Dal Taxi Blues di via Brembo Locali361 si sposta questa settimana in via Fantoli a Milano per raccontare il Fabrique di Daniele Orlando e le ultime novità

Locali361: Fabrique, la fabbrica musicale di Daniele Orlando

Il giovane ma già storico direttore Daniele Orlando, ha inaugurato nel 2014 il Fabrique di via Fantoli, moderna struttura di 3100 posti modulabili su oltre 2000 mq, pensata per ospitare concerti e dj-set ma anche eventi d’arte, moda e cultura. A Milano l’esperienza di Orlando è da sempre legata alla passione per la musica, da quando nel 1989 cominciò a lavorare come dj al Carisma in via Santa Maria Segreta, fino alla guida del leggendario Rolling Stone di corso XXII marzo nel 2000, quando a soli 22 anni venne assunto come direttore dal proprietario Maurizio Salvadori. É così che rilancia grazie al suo team quello che tra gli anni ’80 e ’90 fu considerato il tempio del rock milanese, proponendo nuove band indie come Roy Paci e i Bluebeaters o gli acerbi Muse e il compiano Chris Cornell, oltre ad eventi come «le serate hip-hop o il “P Gold” (il Pervert d’oro) che rappresentarono il mio primo approccio rispetto ai successivi dj-set internazionali».

Quando il Rolling Stone chiude nel 2007 infatti Orlando rileva gli allora falliti Magazzini Generali di via Pietrasanta e «facendo leva su un passato di tendenza ne rispolverai l’immagine portando a Milano artisti che, come David Guetta, si esibivano in discoteche tipo il Pacha di Ibiza. Sono rimasto legato nove anni ai Magazzini». La formula funziona bene al punto che «il locale non riusciva più a contenere certi numeri di presenze e per evitare ulteriori costosissimi affitti di sale più capienti, come sempre più spesso mi vidi costretto a fare per venire incontro agli artisti, decisi di cercare uno spazio mio». E così Orlando scopre in zona Mecenate un capannone industriale ex sede della Venus Distribuzione, il più grande distributore in Italia per le case discografiche, luogo già protagonista della sua adolescenza: «Finita la terza media venni a cercare lavoro proprio qui come magazziniere. Un vero segno del destino col senno di poi: alla fine ho deciso di comprare questo spazio anche per un valore affettivo».

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L’ex capannone viene inaugurato il 18 settembre 2014 e battezzato “Fabrique”: «Un viaggio a Parigi mi ispirò questo nome semplice e accattivante, nel quale si trova un chiaro riferimento al passato di ex fabbrica del mondo musicale, una ragione di marketing legata alla discoteca Fabric di Londra e un “invito” per eventuali affitti in occasione di feste aziendali, presentazioni di multinazionali e altre iniziative non necessariamente connesse ad un brand musicale. Il tutto arricchito da un logo molto bello: et voilà!»

L’ambiente, come il nome, è curato in ogni dettaglio: palco spazioso, pareti nere, due bar con beverage di qualità, un pavimento a tre livelli, un impianto audio e luci all’avanguardia. Non a caso il Fabrique ha vinto anche il premio ONstage Award 2015 come Miglior Club d’Italia, risultato, sottolinea Orlando, dovuto «non solo alla mia esperienza gestionale ma anche alla collaborazione di tutti i soci, promoter o presidenti di società che rappresentano la musica dal vivo in Italia. E chiaramente del team al mio fianco da 15 anni, anche se la persona che, più di altri, mi ha sostenuto in questa avventura è sempre stata mia moglie Fabiola, nota dj di Radio 105».

Politica del Fabrique  è «scegliere con fiuto, e in maniera trasversale rispetto ai generi, gli artisti migliori, senza mai sottovalutare niente e nessuno», regola alla quale Orlando, dopo anni di attività, continua a mantener fede considerato anche il recente accordo esclusivo di sponsorizzazione triennale con le radio del gruppo RadioMediaset, in base al quale i rispettivi marchi, insieme o individualmente, saranno presenti all’interno della venue e sui materiali di comunicazione. Paolo Salvaderi, AD di RadioMediaset ha spiegato che questo accordo «si inscrive in un processo di sviluppo delle nostre attività legate agli artisti e ai concerti che supportiamo e produciamo, perseguendo  l’obbiettivo di attestarci  promotori attivi di eventi e presidiare con i marchi delle nostre emittenti le location dove si fa musica dal vivo: a Milano abbiamo scelto il Fabrique, il luogo dove la musica si fabbrica”. Daniele Orlando con questo accordo ha ribadito dal canto suo l’approvazione della strategia della diversificazione dell’offerta al fine di creare un brand competitivo: «La naturale intesa con RadioMediaset, partner ideale in questo momento, porta al Fabrique tre emittenti di successo che si distinguono per la forte personalità e insieme per la varietà musicale: sono sicuro che si apriranno nuovi scenari interessanti per tutti».

La programmazione del Fabrique, che in questi anni ha visto in calendario nomi come Billy Idol, Club Dogo, Massive Attack, Luca Carboni e Mika presegue ai massimi livelli: dopo gli Sterophonics lo scorso lunedì presto Liam Gallagher, Macklemore, Guè Pequeno, Noel Gallagher’s High Flying Birds, Ben Harper, Sfera Ebbasta e Francesca Michielin. Il Fabrique è un locale accogliente non solo per concerti ma anche per  eventi come i djset live con Alan Walker, Galantis e altre star internazionali o serate a tema: dalla musica anni ’90 alla tecno-dance compresi i format di successo come Random, Mamacita, Twist and Shout! e la Night at San Junipero.

https://www.facebook.com/fabriquemilano/

Nel febbraio 1991 veniva pubblicato “Innuendo”, album che la critica dell’epoca non immaginava potesse diventare il canto del cigno della band di Freddie Mercury. La riscoperta di Musica361 per l’anniversario e non solo per i fan

“Innuendo”: riscoprire l’ultimo immortale capitolo dei Queen
La copertina di “Innuendo” (1991) con la grafica ispirata alle illustrazioni ottocentesche dell’artista J.J. Grandville

Il 1991 fu un anno che avrebbe regalato alla musica internazionale tanti album diventati vere pietre miliari, da Nevermind dei Nirvana a Dangerous di Michael Jackson, da Use your illusion I e II dei Guns’n’Roses a Blood Sugar Sex Magic dei Red Hot Chili Peppers, solo per citarne alcuni. Nel febbraio di quell’anno i Queen, ancora nella formazione originale, festeggiavano 20 anni di carriera e pubblicavano il loro 14° album di studio coprodotto con David Richards, Innuendo: dopo un periodo di canzoni pop-oriented quel disco avrebbe dovuto rappresentare una sorta di riscatto per la band inglese che aveva sentito, con la fine del decennio, l’urgenza di riscoprire il piacere della sperimentazione tornando all’energia rock degli esordi, pur sempre declinata secondo sonorità  contemporanee.

Appena pubblicato The Miracle (1989), cui per la prima volta non seguì alcun tour, nel marzo del 1989 la band si ritira ai Mountain Studios di Montreux: le nuove prove però proseguono a rilento sia per la promozione di The Miracle sia per la stanchezza del frontman attribuibile alla riscontrata sieropositività al virus HIV, poi conclamata in AIDS in quell’anno. Freddie è comunque determinato a fare musica per quanto le forze glielo concedano tenendo la malattia nascosta finché, nel novembre del 1989, quando riprendono ufficialmente le sessioni di registrazione per il nuovo disco nei Metropolis Studios di Londra, sente corretto rivelare le sue condizioni alla band. L’entusiasmo di Brian May, John Deacon e Roger Taylor non viene apparentemente intaccato da questa notizia e anzi la band si stringe attorno al suo leader “proteggendo” Freddie dalle illazioni della stampa e lavorando sodo: passano così l’intero 1990 a provare nuove canzoni nel tentativo di pubblicare il prossimo disco il prima possibile.

“Innuendo”: riscoprire l’ultimo immortale capitolo dei Queen 2
I Queen sul set del video promozionale “I’m going slightly mad” (1991)

Uno dei brani nato dalle prime jam sessions, che diventerà la traccia d’apertura, conferma subito una ricerca musicale completamente nuova: si tratta della solenne Innuendo, la Bohemian Rapsody degli anni ’90, epica mini suite dall’ andamento simile ad un bolero e caratterizzata da una contaminazione di stili, dall’hard rock delle strofe e del ritornello all’assolo di flamenco di Steve Howe – chitarrista degli Yes – con una sezione intermedia affollata da virtuosismi, tempi dispari e sovraincisioni, tra operetta e progressive rock.

In Innuendo melodia e testo estaticamente visionario sulla mortalità, così come nelle altre tracce dell’album, riflettono direttamente o indirettamente la difficile situazione che la band stava affrontando: ogni canzone, firmata da tutti i componenti, è venata dalla consapevolezza di giocarsi l’ultima carta, dall’esortazione a vivere affrontando ogni sfida in maniera esaltante (Ride the wild wind) alla rassegnazione nei confronti dell’inevitabilità (Don’t try so hard). Citazioni autobiografiche in I’m going slightly mad, con un testo composto da frasi senza senso scritte e pescate dentro una scatola dai quattro e riferimenti alle alterate percezioni psico-fisiche di Freddie, così come in These are the days of our lives, ultima canzone registrata ufficialmente dai Queen: una ballata nostalgica con cui Mercury si congeda con un commovente “I still love you”. Da segnalare sicuramente anche il gospel All God’s People che avrebbe originariamente dovuto far parte di un progetto solista di Mercury dal titolo provvisorio Africa by night, e la gilmouriana Bijou che descrive con una tastiera accennata e assoli acuti, languidi e penetranti della Red Special di May un momento di grande intensità. Interrompono la maestosità di questo ultimo affresco di carriera i divertissement pop rock di Delilah e I Can’t Live With You e un paio di brani rock come The Hitman e Headlong, inizialmente destinata al primo album solista di Brian May e poi registrata con i Queen dopo averla sentita interpretata da Mercury.

L’interpretazione che più sorprese May fu però quella di The show must go on, struggente poesia nata dalla penna del chitarrista e dedicata al suo compagno d’avventure. May dubitava che Mercury avesse potuto cantarla a voce piena considerate le tonalità molto alte: «Brian, che diavolo, vuoi farmi squarciare la gola?!», replicava sempre Freddie dopo i primi ascolti. Quando infine venne il momento di registrare Freddie si mise le cuffie guardò Brian e si posizionò di fronte al microfono. Prese un bicchierino di vodka, tracannò un sorso poi gli disse «Cazzo, ce la farò!» e spinse la sua voce a toccare tonalità mai raggiunte. L’Aids lo stava consumando ma non riuscì ad intaccare quella voce incantata, potente e cristallina: l’energia che vibra in quella registrazione probabilmente gli venne dalle forti emozioni che sentiva mentre intonava con retorica glam “Qualcuno sa realmente perché viviamo?” o “Dentro mi si sta spezzando il cuore, mi si potrebbe sciogliere il trucco ma il mio sorriso resiste ancora”. Il brano è ancora oggi un classico, testimonianza dello spirito immortale degli stessi Queen con quel ruggente invito a non arrendersi mai. Proprio come fece Mercury, che rimase coraggiosamente a lavorare con i suoi compagni, letteralmente “to the end of time”, prima di morire il 24 novembre del 1991 a 45 anni, meno di dieci mesi dopo la pubblicazione di Innuendo, premiato dalla prima posizione in classifica.

A oggi Innuendo, legato in ogni traccia all’ultima fase della storia della band, resta tanto un disco sorprendente per le condizioni in cui venne realizzato quanto un importante riferimento della musica pop moderna, a prescindere dai gusti. Molti critici oggi lo considerano uno dei dischi migliori dei Queen, parere confermato anche dall’accoglienza positiva della stampa del tempo. E a noi posteri rimangono molti dubbi: rispetto alle impietose recensioni che caratterizzarono la carriera della band, quanto influì in questo giudizio positivo la morte di Mercury? Che effetto avrebbero suscitato quei brani se fossero stati normalmente eseguiti dal vivo? E soprattutto dopo Innuendo quale sarebbe stato il sound della band? Non possiamo saperlo ma forse non avrebbero saputo rispondere neppure gli stessi Queen, semplicemente preoccupati da veri professionisti a fare musica di qualità. O forse, per dirla con un verso della loro canzone, avrebbero risposto: «Continueremo a sorridere / E sarà quel che sarà».

Dopo le atmosfere dark anni ’80 del Black Hole, Locali361 questa settimana vi fa riscoprire uno storico locale anni ’90 nato in viale Bligny e recentemente trasferitosi in via Brembo 23 a Milano: ecco a voi il nuovo Taxi Blues

Locali361: Taxi Blues
Gabriella Andreoli, socia di Enzo Todisco al bancone del Taxi Blues insieme allo staff ©Rita Cigolini 2018

A sud di Milano, di fronte all’ex Scalo Romana e poco distante dalla Fondazione Prada, ha aperto, o meglio riaperto nel 2017 il Taxi Blues, locale fondato nel 1992 in viale Bligny vicino all’Università Bocconi: «In vista di una generale riqualificazione che sta interessando questa zona abbiamo deciso di abbandonare la vecchia sede e trasferirci qui», racconta comodamente seduta al bancone Gabriella Andreoli, socia dello storico gestore Enzo Todisco. «Pare sia in progetto di costruire presto un ponte sopra i binari dello scalo in modo da agevolare il collegamento col centro, senza dover passare per corso Lodi. Enzo ha scoperto questa location, una ex palestra, e a febbraio 2016 abbiamo iniziato i lavori per sistemare la struttura, dal pavimento in legno alla cucina, che oggi si trova dove prima c’erano gli spogliatoi, e poi pian piano tutti gli ambienti».

Gabriella, che ha lavorato per anni per una nota compagnia aerea e ha da poco preso parte a questa nuova attività su proposta di Todisco, indica entusiasta una locandina sul bancone ricordando l’origine del nome, ispirato all’omonimo film russo vincitore di un premio a Cannes nel 1990: «Enzo ha scelto “Taxi Blues” perché, più che per il film in sé, gli piaceva l’accostamento di queste due parole a formare un nome che suonasse internazionale, con quel “blues” che richiama in qualche modo anche alla musica dal vivo».

Locali361: Taxi Blues, tornano gli anni ’90 con stile
Taxi Blues, interno © Rita Cigolini 2017

Todisco, forte della già consolidata nomea del suo locale e consapevole dell’importanza di un ambiente accogliente, è anche l’artefice del personalissimo allestimento: «Abbiamo voluto mantenere l’arredo e l’estetica dell’originale Taxi Blues, pur dovendo in qualche modo aggiornarci ai tempi». Colpiscono subito alla porta d’entrata le due luminose maniglie ricavate da un paio di gambe da tavolo e a terra, di fronte al bancone in stile jungle, un orologio di grandi dimensioni incastonato nel pavimento e perfettamente funzionante. Visitando poi gli spaziosi ambienti tra luci ed ombre si scopre uno stile variegato e composito che si distingue per la cura nei dettagli di modernariato: dai divani in pelle Chesterfield che formano tanti piccoli salottini alle sedie da tinello anni ’60, dal set di mazze da golf in un angolo ad una radio d’Antan e perfino, in un angolo, un’antica macchina per cucire. Numerosissimi i particolari tra retrò e contemporaneo, dal pavimento al soffitto, in una continuità stilistica ricercata ed elegante, costituita da materiale di recupero e vera creatività: «Ogni ambiente, dominato da tutto ciò che si ritiene meritevole di essere esposto secondo un gusto anticonformista e privo di schemi, è stato letteralmente realizzato dalle nostre mani come la colonna di ferro al centro della sala o la parete intrecciata di listarelle di legno e pelle, compresa la Smart dorata senza portiere che funge da divano in giardino».

Rispetto ad una certa stereotipia sicuramente il Taxi Blues è un locale in cui la scenografia non invita al mangia e fuggi, anzi «è un luogo dove potersi ristorare, prendere un aperitivo, ascoltare musica, chiacchierare o anche allestire piccole esposizioni d’arte, mostre e vernissage, oppure bere un caffè o un drink al tavolo mentre si utilizza il pc per lavoro o piacere, sfruttando anche gli spazi esterni quando il clima lo permette». Originariamente il locale aveva una clientela prevalentemente studentesca, oggi invece, aperto tutti i giorni dalle 7 del mattino alle 2 di notte, «consideriamo diverse fasce orarie e d’età, dalle famiglie che vengono per la classica colazione agli anziani. A pranzo offriamo diversi tipi di primi e secondi caldi ma anche tavola fredda con piatti unici o vegetariani, la sera invece happy hour e dopo cena hamburger, piadine patatine fritte e il tipico fast food. Per quanto riguarda il bar siamo già forniti di una bottiglieria completa ma vogliamo mettere a punto una drink list ancora più personalizzata».

Una delle sale del Taxi Blues presenta un grande palco per le serate dal vivo, anche se la programmazione, data la giovane età della location, è ancora in via definizione: «Al momento organizziamo un paio di serate a tema in settimana, ad esempio con comici emergenti o drag queen, ma stiamo pensando soprattutto ad appuntamenti fissi dedicati al jazz, al rock e ad altri generi, senza escludere anche dj set il sabato sera e una sorta di intrattenimento per il brunch della domenica». Work in progress anche per quelli che potrebbero diventare gli eventi targati Taxi Blues, inclusa una possibile collaborazione con la vicina Gelateria della musica: «Ci piace l’idea di averli accanto, non è esclusa la possibilità di realizzare qualcosa insieme a questo brand in futuro».

Il Taxi Blues è un locale “tutto vetrina” che, per diversi aspetti e soprattutto per la zona dove ora sorge, è pronto ad offrire tanto e presto, siamo sicuri, ne risentiremo parlare: «Il nostro sito è in allestimento ma potete già seguirci sui social. Oppure venite a trovarci di persona, soprattutto ora che si va incontro alla primavera».

http://www.taxibluesmilano.it/

https://www.facebook.com/taxi.blues.via.brembo/

Dopo il felice esito del talent milanese di San NoLo lo scorso anno e il primo singolo “Fade” Gabriele Muselli, 20 anni, lancia “Talking tree”. Progetti e riflessioni di un cantautore millennial nell’intervista per Musica361

Gabriele Muselli: “Talking tree”, il secondo singolo di un cantautore millennial
Gabriele Muselli

Gabriele, cosa significa essere un cantautore della generazione millennial?

«Per me significa voler mandare un messaggio senza usare whatsapp».

Quali sono le tue influenze o riferimenti musicali?

«Il mio gruppo preferito in assoluto sono i Twenty one pilots: spero di poter avere un futuro artistico con un seguito come il loro. Le altre influenze musicali sono tante: spazio dai Muse a Michael Bublè, da Ed Sheeran agli Slipknot».

Fade, il tuo primo successo, rivela una vena post-punk declinata con l’elettronica e un’interessante ispirazione lirica, soprattutto per la tua età. Come definiresti la tua musica?

«Per ora ho scritto solo quattro pezzi, quelli che formeranno il mio primo EP, a breve in uscita. Li definirei genuini, puri e ingenui».

Ho letto del tuo quaderno di appunti: generalmente come componi?

«Solitamente annoto frasi o testi che possano avere un’affinità o si prestino a giochi di parole, in seguito cerco di abbinarli a dei riff o giri di accordi che registro con il cellulare. Il 90% delle volte è un mezzo fallimento, se sono arrivato qui però è grazie a quel 10%! Ultimamente sto provando a constatare quanto possa cambiare il risultato invertendo le fasi della “catena di montaggio”».

Perché la scelta di cantare in inglese rispetto alla tua lingua?

«Non sono madrelingua però l’inglese é molto più musicale e universale, mi sento più libero di esprimermi senza preoccuparmi che alcune frasi possano risultare brutte o banali, come probabilmente risulterebbero se cantate in italiano. Non ho pregiudizi verso l’italiano, però riesco ad apprezzarlo solo nel rap o cantato da certi artisti, ad esempio Calcutta».

Hai dichiarato: “Le mie canzoni sono un aiuto ma anche una richiesta di aiuto”. Una richiesta di aiuto per salvarsi da cosa?

«Una richiesta d’aiuto per cambiare e migliorare certi aspetti della mia vita. Sono più che convinto di non essere l’unico a sentirmi “pieno di vuoto” pur avendo tanto dalla vita. Di certo la fama e i soldi non sono la soluzione a questo genere di problemi ma sono sicuro che condividere questo disagio con più persone possa aiutarmi a gestirlo meglio».

Hai dichiarato: “Non mi piace la deriva impersonale dei pezzi di oggi. Mi dispiace a volte restare deluso (da alcuni artisti)”. Questa “deriva impersonale” di cui parli, a tuo giudizio, dipende più dalla creatività degli artisti o da un mercato omologato?

«Dipende da diversi fattori. Senza sfociare nella filosofia intendo dire che la gente oggi sempre più spesso cerca il suo quarto d’ora di fama attraverso la musica. Non ritengo obbligatorio uscire dal Conservatorio per essere definiti musicisti, un vero artista deve saper comunicare con propri mezzi un messaggio. Il punto è che oggi, molti di coloro che fanno musica, comunicano alle mie orecchie messaggi “omologati”. E credo che in parte sia da attribuire ad un effetto collaterale della massificazione tecnologica. Non posso biasimarli comunque: quando ti rendi conto che chiunque può avere likes, views e di conseguenza soldi grazie ad un semplice pc vuoi dirmi che non ci proveresti anche tu? Inevitabilmente però questa disinvoltura influisce anche sui contenuti».

Sei ancora studente di belle arti: come ti vedi tra 10 anni e che responsabilità dai alla musica?

«Non ne ho la più pallida idea! Mi piacerebbe ovviamente avere un futuro nella musica ma se dovesse “andare male” continuerò a suonare comunque, con la consapevolezza di aver provato a combinare qualcosa di troppo grande rispetto alle aspettative di un ragazzo di provincia. La musica farà sempre e comunque parte della mia vita: “I’ll find my way through night and day”».

Gabriele Muselli: “Talking tree”, il secondo singolo di un cantautore millennial 1
Copertina del singolo “Talking Tree”

Il tuo ultimo singolo è Talking tree: c’è un legame con Fade?

«Nessun legame voluto a parte il fatto di esserne io l’autore. Fade parla di problemi esistenziali e domande che non avranno risposta, Talking Tree è la storia di mio padre in un periodo della sua vita».

Come è nata Talking Tree?

«Stavo chiacchierando con mio padre e lui mi raccontò del periodo in cui mia nonna (sua madre) era ricoverata in ospedale, prima che ci lasciasse. Mi confessò che era talmente solo in quel periodo che, per sfogarsi e non essere giudicato, parlava ad un albero imponente vicino all’ospedale, lo vedeva come una persona anziana con grandi orecchie disposta ad ascoltarlo senza proferire parola: gli parlò di sua madre, del lavoro e anche di me. Era talmente preso dal suo racconto che mi colpì molto questa vicenda: mi diede abbastanza spunti per scrivere una canzone, quando arrivai a casa misi in rima tutto quello che mi aveva detto. Poi ho “solo” finito il tutto, che è sempre la parte più difficile».

Forse è ancora presto ma mi incuriosisce sapere se senti che la tua dimensione ideale sia più su un palco o in una stanza a comporre.

«Hai ragione, è troppo preso per saperlo. Suonare ciò che ho scritto e sentirlo cantare anche solo da un amico nel pubblico è sicuramente una sensazione magnifica. Magari in futuro scriverò canzoni per gli altri o la musica diventerà solo un passatempo. Oppure, me lo auguro, diventerò una star internazionale! Chi vivrà vedrà!»

Talking tree (2018)

https://www.youtube.com/watch?v=1MnRuaIcJKc

Locali361 vi presenta il Black Hole, storico locale milanese ispirato ad atmosfere spaziali e oggi moderna location ma non solo per gli affezionati degli anni ‘80

Locali361: un viaggio nel Black Hole di viale Umbria
Nicola Brioschi (Foto © Rita Cigolini)

Nell’area che originariamente ospitava la storica azienda dell’amuchina in viale Umbria nasce nel 2000 il Black Hole le cui iniziali dimensioni comprendevano solo l’attuale “sala Login” priva di palco. Gli articoli di giornale dell’epoca lo descrivono come “il locale degli alieni”: i proprietari, appassionati di nebulose ed extraterrestri, realizzarono un ambiente dark caratterizzato da una sorta di gabbia creata con pali innocenti e un impianto piuttosto arrangiato in stile spaziale, con un dj che programmava la musica da una piccola astronave sospesa a mezz’aria sopra il pubblico. Qualche settimana dopo mette piede nel locale quello che, dopo anni di attività, diventerà l’attuale direttore artistico, Nicola Brioschi: «Nasco come dimostratore della Pioneer, fonico e parallelamente come piccolo dj prodigio e animatore. Una sera passai al Black Hole a lavorare con un amico dj e mi piacque tanto che dal gennaio 2001 entrai nel loro team: per prima cosa inventammo l’“Happy blues hour”, il primo happy hour con band blues e jazz, un abbinamento allora inedito per Milano».

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Sala dei Leoni

Anche il Black Hole risentì del passare del tempo e delle mode perdendo a poco a poco la sua originaria estetica, cedendo ad un processo di standardizzazione minimal dei locali, sempre più necessitati ad adattarsi ad ogni evento e brand: «Il locale si è allargato annettendo l’area inutilizzata dell’attuale sala dei Leoni e l’area esterna dell’estivo: la maggior parte degli spazi poi sono stati coperti ottenendo tre sale diverse. Fondamentalmente il locale si divide in due zone: una neutra di colore bianco con piante, colonne e illuminazioni da giardino adibita a spazio eventi e una parte interna più clubbing di colore nero con specchi, laser e luci. Diverse le situazioni possibili per una capienza ufficiale di circa 1500 posti: nel panorama dei locali milanesi il Black Hole si può certamente definire polivalente».

Il Black Hole offre tre palchi che possono ospitare qualsiasi evento musicale, tanto che, nonostante la difficoltà nel gestire la musica dal vivo di questi tempi, continua ad essere uno dei locali milanesi che gode di buona fama anche presso i musicisti: «Conoscevo Raul Rekow storico percussionista della band di Santana che ai tempi del tour di Supernatural (1999) mi chiese di usare il locale come sala prove. Fecero un concerto non pubblicizzato: ricordo ancora la gente che durante l’happy hour ascoltava quella “band talentuosa” senza sapere chi fossero». Soprattutto il locale è apprezzato da buona parte di artisti, band e dj anni ’80: «Tutt’oggi se frequenti il Black Hole in una serata dark o rock può capitare di incontrare Kee Marcello degli Europe, nostro affezionato cliente in ogni soggiorno milanese ma anche Donatella Rettore, Ivan Cattaneo o Andy dei Bluvertigo». Fino a qualche anno fa esisteva una programmazione musicale caratterizzata tutta la settimana da serate dark a gay-friendly, oggi invece il locale apre solo il venerdì e il sabato oppure su prenotazioni di eventi: «Abbiamo mantenuto “La notte noir”, nostra storica serata dark e new wave che proponiamo da 18 anni oppure il “So’80” evento ispirato agli anni ’80 più alternativi, pur non potendo più garantire un appuntamento fisso: viviamo di tante “one night” comunicate attraverso facebook o ancora meglio tramite passaparola dato che oramai i nostri clienti, da avvocati in giacca e cravatta a nostalgici dark, sono fidelizzati».

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Sala Colonne

Da social e web pare confermata per il Black Hole la mancanza di un target di riferimento dato che, a seconda degli eventi, viene definito come locale commerciale per ragazzini, per rocchettari, per gay, dove si organizzano solo feste o come classico localaccio live anche se, prevalentemente nelle serate dark o rock, il pubblico può oscillare anche dai 40 ai 60 anni, la vecchia clientela appunto: «Il Black Hole è uno dei locali storici di zona e di Milano, siamo una famiglia, ci conosciamo quasi per nome. Siamo tutte persone pulite, l’unico vizio che abbiamo sono solo le sigarette». A prescindere dall’eventuale catering privato di ogni evento, il locale è fornito anche di una bottiglieria completa e di buona marca: «Non ci interessano sottomarche o magheggi stile anni ’90, siamo molto attenti alla qualità dei drink. Molti storici clienti ricordano ancora il nostro cocktail di punta, Donna Elena, un analcolico a base di frutta creato apposta per chi volesse bere senza avere problemi con l’alcool test. Ultimamente stiamo lavorando per offrire presto anche la cucina calda».

Il Black Hole, disponibile 7 giorni su 7 per eventi privati, compresi quelli del venerdì e sabato, è il classico locale da 365 giorni l’anno ma, a differenza di altri con un’area per l’estate e una per l’inverno, «noi possiamo permetterci entrambe in ogni periodo dell’anno avendo tutti gli spazi limitrofi al giardino riscaldati e climatizzati. Oggi non si balla più sotto le stelle come una volta ma con l’aria condizionata, però c’è la possibilità di avere un giardino di palme al coperto utilizzabile anche d’inverno come zona fumatori, così la clientela non è costretta a spostarsi in strada. Difficile trovare a Milano uno spazio del genere».

www.blackholemilano.com

www.facebook.com/blackholemilano/

Festeggerebbe oggi 79 anni Giorgio Gaber: Musica361 ha voluto ricordarlo attraverso la testimonianza del musicista e drammaturgo Gian Piero Alloisio, stretto collaboratore e recente autore del libro “Il mio amico Giorgio Gaber”.

Gian Piero Alloisio, intervista all'autore del libro Il mio amico Giorgio Gaber
Gian Piero Alloisio, musicista e autore del libro “Il mio amco Giorgio Gaber” (Utet, 2017)

Già collaboratore di Francesco Guccini, Gian Piero Alloisio ha lavorato a stretto contatto con Giorgio Gaber dalla fine degli anni ’70 e nel libro Il mio amico Giorgio Gaber (2017) ha tracciato un ritratto umano dell’artista milanese, testimonianza mancante nel mosaico gaberiano: «Dopo anni e senza retoriche nostalgie ho sentito la necessità di raccontare Giorgio non tanto come artista, dato che oggi chiunque può “conoscerlo” tramite YouTube, ma come uomo». Ne nasce il ritratto di una persona allo stesso tempo rigorosa e folle, molto interessata all’umanità che osservava e poi riproponeva ironicamente nelle sue sperimentazioni teatrali e culturali: «Gaber, sia come artista che come uomo, non lasciava mai cadere una discussione in chiacchiere banali, trovava sempre uno stimolo degno di essere approfondito, in modo che ogni spunto potesse trovare la maniera migliore di essere estrinsecato e quindi raccontato in modo universale». Quelle sue spettacolarizzate riflessioni sulla nostra vita riguardavano sempre il presente e mai la cronaca in sé come invece spesso accade oggi: «L’attualità veniva sempre filtrata da considerazioni sulla condizione umana, era questo il tipo di ricerca che seguiva con Luporini». Al contrario il Gaber mitizzato sul palco si discostava umanamente da quell’immagine rigorosa che si sarebbe potuta sospettare: «Dietro quella sua mitezza borghese e riflessiva si celava una vena di follia che lo rendeva simpaticissimo. Osava molto, tanti sono i momenti ludici che ricordo».

Nel libro Alloisio lo definisce “maestro generoso e artista severo”: «Aveva entrambe queste componenti ma soprattutto sapeva rendere la vita piacevole ai suoi collaboratori. I miei musicisti, provenienti dal gruppo Assemblea musicale teatrale che hanno accompagnato prima Guccini e poi Gaber, dopo la morte di Giorgio hanno ripreso ad esibirsi con me nello spettacolo “Il mio amico Giorgio Gaber” (2013) e quello che ricordiamo sempre sono proprio i momenti di una vita felice e sempre affascinante che abbiamo condiviso con lui».

Tanti sono gli episodi riportati nel libro, con la moglie Ombretta Colli o con colleghi come Battiato e Guccini fino all’ultimo incontro con Alloisio a Genova nel 1994 quando «la nostra collaborazione si interruppe a seguito di alcuni attriti». Dopo l’esperienza gaberiana Alloisio si trasferisce per alcuni anni a Parigi e proprio in Francia nella primavera del 2002 legge, con grande emozione e stupore, una delle ultime interviste di Gaber sul Corriere della sera: «Intervistato da Gad Lerner rispose: “Come dice il mio amico Alloisio non temo il Berlusconi in sé ma il Berlusconi in me”, citando il verso di una mia canzone. Quello stesso giorno mi telefonò e quando risposi mi disse: “Te l’ho fatta la sorpresa!” Sapeva che non avrebbe vissuto ancora a lungo e non voleva che rimanesse qualcosa di teso fra di noi. Sono veramente orgoglioso di quella citazione, non solo per il successo che ha avuto ma soprattutto per la sua stima, una vera fortuna sia umana che artistica. Quella fu l’ultima volta che ascoltai la sua voce. Non ho mai fatto in tempo a dirgli che nonostante tutto è stato fantastico ogni minuto passato con lui, anche quelli meno belli».

Gian Piero Alloisio, intervista all'autore del libro Il mio amico Giorgio Gaber
Locandina dello spettacolo “Il mio amico Giorgio Gaber” (2013)

In questo momento storico di cambiamento e instabilità sociale e politica molti si chiederebbero cosa Gaber avrebbe dichiarato o che altre canzoni avrebbe scritto sulla nostra contemporaneità. E soprattutto quest’anno che ricorre l’anniversario del ’68, proprio a lui che aveva intitolato il suo penultimo disco La mia generazione ha perso (2001), sarebbe stato interessante chiedere un preciso parere: «Conoscendolo, credo che avrebbe ribadito quanta speranza avesse riposto nei figli della sua generazione auspicando un indirizzo completamente diverso da quello dei padri. Purtroppo invece nel corso della vita aveva visto proprio quei figli della borghesia sessantottina, soprattutto milanese, assumere i ruoli dei padri. La generazione precedente era stata segnata dalla guerra e quella del ’68 sognava pace, libertà e un sistema democratico che avesse potuto superare il fascismo, il comunismo e la democrazia cristiana ma alla fine è rimasto un sogno. L’attenuante è che quello era un periodo talmente creativo sotto ogni aspettativa che non si poteva fare a meno di sperare di realizzare quel sogno. Guccini, benché mi confidasse sempre che la persona che stimava di più dal punto di vista artistico fosse Gaber, sosteneva che Giorgio si sbagliasse. Io invece credo che in questo caso avesse ragione Gaber: non abbiamo proposto un mondo tanto diverso da quello che abbiamo voluto cambiare. Per non parlare del futuro verso il quale stiamo andando incontro».

Tanti gli spettacoli e le canzoni che i due hanno composto insieme ma Alloisio ne porta in particolare due nel cuore: «Quella che più ci siamo divertiti a scrivere insieme è stata La strana famiglia, una tarantella comica esempio di scrittura spontanea, nata in un camerino del Teatro Giulio Cesare di Roma. La canzone invece che canto sempre con emozione è Non insegnate ai bambini, l’ultima che ha composto con Luporini e registrato nel 2002: ha la semplicità e la maestria delle prime ma con un contenuto più potente, come se dal primo Gaber all’ultimo ci fosse un legame accresciuto dall’esperienza di una vita. Note semplici e grande pathos, un piccolo capolavoro».

Giorgio Gaber è stato così unico che non ci sarà più un altro “Giorgio Gaber”? «Per qualche strano motivo non riusciamo più ad essere persone integre come lo è stato Gaber o in maniera diversa De André o Pasolini, personaggi che si giocavano tutto per la loro vita e la loro reputazione. È accaduto qualcosa che ha inibito questa esposizione coerente nei confronti della vita. Così come nella musica: non sono contro il mercato discografico ma mi inquieta sempre vedere talenti che alludono all’energia antica di certi artisti a cui non si dà spazio ma che la gente, sono certo, oggi apprezzerebbe. Non so perché ma avverto una rassegnazione o una paura di fronte al bisogno di uniformarsi: per questo credo che in qualche modo nessuno oggi, pur apprezzandone l’approccio e lo stile, vorrebbe o potrebbe essere ancora come Gaber. Un altro motivo per rimanere unici».

Non insegnate ai bambini (2003)

https://www.youtube.com/watch?v=YGQasPOTpWU

Andrea Pontiroli, uno dei responsabili di Santeria Social Club ha raccontato a Locali361 tutte le caratteristiche di questo locale polifunzionale nato in via Paladini e ampliatosi dal 2015 nella sede di viale Toscana a Milano.

Santeria Social Club Milano, intervista a Andrea Pontiroli
Andrea Pontiroli nella sala interna del Santeria Social Club (Foto © Rita Cigolini).

Santeria è il nome di una società fondata nel 2010 da 15 operatori culturali la cui prima sede storica nasce e si trova tutt’oggi in via Paladini 8: uno spazio di 500 mq con giardino, un negozio di vinili, un bistrot, una sala musica-eventi per presentazioni di libri, dischi, showcase e uno spazio coworking con uffici dedicati alla grafica e al design. La fama legata ad attività ed eventi si sviluppa nel tempo e nel 2005, a seguito della vincita di un bando, viene assegnato alla società lo spazio di un ex concessionario abbandonato in viale Toscana 31: «Il nostro progetto di riqualificazione prevedeva una sala bistrot, un teatro per concerti, uno spazio atelier e una scuola di formazione con corsi dedicati al mondo della musica e dello spettacolo: tender bar, digital marketing e comunicazione musicale, tour manager, produzione musicale e attività collaterali. Dopo l’apertura del bar il 9 novembre 2015, abbiamo a poco a poco realizzato tutto quello che avevamo previsto, così è nata Santeria Social Club», argomenta Andrea Pontiroli, uno dei soci.

Santeria Social Club Milano, intervista a Andrea Pontiroli
Santeria Social Club, viale Toscana 31 (Foto © Rita Cigolini).

“Santeria” è un termine storicamente coniato dai dominatori spagnoli per denigrare quella che pareva un’eccessiva devozione ai santi da parte dei loro schiavi sudamericani ma il motivo per cui è stato scelto come nome rimane segreto: «Sicuramente ci piaceva molto l’immaginario evocativo di questo nome ma non vogliamo rivelare la vera motivazione (sorride)». Spiega così Andrea, nato batterista e oggi amministratore di Santeria: «Ho cominciato come stagista per un’agenzia di booking musicale e nel 2003 ho aperto una mia piccola attività con la quale ho avuto l’opportunità di sviluppare dal 2005 il progetto del circolo Magnolia presso l’Idroscalo insieme al collega Riccardo Negri, oggi responsabile di Santeria in via Paladini. Ho lavorato parallelamente col circolo fino al 2013 e con l’agenzia fino all’anno scorso: oggi gestisco il management di Santeria, organizzazione interna e comunicazione».

Mentre la Santeria di via Paladini nasce come locale intimo e “home made”, «per Santeria Social Club ci siamo rivolti ad uno studio di architettura che si occupa di grandi aziende: rispetto all’oscurità di altri locali volevamo invece che il nostro spazio fosse sempre luminoso, accogliente e ben organizzato dato che siamo aperti dalla mattina alla sera 7 giorni su 7». Santeria Social Club è un locale pensato per un pubblico di ogni ora: «Abbiamo lavorato su nuovi format per valorizzare l’aspetto aggregativo, spingendoci oltre il concetto del classico locale-club in cui si viene solo perché “suona quel gruppo”». Escluse cover band o generi di nicchia, la programmazione musicale dal vivo viene vagliata da uno staff di tre direttori artistici aperti a diversi generi e non solo: «Abbiamo appena concluso una rassegna di musica classica ma il sabato sera qui si può anche venire a ballare. La politica è che il teatro sia aperto quando riteniamo opportuno aprirlo, non necessariamente tutti i sabati sera. Questo lo differenzia da altri locali». Entrando nello specifico della programmazione musicale il mercoledì in viale Toscana e il venerdì in via Paladini si tiene la rassegna “Jazz in the corner”, «così come è rispettivamente prevista una serata anni ’30 dal titolo Grande Gatsby e Piccolo Gatsby e un giorno al mese viene dedicato alla musica hip hop in vinile a cura Bassi Maestro & Dj Filo. Selezioniamo anche serate nel mondo clubbing milanese per realizzare in Santeria degli appuntamenti “special edition” come “Rollover meets Santeria”. È stata una bella esperienza anche quella con Piano City, JazzMi o Reverso Festival la manifestazione che organizziamo insieme a Le Cannibale alla riscoperta dell’archeologia musicale italiana».

Santeria Social Club Milano, intervista a Andrea Pontiroli
Cortile esterno della Santeria di via Paladini, 8 (Foto © Rita Cigolini).

Santeria Social Club e Santeria Paladini vogliono però essere luoghi in cui persone interessate a stessi argomenti, non esclusivamente dal punto di vista musicale, possano incontrarne altre affini, «come per l’aperitivo matematico o Pint of Science durante i quali si parla di matematica e scienza davanti ad una birra. Prevista poi una volta al mese una serata di stand up comedy, dibattiti e talk su politica, musica e sociale con esperti di settore: nel prossimo appuntamento della serie Buzz parleremo con gli organizzatori del Great Escape Festival di Brighton analizzando precise case history. Sono tipologie di incontri che secondo me mancano anche in università».

Questo tipo di eventi, la presenza del wi-fi e la possibilità di lavorare a pc ristorandosi qualificano l’essenza smart place di Santeria Social Club, generalmente frequentata da un pubblico che va dai 25  ai 45 anni: «È un luogo confortevole per leggere, studiare e bere bene anche di giorno. Abbiamo un american cocktail bar con una vasta scelta di alcolici, tra whisky, amari e gin. I nostri cocktail prevedono una preparazione più lunga e accurata ma vengono selezionati da una bottiglieria di alto livello: il nostro slogan è “Bevi bene o non bere!” E le persone lo apprezzano: non conta tanto il drink di punta quanto trovare al bancone baristi che sappiano soddisfare i clienti a seconda della giornata, anche con qualcosa che non si è mai provato». Un ambiente in cui godere sottofondi musicali e buon cibo anche a pranzo: «Il nostro business lunch non prevede primi o secondi ma una cucina internazionale in stile street food: sia in viale Toscana che in via Paladini, Santeria fa soprattutto rima con hamburgeria e con una selezione di piatti unici come tapas, burritos o fish and chips. Molto apprezzati anche i brunch del sabato e della domenica». Attività, corsi, servizi e concerti sono godibili dalla primavera in poi negli spazi aperti di via Paladini e in quelli autunnali in viale Toscana, anche se non è detto che restino necessariamente appuntamenti fissi: «Siamo sempre in evoluzione, spero che l’anno prossimo i locali possano cambiare ancora e migliorare, persino nei dettagli».

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Avrebbe compiuto domani 75 anni Janis Joplin, la leggendaria cantante americana simbolo di una generazione: il ricordo di Musica361, per chi l’ha vissuta e per chi ancora non la conosce.

Janis Joplin, il ricordo di Musica361 della cantante americana
Janis Joplin.

Se non avesse passato da sola quell’ultima notte del 4 ottobre 1970 nella stanza di un desolato motel a Hollywood probabilmente avrebbe cantato ancora e dopo quello che è stato il suo ultimo disco, Pearl (1970), avremmo ascoltato altri pezzi memorabili. Si sarebbe verosimilmente esibita dal vivo numerose altre volte, anche nel nostro paese, e avrebbe collaborato con artisti contemporanei o magari li avrebbe prodotti. Oppure si sarebbe ritirata, avrebbe lasciato alle spalle quella vita e abbandonato la musica per dedicarsi ad altro. Non lo sapremo mai. Quello che è certo è che il destino, 48 anni fa, ha deciso di consegnarla definitivamente alla storia non solo come la prima artista a imporsi in quel virile mondo rock’n’roll ma anche come membro del funesto “Club dei 27” dopo Brian Jones e Jimi Hendrix.

Sebbene, come loro e molti altri, scomparve immaturamente in quell’età in cui solitamente si comincia a vivere, per lei la morte segnò solo la fine di una carriera terrena ma la consacrazione immortale come “voce femminile più blues della storia del rock”, di quel blues ancora considerato ai suoi tempi “la musica dei neri”, quella ispirata al dramma della segregazione, tanto più in quel Texas tradizionalista e bigotto dal quale lei, bianca, proveniva.

Ball & Chain (Monterey Pop Festival, 1967)

Per Janis, «una di quelle normali strane persone» come amava definirsi, il blues ha rappresentato fin da adolescente una sorta di terapia al suo profondo male di vivere, un vero conforto fin da quando a scuola veniva esclusa e bullizzata proprio per la sua eccentricità. Grazie a quella musica e al canto scoprii un modo per esorcizzare la sua fragilità e trovare riscatto: «Sul palco faccio l’amore con 25 mila persone. Poi torno a casa sola». Aveva una concezione autenticamente hippie e romantica della musica: «Essere un’intellettuale crea molte domande e nessuna risposta. Puoi colmare la tua vita con idee e continuare a tornare da sola a casa. Tutto quello che hai e che importi veramente sono i sentimenti. Questo è la musica per me».

Summertime (Francoforte, 1969)

E questo approccio genuino ancora oggi traspare non solo dalle interpretazioni dei suoi quattro album, due con la Brother and the Holding Company e due da solista, ma soprattutto dalla testimonianza delle sue storiche esibizioni come quella al Monterey Pop Festival del 1967 e Woodstock 1969, con le quali si è guadagnata un posto di rilievo nell’immaginario rock.

Piece of my heart (Woodstock, 1969)

Artista sgraziata eppure sex-symbol, simbolo dell’emancipazione femminile eppure insicura al punto da cercare consolazioni artificiali nelle droghe per riuscire a sopportare quelle sue relazioni travagliate se non fallimentari con uomini e donne, finì per autodistruggersi morendo «di overdose di Janis» come avrebbe dichiarato Eric Burdon degli Animals commemorandola.

Molti si chiederanno oggi in che modo avrebbe festeggiato i suoi 75 anni, lei che nel 1995 è stata inserita nella Rock and roll hall of fame, insignita nel 2005 del Grammy Award alla carriera e classificata 28° da Rolling Stone tra i 100 cantanti più importanti di tutti i tempi nel 2008. Sarebbe sopravvissuta al suo mito? Difficile immaginarselo oramai dato che nessuno sarebbe più abituato a vedere invecchiata quell’artista diventata icona e più di tutto quella voce, capace di sprigionare in ogni interpretazione quella inconfondibile, sofferta e intensa vitalità apprezzata da tante generazioni. Quella stessa voce che ammoniva «Devi prendere quello che hai finché sei in tempo. Puoi distruggere il tuo presente preoccupandoti del tuo domani», senza nemmeno presagire cosa invece il futuro le avrebbe ancora riservato.

Cry baby (Live)

Non è un ristorante e non è una sala ma si può assaporare buon cibo e gustarsi musica e spettacoli: Locali361 vi porta alla scoperta di DicoCibo, una di quelle “anime nascoste milanesi” come definite da Alberto Oliva

DicoCibo Milano: mangiare e vedere spettacoli
Ingresso del locale DicoCibo in via Antonio Cecchi © Rita Cigolini

In via Antonio Cecchi a Milano, in una zona né di passaggio né di passeggio persino esclusa da quel movimento di rinascita della città durante Expo, dove fino al 2004 circa esisteva una vecchia trattoria milanese si trova oggi un moderno locale chiamato DicoCibo: «Le mie socie ed io avevamo intenzione di “alimentare” un progetto basato sulla ristorazione che non fosse classicamente inteso e quando abbiamo scoperto questa struttura abbiamo pensato che fosse il posto giusto. Non è stato facile persuadere i proprietari dell’immobile che scoraggiati non avevano più voluto affittare ma a me e alle mie socie piacciono le sfide» spiega Roberta Spagnoli, una delle responsabili.

Roberta nasce professionalmente come copywriter e, come le socie Chiara Guarnerio che è account e Silvia Scalzi art director, viene dal mondo della comunicazione: «Abbiamo lavorato insieme dal 1988 in una delle più grandi agenzie italiane di comunicazione poi nel 1995 abbiamo deciso di metterci in proprio creando una nostra piccola società del settore, La Ditta». Appassionate di cucina prima ancora che ne dilagasse la moda, pubblicano sotto il nome della loro società il libro Non è vero che tutto fa brodo (Guido Tommasi, 2007) finalista al premio bancarella e uno dei racconti in esso contenuti, Flan di carote, diventa persino una pièce teatrale: «Andò in scena all’Out Off nel 2010 grazie a Giorgio Centamore: un atto si svolgeva a teatro e l’altro al ristorante, è stato uno dei primi esempi di teatro-cucina». Scritto il libro e messo in scena uno spettacolo a quel punto è stato naturale, come passo successivo, “mettere le mani in pasta”: «Nel 2011 abbiamo finalmente dato vita a DicoCibo, volendo specificare con questo nome un richiamo alla comunicazione autentica a tavola, lontano da denominazioni come “food” o titoli poco comprensibili. E non solo».

DicoCibo Milano: mangiare e vedere spettacoli
Da sinistra Chiara Guarnerio, Silvia Scalzi e Roberta Spagnoli, le responsabili di DicoCibo © Rita Cigolini

Solo 35 posti a sedere in un unico ambiente per gustare buon cibo secondo la filosofia del “mangiare assaporando” in un luogo di spiccata convivialità contrario al concetto di fast food: «Siamo aperti dal lunedì al venerdì a pranzo ed è difficile fare il doppio turno perché i clienti si trattengono volentieri a lungo. É come essere a casa propria, per questo funzionano molto anche eventi e feste private a misura di festeggiato». Una gradevole scatola bianca modulabile, capace di diventare una pista da ballo con buffet o un luogo per cene aziendali: «Il locale è stato appositamente creato da una architetto e il motivo del pannello all’entrata, che si ripete anche sulle tovagliette o in altri dettagli, è stato creato da una scenografa della Scala ma il gusto grafico viene da Silvia, il nostro art director». Nella sala, con un piccolo palco sul quale si trova un tavolo bianco stile chippendale e sul soffitto dei lampadari della lightning designer Adriana Lohmann, niente bancone da bar per aperitivi o cocktail piuttosto, vicino ad una delle due vetrine, un grembiule appeso con la scritta “Più cibo e meno food”, a ribadire il concetto di “meno elaborazioni da masterchefismo”: «Il nostro menù è costituito da piatti della tradizione ma rinnovati da qualche abbinamento gustoso. Quello che non manca mai alla carta è un piatto col baccalà presentato in tante varianti: in questo periodo proponiamo baccalà mantecato ma spaziamo dalle ricette estive con abbinamenti alla frutta a quelle più invernali ad esempio con pasta e ceci e poi vellutate o lasagne con granella di amaretti sopra o un risotto alla zucca in stile mantovano con una pallina di gelato al gorgonzola».

Ogni giovedì sera invece l’attenzione si sposta dalla tavola al piccolo palcoscenico, caratterizzato da una lavagna, fondale sul quale si può scrivere e creare quello che si vuole: «Abbiniamo alla cena uno spettacolo e, tanto per ribadire il “Dico” del nostro nome, non presentiamo solo progetti musicali stile swing e jazz ma anche voci interessanti come Rossella Bellantuono, Ilaria Prenolato e Gigi Cifarelli insieme a storytelling, presentazioni di libri e prove teatrali originali come i monologhi di Maria Pilar Pérez Aspa o il cabaret di Claudio Batta e Alessandra Faiella e il teatro di imporvvisazione di Isabella Cremonesi». Tra i progetti da non perdere Luca Chieregato, attore-autore teatrale, che l’anno scorso ha tenuto anche dei corsi di scrittura nel fine settimana, e si è inventato un ruolo di cantastorie: «Un giovedì al mese davanti ad una minestra calda racconterà delle favole da lui scritte. In cantiere anche un progetto di storytelling con Stefano D’Andrea, figlio del jazzista Franco D’Andrea e Bianca Boriello. La nostra programmazione riprenderà il 25 gennaio».

DicoCibo fa parte di quel mondo identificato da Alberto Oliva nella guida “Le anime nascoste” che individua a Milano una serie di locali non catalogabili come sale teatrali, caffè letterari o librerie: «Ci ritroviamo in questa definizione, anche noi ci sentiamo “anime nascoste”.  Abbiamo lanciato questo seme credendo che poi avrebbe completamente sostituito la nostra originale attività di comunicazione, poi invece abbiamo capito quanto siamo multitasking, proprio come questo progetto continuamente soggetto ad evoluzione».

http://www.dicocibo.it/

https://www.facebook.com/Dicocibo-190827810938942/

 

Musica361 ha intervistato Mauro Marino, storico conduttore radiofonico oggi ai microfoni di Radio Italia ma anche personaggio televisivo e direttore artistico di Casa Sanremo. Le riflessioni di un professionista di settore sulla musica italiana all’alba del 2018 ma soprattutto a un mese dall’inizio del festival di Baglioni

Intervista a Mauro Marino, dalla radio a Casa Sanremo
Mauro Marino “on air” a Radio Italia © Rita Cigolini

Mauro Marino vanta un curriculum di tutto rispetto tra radio, tv e teatro ma l’etichetta di conduttore radiofonico è sicuramente quella più calzante: «Il mio primo annuncio in una radio nazionale fu per l’edizione notturna di RTL a fine anni ’80. Negli anni ho cambiato diverse emittenti ma gli ascoltatori mi hanno sempre riconosciuto: a RDS ero “Marino il bagnino”, a Radio101 ho lanciato il tormentone “Mavavà!” e sono stato tra i primi a usare gli sms in diretta a Radio Kiss Kiss. Qui a Radio Italia invece ogni venerdì regalo come premio del mio indovinello “l’emerito ciufolo”. Ascolto tante radio, anche straniere per cercare sempre nuovi stimoli, sempre consapevole però che, se imiti qualcuno, o riesci a superarlo o sei finito: sempre meglio essere se stessi».

Un concetto fondamentale, dato che le regole per fare buona radio non sono cambiate: «Prima c’era più autonomia nelle scelte, oggi la programmazione è in mano ad un editore per contrastare i marchettari. Bisogna comunque conoscere bene la musica per lanciare le canzoni a tempo, imparare dall’esperienza dei colleghi, essere informati non solo dal web e soprattutto ricordarsi che chi ti segue sui social non è detto che ti segua anche in radio: non si fa radio per diventare famosi». Oggi gli editori prediligono la coppia radiofonica e anche a Radio Italia il pomeriggio Marino fa coppia con l’affiatata Manola Moslehi pur precisando che «può andar bene come programma ma non come conduzione classica perché si rischia di andare lunghi con i tempi o di escludere il pubblico. Ci vuole feeling quando si è in onda e soprattutto deve sempre essere uno a guidare e l’altro a fare da spalla, altrimenti non funziona».

Oltre alla fama radiofonica Marino è ideatore e direttore artistico di Casa Sanremo, evento collaterale al festival della canzone italiana: «Se una volta non ci si poteva accreditare in sala stampa si era costretti a seguire il festival da un televisore in un ristorante o in una camera d’albergo: ho pensato all’utilità di un luogo di ritrovo per gli addetti ai lavori e nel quale ogni artista avesse potuto far conoscere il proprio progetto discografico e non solo le canzoni del festival. Proposi a Pepi Morgia, allora direttore artistico del Comune di Sanremo, qualcosa di simile a “La cantina di Miss Italia” e così nacque nel 2007 Casa Sanremo: occupavamo solo un piano del Palafiori poi negli anni la casa si è ingrandita a tutto l’edificio. Un anno abbiamo realizzato anche una mostra del festival con cimeli e reperti delle passate edizioni: meriterebbe di essere permanente».

Intervista a Mauro Marino, dalla radio a Casa Sanremo
In una delle sale di Radio Italia © Rita Cigolini

A proposito del festival immancabile un parere sulla direzione artistica dell’edizione di Baglioni: «È un grande artista e sicuramente competente, però sono dell’idea che il conduttore dovrebbe fare il conduttore, come il cantante il cantante. Per un semplice motivo: la conduzione del festival deve avere un certo ritmo. Le edizioni di Carlo Conti hanno funzionato perfettamente perché erano più radiofoniche spero sia così anche quest’anno grazie all’aiuto dei co-conduttori». Sulle proposte in gara invece non condivide la scelta dei Pooh divisi «perché così sottraggono spazi ad altri artisti che avrebbero potuto partecipare. Sono invece molto contento del ritorno de Le Vibrazioni che hanno fatto la loro reunion col concerto di Radio Italia Live lo scorso giugno. E poi Elio e le Storie Tese che come sempre promettono sorprese, sono vulcanici».

Sanremo diventa poi un ottimo spunto per domandarsi, all’alba del 2018, cosa ci si debba aspettare dal panorama musicale italiano: «In Italia molte radio che fino a qualche anno fa suonavano l’80% di musica straniera si stanno avvicinando alla musica italiana, programmandone anche il 60 %. Molti ascoltatori sono legati alla familiarità della nostra lingua rispetto a quella inglese, anche se ovviamente vende di più perché ha un mercato mondiale. Per questo ultimamente molti artisti italiani vanno a Londra o in America per dare alle loro produzioni un sound internazionale».

Chiediamo a Marino allora perché ancora oggi, sebbene tutti riconoscano la grandezza della nostra tradizione cantautorale, sembra non ci siano più eredi: «I cantautori, fondamentalmente cantastorie, non possono avere visibilità se un certo modo di raccontare non interessa più: oggi è più difficile sentir cantare storie come Bocca di rosa perché la vita è diversa e diversamente viene raccontata. In questo senso potrebbero essere considerati nuovi cantautori i rapper, con le dovute sproporzioni rispetto alle origini afroamericane del genere». Cambiano i tempi e gli artisti ma è certo che «è ancora attraverso il lavoro di un produttore che gli artisti funzionano: Michele Torpedine ha messo insieme tre emeriti sconosciuti, che sarebbero probabilmente rimasti tali separatamente, e ha creato Il volo così come Tiziano Ferro o Jovanotti non sono nati da un talent ma dalle buone orecchie dei discografici. I talent sono semplicemente programmi televisivi: la gente fa vincere un artista, se però la stessa gente che lo ha votato non compra i dischi non serve a nessuno. E non bastano le visualizzazioni, la musica si deve comprare altrimenti muore perché i produttori discografici non hanno entrate sufficienti a produrre altra musica. Non lamentiamoci se ancora oggi i nomi più venduti in classifica sono i Beatles o Lucio Battisti».

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