‘road map’ ma ha forgiato comunque il percorso, cosa fare e cosa non fare, e non dovremmo commettere l’errore di parlare di un grande artista solo in base a ciò che ne è stato dopo. Dovremmo soffermarci solo su ciò che ha fatto, perché ciò che ha fatto è stato di una tale bellezza ed eternità, è stata solo grande, grande musica.

 

Elvis Presley: The Searcher (The Original Soundtrack) – CD/Digital

  1. Trouble/Guitar Man
  2. My Baby Left Me
  3. That’s All Right
  4. Baby Let’s Play House
  5. Heartbreak Hotel
  6. Lawdy, Miss Clawdy
  7. Hound Dog
  8. Crawfish
  9. Mona Lisa
  10. Milky White Way
  11. Like A Baby
  12. Are You Lonesome Tonight?
  13. It’s Now Or Never
  14. Tomorrow Is A Long Time
  15. Suspicious Minds (take 6)
  16. Separate Ways (rehearsal version)
  17. Hurt (take 5)
  18. If I Can Dream

Elvis Presley: The Searcher (The Original Soundtrack) – 3CD Deluxe Box Set

 Disc 1

  1. Trouble/Guitar Man
  2. My Baby Left Me
  3. Baby, What You Want Me To Do
  4. Old Shep
  5. That’s When Your Heartaches Begin
  6. That’s All Right
  7. Blue Moon Of Kentucky
  8. Fool, Fool, Fool
  9. Tweedlee Dee
  10. Baby Let’s Play House
  11. Good Rockin’ Tonight
  12. Trying To Get To You
  13. Blue Moon
  14. When It Rains It Pours
  15. Blue Christmas
  16. Heartbreak Hotel
  17. Lawdy, Miss Clawdy
  18. Money Honey
  19. Hound Dog
  20. (There’ll Be) Peace In The Valley (For Me)
  21. Crawfish
  22. Trouble
  23. Farther Along
  24. Mona Lisa
  25. Hide Thou Me
  26. Loving You (end title take 16)
  27. Lonely Man (solo version)
  28. Power Of My Love

Disc 2

  1. Milky White Way
  2. A Mess Of Blues
  3. Fame And Fortune
  4. Love Me Tender / Witchcraft (duet with Frank Sinatra)
  5. Like A Baby
  6. Are You Lonesome Tonight?
  7. It’s Now Or Never
  8. Wooden Heart
  9. Swing Down Sweet Chariot
  10. Reconsider Baby
  11. Bossa Nova Baby
  12. C’mon Everybody
  13. Tomorrow Is A Long Time
  14. Take My Hand, Precious Lord
  15. Run On
  16. Baby What You Want Me To Do
  17. Suspicious Minds (take 6)
  18. Baby Let’s Play House (rehearsal)
  19. Words (rehearsal)
  20. That’s All Right
  21. Never Been To Spain
  22. An American Trilogy
  23. You Gave Me A Mountain
  24. Burning Love (rehearsal version)
  25. Separate Ways (rehearsal version)
  26. Hurt (take 5)
  27. If I Can Dream

Disc 3

  1. Dissolution 2 – Mike McCready
  2. Satisfied – The Blackwood Brothers
  3. That’s All Right – Arthur “Big Boy” Crudup
  4. She May Be Yours But She Comes To See Me Sometimes – Joe Hill Louis
  5. Mystery Train – Little Junior’s Blue Flames
  6. Smokestack Lightning – Howlin’ Wolf
  7. Rock-A-My Soul – The Blackwood Brothers
  8. Just Walkin’ In The Rain – The Prisonaires
  9. Rocket 88 – Jackie Brenston and his Delta Cats
  10. Write Me A Letter – The Ravens
  11. Blue Moon Of Kentucky – Bill Monroe
  12. Ain’t That Right – Eddie Snow
  13. Just Walkin’ In The Rain – Johnnie Ray
  14. Lawdy Miss Clawdy – Lloyd Price
  15. Home Sweet Home – Gladys Presley
  16. Blowin’ In The Wind – Odetta
  17. Tomorrow Is A Long Time – Odetta
  18. The Weight – The Staple Singers
  19. Heartbreak Hotel – The Orlons
  20. Wooden Heart – Tom Petty and the Heartbreakers
  21. Rebound – Mike McCready

 Elvis Presley: The Searcher (The Original Soundtrack) – 2LP

 Side A

  1. Trouble / Guitar Man
  2. My Baby Left Me
  3. That’s All Right
  4. Baby Let’s Play House
  5. Heartbreak Hotel

Side B

  1. Lawdy, Miss Clawdy
  2. Hound Dog
  3. Crawfish
  4. Mona Lisa
  5. Milky White Way

Side C

  1. Like A Baby
  2. Are You Lonesome Tonight?
  3. It’s Now Or Never
  4. Tomorrow Is A Long Time

Side D

  1. Suspicious Minds (take 6)
  2. Separate Ways (rehearsal version)
  3. Hurt (take 5)
  4. If I Can Dream

Dallo Zio Live ad un locale milanese simbolo della zona isola che quest’anno compie 20 anni: Lorenzo Citterio racconta il suo Alcatraz

Locali361: Alcatraz, la roccaforte musicale della zona isola
Lorenzo Citterio dentro il suo Alcatraz © Rita Cigolini 2018

Nel settembre 1998 in via Valtellina venne costruito, sull’area di una ex casa di spedizioni nata nel 1947, l’Alcatraz: «Quelli che oggi sono i palchi erano le ribalte dei camion sopra le quali venivano scaricate le merci, oppure trasportate qui via treno dal vicino scalo Farini: sul pavimento c’erano i binari». Per un periodo fu anche officina meccanica, poi dagli anni ’80 la società proprietaria lasciò lo spazio in uno stato di semi-abbandono «finché a fine anni ’90 mio padre, dopo una lunga esperienza nel settore della discografia in EMI, decise di compare la struttura per realizzare questa sua idea, anzi questa “follia”, come l’ha sempre chiamata lui (sorride)».

A raccontare questa storia è Lorenzo Citterio, classe 1980, oggi alla direzione dell’Alcatraz ma che ricorda ancora i lavori in corso quando era studente liceale: «Dopo la laurea in giurisprudenza in Bocconi ho frequentato studi legali internazionali, sarei dovuto diventare avvocato. Mio padre però aveva intrapreso questa avventura da solo e a me non piaceva l’idea che l’Alcatraz potesse prima o poi finire in mani d’altri, così mi sono “sacrificato” e gli sono subentrato nel 2004. Mi sono a poco a poco calato, con pazienza e umiltà, in un mondo che a 24 anni mi era ancora estraneo, però ci ho messo passione perché comunque l’Alcatraz è casa mia: oggi lo gestisco insieme ai miei fratelli e al mio team affiatato, letteralmente una famiglia».

Il nome del locale, originariamente “Alcatraz Music Island”, intendeva propriamente riferirsi ad uno spazio nuovo che prima di allora non esisteva in città: «Volevamo che la nostra fosse una location che dettasse nuove regole, nella quale poter organizzare eventi prima impensabili e un nome del genere in un quartiere che si chiamava isola faceva sicuramente gioco in questo. L’Alcatraz, con una capienza di 3500 persone, due palchi, la possibilità di avere diversi sipari per musica dal vivo o dj-set e tre piste per altrettanti generi musicali, fu concepito appositamente per soddisfare le esigenze di promoter e clienti ed è diventato di fatto un nuovo riferimento milanese, al punto che negli anni il nostro “stile” è stato adottato anche da altre realtà: vuol dire che le nostre idee sono state applicate perché vincenti».

Il primo evento fu una sfilata nel maggio 1998 quando «Armani passò qui davanti per caso e decise di prenotarlo prima ancora che fosse ultimato, poi lo affittarono i Rolling Stones per una settimana durante il tour di Bridges to Babylon e da allora in poi sono passati molti altri nomi importanti». In 20 anni l’Alcatraz ha certamente avuto anche il merito di avviare una riqualificazione della zona circostante, pur mantenendo un’estetica post-industriale, con tralicci a vista e il colore nero dominante in sala dovuto anche al pavimento in cemento elicotterato con finiture in resina, i palchi in parquet e le mura con blocchetti grigi a vista. La peculiarità di questo spazio è comunque la sua ampiezza priva di colonnati, «con un’altezza di 13 metri e la possibilità di scaricare direttamente sul palco fari e amplificatori dai tir di produzione». In una location che si occupa di eventi ogni dettaglio è fondamentale per essere appetibili: «Ogni nostra attrezzatura disponibile è un costo in meno per chi noleggia lo spazio, siamo attenti a mettere a disposizione forniture audio, video e impianti luci sempre tecnologicamente avanzati. Così come la possibilità di predisporre diversi allestimenti e capienze in base all’evento: quando l’abbiamo costruito, sebbene la nostra aspirazione fosse quella di essere il locale più grande di Milano, abbiamo da subito capito l’importanza di modulare la sala per live da 5000 presenze a serate più intime da clubbing».

Locali361: Alcatraz, la roccaforte musicale della zona isola 1
Alcatraz, interno © Rita Cigolini

L’aggettivo che sceglie Lorenzo per definire il suo locale è “magico”: «La magia sta proprio nelle sue dimensioni “umane” grazie alle quali, pur con folle rilevanti, si riesce a godere musica e ogni artista da vicino: dai gruppi heavy metal ai cantanti rap di Cinisello Balsamo che oggi hanno milioni di followers ma anche storiche band come gli Europe, oramai di casa. Siamo un contenitore che sa far funzionare situazioni che diventano magiche». Considerazione analoga per la discoteca dotata di privée e sala fumatori: «Non siamo selettivi perché non è nella nostra filosofia chiuderci ad alcun tipo di contenuto, per questo non abbiamo pr ma lavoriamo sulla qualità del servizio e sul passaparola. Ogni serata è pensata per una diversa clientela: il pubblico del venerdì è prevalentemente universitario, dai 18 ai 26 anni, il sabato l’età si alza fino ai 35 anni. E poi vengono molti turisti stranieri, non solo perché il prezzo d’ingresso è moderato ma anche per merito della nostra versatilità nel fiutare tendenze, da serate orientate al reggaeton oppure hip hop, tributi o cover band ma anche a tema come “Single party” o “Full moon party”». Ad accompagnare le serate la principale fonte di beverage resta la birra insieme al classico fast food e cocktails, «in alcuni casi a tema, magari creati su ispirazione dei tormentoni delle pagine facebook come il “Black Russian 60 %”. Siamo comunque molto attenti con l’alcool in discoteca: vogliamo mantenere un’atmosfera gradevole per tutti e soprattutto una buona fama».

E la fama del locale continua ad essere legata  anche alla programmazione settimanale dei concerti dal vivo organizzata dai promoter, chiaramente evolutasi dal 1998 ad oggi: «Fino ai primi anni 2000 la musica dal vivo è andata per la maggiore, sono passati Nile Rodgers, Counting Crows, Stereophonics, Iggy Pop, Amy Winehouse, Paul Weller e Bob Dylan. Oggi a parte i grandi nomi rimane qualche fermento indie rappresentato da band come i Canova o dal funk dei Calibro 35 ma c’è più interesse per dj set e musica di rapper come Carl Brave x Franco 126». Altra parte del core business settimanale sono gli affitti sala per convention o cene aziendali che negli anni «hanno visto personaggi come Schwarznegger e Bush senior, il Milan di Berlusconi ma anche Beppe Sala durante la campagna elettorale, abbiamo sempre soddisfatto tutti». Unica caratteristica che purtroppo fa onore ad un nome “da reclusione” è la mancanza di un’area esterna: «La location lavora da settembre a fine giugno, chiudiamo solo per la stagione estiva per ovvie ragioni». Entusiasta però Lorenzo conclude: «Quello che ha sempre fatto la differenza in questi anni è stata la cura per i dettagli. Così come accadrà anche a settembre per i festeggiamenti dei nostri primi quattro lustri: siete tutti invitati».

In occasione del docu-film “Life in 12 bars” sulla carriera di Eric Clapton, al cinema il prossimo 26, 27 e 28 febbraio, Musica361 ripercorre attraverso 7 celebri brani alcune tappe fondamentali della storia del chitarrista inglese che hanno contribuito a fondare il mito di ‘Slowhand’.

Eric Clapton: 5 classici per prepararsi al documentario “Life in 12 bars” 1
Eric Clapton dal vivo nel 1974

La carriera di Eric Clapton, cominciata con esibizioni di strada in Inghilterra, è irregolare, costellata da diverse collaborazioni e spesso caratterizzata da influenze blues ma anche da brani più orientati al pop rock. Dopo il periodo dei supergruppi, presente in formazione con gli Yardbirds, i Bluesbreakers di John Mayall, i Cream con Ginger Baker e Jack Bruce e i Blind Faith con Steve Winwood, band con le quali raccoglie i suoi primi successi, pubblica nel 1970 Eric Clapton, suo album di debutto come solista: da quel momento prosegue consolidando sempre più il suo mito di chitarrista virtuoso che, nonostante i problemi di salute e le dipendenze, non è mai stato intaccato. Tra i numerosi brani amati dai fan e conosciuti da generazioni ecco 7 imprescindibili canzoni-simbolo la cui storia sarà presto toccata e approfondita con inedite curiosità nel nuovo documentario nelle sale la prossima settimana.

Sunshine of your love (1967) – Uno dei riff di chitarra più famosi della storia del rock con l’inizio dell’assolo che accenna al celebre standard Blue Moon di Richard Rodgers: si tratta del singolo di punta estratto dal secondo disco dei Cream, Disraeli gears (1967). Pare che sia stato ispirato dalla partecipazione di Bruce e Clapton al concerto di Jimi Hendrix al Teatro Saville di Londra. Jimi Hendrix renderà a sua volta omaggio al brano eseguendone una cover.

While my guitar gently weeps (1968) – Canzone composta da George Harrison e pubblicata nel famoso White Album dei Beatles. Durante le sessioni di quell’album il clima tra i Beatles era teso e così Harrison invitò l’amico Clapton inizialmente a passare la giornata in studio con la band per “stemperare gli umori” e alla fine gli fu proposto di dare il suo contributo alla canzone, evento eccezionale per il quartetto di Liverpool. La canzone è ricordata proprio per il famoso assolo di Gibson Les Paul, classificato dalla rivista Guitar World come 42° assolo migliore del mondo. Harrison ricambiò suonando in Badge, contenuta nell’album Goodbye dei Cream.

Presence of the lord (1969) – Canzone contenuta nell’unico e omonimo album dei Blind Faith con in copertina la maliziosa ragazzina nuda. Il fotografo battezzò quello scatto tra l’innocente e il morboso con “fede cieca”, spunto che diede il nome a questo super gruppo nato dai cocci dei Cream (Eric Clapton, Ginger Baker), dei Traffic (Steve Winwood) e dei Family (Rich Grech). Gli elogi più sentiti alla pubblicazione del disco furono proprio per questa ballata blues di Clapton, la cui fama era al massimo in quel periodo.

Layla (1970) – Pubblicata nell’album Layla and Other Assorted Love Songs col gruppo Derek & The Dominoes, il brano è costituito dalla prima parte segnata dal celebre riff di Clapton e Duane Allman mentre la seconda dalla melodia al pianoforte di Jim Gordon. Dedicata all’amore all’epoca ancora non corrisposto di Clapton per Pattie Boyd, moglie del suo amico George Harrison, la canzone è ispirata alla storia del poeta orientale Nezami che narra di una principessa costretta a sposare un uomo diverso da colui che era perdutamente innamorato di lei, causando la pazzia di quest’ultimo. Ebbe poco successo quando uscì ma col tempo ottenne buoni riscontri al punto da diventare un classico: nel 2004 la rivista Rolling Stone l’ha collocata al 27º posto nella lista delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi. Nel 1992 una versione acustica fu inserita nell’album MTV Unplugged.

I shot the sheriff (1974) – Un brano reggae composto originariamente da Bob Marley nel 1973 che divenne popolare grazie alla più famosa cover di Eric Clapton contenuta nel suo album 461 Ocean Boulevard (1974).

Cocaine (1977) – Delle diverse versioni di questo brano scritto e registrato da J.J. Cale nel 1976 per l’album Troubadour, rimane oggi la più conosciuta quella di Clapton nell’album Slowhand (1977). Una canzone contro la droga (“If you wanna get down, down on the ground, cocaine” / “se vuoi cadere, cadere per terra, cocaina”) anche se in parte ambigua, tanto che Clapton ha aggiunto nei concerti dal vivo le parole “that dirty cocaine” (“quella sporca cocaina”) per sottolinearne il messaggio anti-droga. Clapton ha comunque sempre sostenuto che è preferibile una canzone contro la droga in maniera allusiva piuttosto che diretta, in modo da garantire un effetto maggiormente dissuasivo rispetto ad un messaggio moralistico.

Wonderful Tonight (1977) – Dall’album Slowhand, insieme a Cocaine, uno dei brani più amati di Clapton. La sera del 7 settembre 1976 Eric Clapton e Pattie Boyd avrebbero dovuto presenziare alla festa in onore di Buddy Holly organizzata annualmente da Paul e Linda McCartney ma dato che Pattie impiegava troppo tempo per prepararsi Eric, dopo averle detto in maniera spazientita «Sei meravigliosa ma dobbiamo andare o faremo tardi!», scese in salotto prese la chitarra e suonò con rabbia e frustrazione creando questo brano in una decina di minuti. Per questo inizialmente la ritenne una canzone da non tenere in considerazione ma poi incoraggiato dal parere positivo degli amici decise di tenerla.

Tears in Heaven (1994) – Ballata pubblicata nel 1992 e scritta con Will Jennings dedicata al figlio Conor, avuto dalla showgirl italiana Lory Del Santo e morto a soli 4 anni nel 1991 cadendo dal 53º piano di un palazzo a New York. Il singolo, tra quelli di maggior successo dello stesso Clapton, gli valse nel 1993 tre Grammy Awards: Canzone dell’anno, Registrazione dell’anno e Miglior interpretazione vocale maschile.

Disponibile da venerdì, dopo quasi 50 anni, la storica esibizione della band di Jim Morrison al Festival di Wight 1970, uno straordinario documento restaurato con interviste inedite

The Doors: finalmente in uscita l’ultimo concerto all’Isola di Wight
Cover del docu-film “The Doors live at the Isle of Wight Festival”

 

Il Festival dell’isola di Wight, regolarmente organizzato ogni estate dal 2002, viene soprattutto ricordato per le sue prime storiche edizioni. Nel 1968 e 1969 vi suonarono Jefferson Airplane, Bob Dylan, The Band e Joe Cocker ma l’edizione passata alla storia nell’immaginario collettivo fu quella del 1970. Nell’estate del 1970 si creò grande attesa per quello che verrà definito “The Last Great Festival”: dal 26 al 30 agosto si radunarono sull’isola 600,000 persone per vedere e ascoltare dal vivo la crema del panorama musicale contemporaneo e non solo rock, se si considera anche la presenza di Miles Davis. Da allora quell’evento venne sempre più ritenuto, per diversi motivi, ancora più importante dell’emblematico Woodstock.

Il festival del 1970 fu immortalato da Murray Lerner nel documentario Message to love, pubblicato per la prima volta, per problemi finanziari, solo nel 1995. In realtà Lerner, morto lo scorso settembre, ha poi trascorso gran parte degli ultimi decenni a ordinare tutto il materiale girato pubblicando periodicamente documentari monografici dedicati a singoli artisti come Jimi Hendrix, immortalato nella sua ultima memorabile esibizione completa (Blue Wild Angel), Miles Davis (A Different Kind of Blue), The Who (Live at the Isle of Wight Festival 1970), Jethro Tull (Nothing Is Easy: Live at the Isle of Wight 1970), Emerson, Lake & Palmer (The Birth Of A Band: Isle of Wight 1970), The Moody Blues (Threshold of a Dream: Live at the Isle of Wight Festival 1970), Leonard Cohen (Leonard Cohen Live at The Isle of Wight 1970), Free (Free Forever) e, ultimi in ordine di tempo, Taste (What’s Going On Live At The Isle of Wight 1970).

Il prossimo venerdì, 23 febbraio, sarà ufficialmente disponibile anche l’attesissima apparizione dei Doors al festival, a fotografare un avvenimento fondamentale nella storia della band. Quando i Doors arrivano al festival di Wight Jim Morrison è ancora in attesa dell’esito del processo per atti osceni a seguito del concerto di Miami del 1969. La condanna, anche se in realtà per un fatto mai totalmente appurato, arriverà il 30 ottobre e in quel momento le polemiche intorno al nome della band sono tanto calde quanto incerto è il futuro dei Doors. Alle due del mattino del 30 agosto però, dopo essere stati presentati, a dispetto dei rumours i Doors accolgono il pubblico con una potente versione di Roadhouse Blues: ha così inizio quella che, secondo la dichiarazione del tastierista Ray Manzarek “fu un’esibizione sommessa ma molto intensa: suonammo con una furia controllata, Jim era in perfetta forma e cantò con tutta l’energia che aveva”. Secondo altri invece non fu una delle loro migliori performance, soprattutto perché si percepivano i rapporti tesi all’interno della band al punto che Morrison, come confermato anche dallo stesso Manzarek, “non mosse un muscolo per tutta la durata del concerto: Dioniso era stato incatenato”.

Break on through (Live at the Isle of Wight 1970)

Negli anni sono circolati solo alcuni frammenti di questo concerto che per la prima volta da venerdì sarà integralmente disponibile. Le immagini documentano un’atmosfera magica creata dalla suggestione delle canzoni della band di Los Angeles in piena notte, un’alchimia sonora tanto più intensa e irripetibile soprattutto se, mentre la si ascolta, si pensa che a meno di un anno da quel momento i Doors non si sarebbero mai più esibiti. “Live At The Isle Of Wight Festival 1970” è, ad oggi, la testimonianza filmata dell’ultimo concerto pubblico dei Doors con uno dei loro migliori repertori dal vivo, poco prima di incidere l’album L.A.Woman (1971), ultimo atto della discografia in studio con Jim Morrison.

Il concerto è stato completamente remixato e restaurato grazie all’uso della tecnologia più avanzata, con largo uso delle tecniche di grain-reduction e color-correction per migliorare le immagini originali, comprese riprese mai viste come la sequenza della folla accorsa all’Isle of Wight per ascoltare Light My fire, Break on trough e The end. “The Doors: Live at the Isle of Wight 1970” sarà disponibile in una raccolta di DVD e CD, in Blu-ray e CD o in formato video digitale. Entrambe le versioni in DVD e Blu-ray includeranno un filmato di 17 minuti, intitolato “This is the End”, con le interviste di Lerner al chitarrista dei Doors Robby Krieger, al batterista John Densmore e al manager della band, Bill Siddons, più un’intervista del 2002 all’organista Ray Manzarek, tutta da scoprire.

 

THE DOORS LIVE AT THE ISLE OF WIGHT FESTIVAL 1970

Tracklist

  1. Roadhouse Blues
  2. Band Introduction
  3. Back Door Man
  4. Break On Through (To The Other Side)
  5. When The Music’s Over
  6. Ship Of Fools
  7. Light My Fire
  8. The End (Medley: Across The Sea / Away In India / Crossroad Blues / Wake Up)

Dopo il Fabrique di via Fantoli questa settimana abbiamo visitato lo Zio Live Music Club di via Boncompagni: vera nicchia per gli amanti della musica dal vivo di qualità, non solo italiana.

Locali361: nella sala prove dello Zio Live Music Club
Carlo Forti con la musicista Roby Giallo

In via Boncompagni 44, all’interno di un ampio spazio industriale, si trova la struttura di un ex magazzino convertito in sala prove nel 2006, il Top Sound Studio, da un paio di anni trasformato in parte in un vero locale: «Ho chiuso formalmente l’attività con la mia ex socia nel 2015 e ho aperto un’associazione, lo Zio Live Music Club. Tutto è nato quasi per gioco da alcune jam session “allargate” tra musicisti e relative compagnie per passare del tempo insieme. Poi, dato l’afflusso di persone tramite il passaparola il giro degli “amici” si è allargato e quel passatempo è diventato una realtà al punto che ho fondato una vera associazione, lo Zio Live Promozione Cultura, fissando ufficialmente una serie di date e allestendo un piccolo angolo ristoro», racconta il gestore Carlo Forti.

Carlo è chitarrista da 20 anni: «Suonavo funky ma oramai seguo giorno e notte il locale e la sala prove oltre al service audio come fonico. Quando ho aperto lo Zio ero da solo e oggi siamo in tre: io mi occupo del live, un altro socio del bar e una ragazza del tesseramento». Il locale prende il suo nome dal fatto che «tutti i ragazzi che frequentavano la sala mi chiamavano “zio” come sinonimo di “amico” come si usa tra i giovani e mi è piaciuto». Prima di dedicarsi esclusivamente alla musica Carlo ha svolto diversi mestieri tra i quali il grafico: «Ho creato personalmente la chitarra stilizzata e la scritta vintage del logo che vuole chiaramente richiamare generi musicali anni ’60 – ’80, periodo che per me ha dato tanto alla musica».

Lo Zio Live si trova all’interno di un’estesa area industriale semi-custodita, classica ambientazione da sala prove: «Oggi sono rimaste solo due delle quattro sale del Top Sound e lo spazio rimanente è stato adattato per la musica dal vivo. Qualche mese fa abbiamo abbattuto anche la vecchia reception, situata di fronte al palco, diventata ora un confortevole salottino».  L’estetica dello Zio Live rimane quella di un moderno studio con pannelli scuri insonorizzanti che decorano un’area quadrata dotata di buona visibilità da ogni lato ma il fiore all’occhiello del locale è l’ottima acustica: «Abbiamo efficienti impianti RCF di classe A e una backline digitale a disposizione dei musicisti che, effetti personali a parte, trovano sul palco tutta una strumentazione tecnologica avanzata grazie alla quale possono suonare nelle condizioni migliori per l’uditorio».

La clientela che frequenta il locale solitamente prenota «non solo perché i posti sono limitati ma perché ama venire ad ascoltare musica di qualità a lume di candela». Anche se il punto ristoro offre piadine preconfezionate, birre e i classici cocktail Carlo ribadisce quanto lo Zio live non punti alla cucina «ma ad ascoltare professionisti dato che qui si paga un ingresso per la musica». Carlo non è il classico “gestore da locale”, prima di tutto è un musicista e questa attitudine si rispecchia nella selezione: «Privilegiamo musica originale e progetti inediti, soprattutto italiani ma anche jazz, funky e un po’ di blues internazionale. Niente cover band e neanche generi estremi come il free jazz o il metal, che comunque non sarebbero neppure ottimali per la metratura della sala».

Locali361: nella sala prove dello Zio Live Music Club 1
Luca Colombo, Alex Polifrone e Paolo Polifrone dal vivo allo Zio Live

Dallo scorso anno previste solo un paio di serate a week end ma a poco a poco la programmazione prende forma: «A gennaio si è esibito Guthrie Govan con la band del bassista greco Yiorgos Fakanas ma la vera programmazione prenderà identità da marzo in poi con ospiti internazionali come Michael Lee Firkins o Carl Verheyen, chitarrista e cantante dei Supertramp». La fama dello Zio Live è comunque al momento legata ai migliori turnisti del panorama musicale italiano come Giorgio Secco, Osvaldo Di Dio, Luca Meneghello, Heggy Vezzano, Antonio Petruzzelli e Leif Searcy noti nell’ambiente per aver collaborato con Mina, Renato Zero, Eros Ramazzotti, Franco Battiato, Cristiano De André, Gianluca Grignani, Francesco Renga, Roberto Vecchioni, Dolcenera e Alberto Fortis. E proprio questi turnisti saranno protagonisti di un grande evento targato Zio Live: «Non perdete il prossimo 15 Marzo la “Night of guitar”, serata dedicata ai classici blues».

La frequentazione di musicisti di tanta levatura non è dovuta solo all’ottima attrezzatura ma anche al clima da intenditori: «Amo il mio lavoro e non potrei vivere di altro anche se sento che molti locali faticano sempre più a sopravvivere. In questi due anni e mezzo la fama dello Zio continua a diffondersi: dal canto nostro continueremo a proporre un’offerta di qualità».

https://www.facebook.com/zioliveclub/

Complice il successo della recentissima bio-fiction “Fabrizio De André – Principe Libero” e l’anniversario della nascita il prossimo 18 febbraio, Musica361 vi invita a (ri)scoprire il cantautore genovese a partire da tre album fondamentali. Soprattutto per le giovani generazioni

Celebrando Faber: tre album per cominciare a conoscere Fabrizio De Andrè
Fabrizio De André in concerto

 

Fabrizio De André è un cantautore italiano divenuto celebre a partire dagli anni ’60 grazie a numerosi singoli di successo, da La canzone di Marinella a Bocca di Rosa, da La guerra di Piero a Via del Campo ma è soprattutto dagli anni ’70 in poi che ha cantato con voce e chitarra numerosi e toccanti episodi dal gusto letterario che sono andati a costituire quella serie di affreschi popolari dedicati agli “ultimi” presenti nei suoi album. O meglio si trattava di veri concept album, dischi cioè formati da brani legati tra loro da una tematica comune e grazie ai quali un artista poteva raccontare più che una semplice storia. La discografia di Faber meriterebbe di essere scandagliata brano per brano ma a coloro che, nell’era delle playlist, ancora non conoscono l’eredità musicale degli interi concept del cantautore genovese suggeriamo di cominciare da tre album fondamentali. Buon ascolto.

La Buona Novella (1970)

Celebrando Faber: tre album per cominciare a conoscere Fabrizio De Andrè 1

Questo concept viene considerato dallo stesso De André e da molti critici il suo capolavoro assoluto. Ispirato dal paroliere Roberto Dané ai Vangeli Apocrifi venne pubblicato in un periodo storico in cui in Italia c’era più trasporto per utopiche rivoluzioni sociali rispetto alla vita di Gesù Cristo. Gli universitari militanti del tempo lo consideravano anacronistico ma nelle intenzioni di De André il disco voleva anzi essere ed è un’allegoria dell’allora situazione politica, considerando Gesù di Nazaret il più grande rivoluzionario di tutti i tempi: «I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica», sosteneva Faber. Seguendo un fil rouge sociale ed etico De André, raccontando l’infanzia di Maria introdotta da Laudate Dominum fino alla crocifissione, narra la vita di Cristo da un punto di vista umano (Si chiamava Gesù), ricorrendo alle testimonianze di altri personaggi spesso trascurati dai Vangeli ufficiali, dal falegname al ladrone crocifisso ne Il testamento di Tito, figura attrverso la quale enuncia una sorta di manifesto col quale da un lato demolisce i dogmi religiosi e dall’altro si commuove di fronte alla condizione umana della morte in croce. Ne La buona novella ogni brano possiede rime e immagini affascinanti e l’ascoltatore gode in ogni momento di una mirabile maturità poetica nella musicalità delle parole e dei maestosi arrangiamenti di Danè e Riverberi, che a loro volta sanno enfatizzare con atmosefere cupe la drammaticità dei brani.

Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971)

Celebrando Faber: tre album per cominciare a conoscere Fabrizio De Andrè 2

Concept album tra i più emblematici secondo il parere dei fan e nato da un’idea del produttore Sergio Bardotti. L’ispirazione viene ancora da un testo letterario, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master nella traduzione di Fernanda Pivano: De André racconta otto personaggi sepolti a Spoon River attualizzando ogni miseria umana in tratti crudi e schietti, dal nano diventato giudice per vendicarsi di coloro che lo avevano deriso al blasfemo ucciso da “due guardie bigotte” per aver affermato che Dio prese in giro il primo uomo nascondendogli l’esistenza del bene e del male. Tra i defunti anche casi felici come un malato di cuore stroncato da un infarto nella sua unica ora d’amore dopo anni passati “a farsi narrare la vita dagli occhi” e la vicenda de Il suonatore Jones che dà il titolo al disco: una vita spensierata passata a suonare per strada e per gli amici senza curarsi di altro (“lui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo”). Difficile rintracciare connotazioni politiche, piuttosto ammalia ogni esperienza umana raccontata raffinatamente ma senza ipocrisie: il disco, scritto con Giuseppe Bentivoglio, è complesso dal punto di vista lirico per la ricchezza di sfumature umane ma reso memorabile dal punto di vista musicale grazie agli ottimi arrangiamenti di Nicola Piovani eseguiti da musicisti di alto livello.

Crêuza de mä (1984)

Celebrando Faber: tre album per cominciare a conoscere Fabrizio De Andrè 3

Un album che sembrava commercialmente concepito contro le regole del mercato conquistò invece critica e pubblico che ancora oggi lo considera un capolavoro inarrivabile. Quando con la fine degli anni ’70 si assiste ad un generale cambiamento sociale De André si mette alla ricerca di nuovi contenuti e nuove sonorità interessandosi alla musica etnica e alla world music, indagando soprattutto le proprie radici. Risultato di questa ricerca è un album cantato nella varietà ligure-romanza dell’antica Repubblica genovese, lingua apprezzata per la sua eterogeneità dovuta a secoli di commerci, scambi e viaggi. “Crosa” è un termine genovese che si riferisce a quei sentieri che portano in piccoli borghi marinareschi o nell’entroterra e Crêuza de ma (“Viottolo di mare”) allude ad un fenomeno meteorologico del mare che, sottoposto all’azione del vento, assume striature argentate simili a fantastiche strade. De André curò ogni testo in dialetto impreziosendo i quadretti di vita dedicati alla sua terra, mentre per le musiche e gli arrangiamenti fu assoldato il polistrumentista Mauro Pagani, ex membro della Premiata Forneria Marconi, che vi suonò mandolini e strumenti greci aggiungendo pure registrazioni di ambienti marinareschi o portuali – come le voci dei venditori di pesce al mercato ittico di Piazza Cavour a Genova –, conferendo così al disco quella tipica atmosfera mediterranea che si sposa magnificamente alle liriche dialettali in tema di mare, viaggi e nostalgie. In alcuni momenti sono le stesse parole a creare melodie folkloristiche come nella celebre title-track ma ogni canzone farà scuola, aprendo la strada a molti altri cantautori come Van De Sfroos, che sempre più si dedicheranno alla contaminazione della canzone d’autore con sonorità etniche.

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