Dallo swing dello Spirit de Milan alle atmosfere del Memo Restaurant Music Club: Locali361 vi presenta una delle location milanesi più interessanti per la musica jazz dal vivo e non solo.

Memo Restaurant Music Club, dove suona bene anche il silenzio 2
Il direttore di sala Egle Spaggiari. Vista palco dalla balconata del Memo Restaurant©Rita Cigolini

Di fronte all’area in costruzione della stazione ferroviaria di Porta Vittoria a Milano, tra gli edifici anni ’50 e i nuovi palazzi residenziali, un albergo e l’Esselunga con i parcheggi sotterranei, risalta oramai da più di cinque anni il Memo Restaurant Music Club, sorto sullo spazio che ospitava lo storico cinema Abadan di via Ortigara, chiuso nel 1980.

«Il proprietario Alberto Pilotti ha fatto restaurare più di cinque anni fa questa sala dall’architetto Memo Colucci da cui prende il nome il locale», spiega Egle Spaggiari, direttore di sala da tre anni ma con alle spalle esperienza nel mondo della ristorazione. «Abbiamo mantenuto la struttura originale con il suo alto soffitto e le prospettive marcate della galleria al piano superiore, dalla quale si ha una gradevole vista sul palco. L’ambiente è impreziosito da luci soffuse che enfatizzano un allestimento americano anni ’30 ma in un’atmosfera molto familiare, come l’angolo camino con i divani, le credenze e libri di musica, moda, fotografia e letteratura sparsi un po’ dappertutto». Questa aria così familiare, che si percepisce anche dallo staff, si accorda in realtà ad uno stile preciso che vorrebbe in qualche modo rievocare la tradizione di molti altri locali milanesi che sempre più, purtroppo, si stanno estinguendo: «Nonostante le difficoltà legate a questo periodo storico il Memo vuole continuare ad essere un salotto accogliente, capace di offrire musica dal vivo e ristorazione di buon livello, soprattutto nei fine settimana invernali, dato che non abbiamo terrazze o spazi all’aperto per l’estate. La location, molto originale, si presta bene anche per eventi privati e aziendali durante la settimana».

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Memo, vista sala e palco dalla balconata

La vocazione originaria del Memo, con una sonorizzazione adatta ad esaltare la musica dal vivo, è propriamente quella di jazz club anche se negli ultimi anni tale tendenza ha subito variazioni: «Il jazz ha funzionato come unico genere per un certo periodo ma abbiamo deciso di diversificare l’offerta per non essere esclusivamente un locale di nicchia, proponendo altri generi che funzionano altrettanto bene, dal pop al soul, persino la lirica. Aprirsi ad altre esperienze mi ha dato la possibilità incontrare artisti meravigliosi che neanche avrei immaginato e l’occasione per pensare a nuovi contenuti». Per quanto riguarda la programmazione musicale seguita da Antonio Vandoni, direttore artistico di Radio Italia, «accanto a grandi nomi italiani come Andrea Mirò o Roberto Vecchioni ma anche internazionali come i Jamiroquai, abbiamo dato spazio nella programmazione a molte cover band di buon livello e a voci nuove, a volte anche rischiando. Emblematico è stato, lo scorso anno, il nostro progetto più ambizioso, il contest gratuito #Memolive dedicato ai giovani emergenti, con il sostegno di partner di tutto rispetto: il riscontro è stato buono, stiamo valutando di riproporlo anche per il prossimo anno».

La clientela del Memo è comunque fidelizzata grazie alla presenza di alcuni artisti ormai di casa come il cantante Ronnie Jones, che tornerà il prossimo 27 gennaio ma «ai nostri tavoli, oltre agli intenditori, si può trovare anche chi decida semplicemente di passare una serata ascoltando musica mentre cena, senza neanche sapere chi si esibisca. Chi viene il giovedì ad esempio ha voglia di cenare ascoltando jazz o swing come sottofondo mentre la clientela del venerdì e del sabato ha voglia di divertirsi con musica soul o funky. Rispetto al pubblico di zona abbiamo riscontrato molti più avventori da altri quartieri di Milano o anche da fuori ma il bello è che si è formata oramai una clientela abituale, familiare persino al nostro personale e ben disposta a sperimentare le proposte targate Memo».

Come avrete capito dunque al Memo non si viene solo per ascoltare musica o sorseggiare i classici drink al bancone ma anche per gustare la buona tavola: «Non abbiamo un menù fisso, scegliamo quasi quotidianamente materie prime tra cui pasta fresca, pane e focaccia, salumi e formaggi dop che ci arrivano direttamente dai luoghi di origine e la qualità si sente! Inoltre offriamo un menù differente in settimana: ad esempio per la serata jazz, organizzata una volta al mese con l’associazione Jazz@Milano, consigliamo il “Menù Capolinea”, in omaggio al menù dell’omonimo storico locale, costituito da un piatto unico con verdura, scamorza grigliata e bruschette».

Se ancora non siete mai stati al Memo Restaurant Music Club Egle consiglia di non perdere l’apertura speciale in occasione della prossima Epifania.

www.memorestaurant.com

www.facebook.com/MemoRestaurant/

In occasione del 15° anniversario della morte dell’iconico cantautore milanese Musica361 vi racconta un curioso aneddoto riguardante la sua scoperta artistica da parte di un insospettabile Mogol

Giorgio Gaber e l'incontro con Mogol: ecco come avvenne
Giorgio Gaber.

Giulio Rapetti, conosciuto da tutti come Mogol, noto per aver firmato alcune delle più belle canzoni della tradizione italiana per Lucio Battisti e non solo, prima di diventare il celebre paroliere che conosciamo cominciò ancora giovane, alla fine degli anni ’50, a lavorare in Ricordi come contabile: «Facevo il computer», ricorderà nella sua biografia. Quella gavetta in azienda come “computer” si concluse quando un giorno finalmente gli fu proposto di occuparsi degli aspetti della promozione discografica e, occasionalmente, di scouting. E fu proprio in veste di presunto talent scout che, in una serata milanese come tante, fece un incontro determinante.

Giorgio Gaber e l'incontro con Mogol: ecco come avvenne
Giorgio Gaber al Santa Tecla di Milano con Luigi Tenco, 1958 (Foto © Fondazione Gaber).

Non era solito frequentare sale o balere ma il caso volle che capitò in uno dei locali più alla moda di Milano per il cabaret, la musica leggera e il rock, nato nel 1951 all’angolo di una via dietro il Duomo e conosciuto in città come “il tempio del jazz”: il Santa Tecla. Quella sera si esibiva un gruppo il cui frontman, un ventenne semisconosciuto e molto magro, cantava accompagnandosi con la chitarra: appena Giulio prese posto nel locale e si mise ad ascoltarlo rimase subito colpito da quella voce. «Che timbro particolare» continuava a pensare mentre quel giovane suonava. Finita l’esibizione Mogol si avvicina al palco, raggiunge quel ragazzo dal naso pronunciato con la chitarra in mano e si presenta per non lasciarsi sfuggire una bella occasione: «Complimenti canta in una maniera molto originale! Come si chiama?». E il ragazzo: «Grazie, fa sempre piacere essere apprezzati! Mi chiamo Giorgio». Senza perdere altro tempo o lasciarserlo scappare Rapetti aggiunge subito: «Me ne intendo sa? Mi chiamo Giulio Rapetti e lavoro per la Ricordi». Poi mette una mano nella tasca interna della giacca, estrae un biglietto da visita e lo porge al ragazzo: «Qui c’è il mio numero di telefono con l’indirizzo del mio ufficio: le interessa venire domani pomeriggio da me per fare due chiacchiere? Si potrebbe anche pensare ad un contratto discografico». Il ragazzo prende il biglietto, legge in silenzio sorridendo poi ringrazia e annuisce esclamando un energico «Senz’altro!», facendo intendere che fosse cosa fatta.

Quando Gaber non sapeva ancora di essere Gaber 2
Il giovane Giulio Rapetti, in arte Mogol

La mattina seguente Rapetti arrivò in ufficio pregustando la sua scoperta e dopo pranzo si preparò all’incontro. Attese ininterrottamente ora dopo ora e alla fine trascorse l’intero pomeriggio e venne sera. Uscito perplesso dall’ufficio e non avendo contatti, dopo il lavoro decise di tornare al Santa Tecla per chiedere di Giorgio. Appena mise piede nel locale lo vide appoggiato ad un tavolo: «Giorgio?! Sono Giulio della Ricordi…l’appuntamento di oggi?! È tutto il giorno che la aspetto in ufficio, perché non è passato?» Il ragazzo si volta, fa un altro gran sorriso e stringendogli la mano gli dice: «Certo, il responsabile della Ricordi! Bello scherzo!» «Ma quale scherzo?! Lavoro davvero per la Ricordi!» replica Rapetti. Dopo ulteriori e dettagliate spiegazioni Rapetti riuscì a convincere Giorgio del suo ruolo e fissarono per il giorno successivo un altro incontro.

Questa volta Giorgio si presentò puntuale alla casa discografica e cantò, accompagnato dalla sua chitarra, una delle sue migliori canzoni appena composte, Non arrossire. Probabilmente però si rese definitivamente conto che non si trattava di uno scherzo quando, subito dopo quell’audizione, gli porsero il contratto promesso da firmare. Era ancora giovane e dunque soddisfatto di quel primo risultato anche se ancora non immaginava che da allora avrebbe avuto inizio la sua carriera incidendo e scrivendo ben altri successi col nome d’arte di Giorgio Gaber, fino al 2003. Così come Giulio Rapetti ancora non sapeva che di lì a breve, da inedito scopritore di nuovi talenti, avrebbe dato inizio alla sua carriera di paroliere col nome d’arte di Mogol. Ma questa è un’altra storia.

 Non arrossire (1959)

Dal rock targato Legend Club a un locale milanese dalle atmosfere anni ‘30 ma non solo: Locali361 vi presenta lo Spirit de Milan. A svelarci l’anima, o meglio “lo spirito”, il gestore Luca Locatelli

Spirit de Milan, intervista al gestore Luca Locatelli
Spirit de Milan: sala interna

La struttura industriale che ospita lo Spirit de Milan ha tatuata sui muri una storia di 95 anni: questo ex oleificio, sorto nel 1921 e attivo durante la seconda guerra mondiale, fu in seguito acquistato dalla famiglia Livellara che utilizzò il sito per la sua produzione di oggetti e materiali in cristallo fino al 2004. Da allora i Livellara continuarono a servirsene solo per scopi commerciali finchè, in occasione di Expo 2015, fu adocchiato dall’oggi gestore Luca Locatelli e soci: «Il nostro studio di progettazione eventi, Klaxon, aveva alcune idee per Expo. Avevamo proposto la realizzazione di alcune attività in uno spazio che ospitasse eventi di musica swing dal vivo in stile proibizionismo anni ’30. Anzi in particolare il riferimento voleva essere al 1927, cioè alla traversata aerea di Lindbergh, colui che diede il nome al ballo lindy hop. L’altro progetto era “Barbera e champagne”, evento che sottolineasse la tradizione culinaria e musicale cittadina secondo lo spirito dei trani e dei cortili milanesi anni ’30. Quando ci siamo imbattuti in questo spazio abbandonato sembrava che aspettasse solo noi». Nel momento in cui Milano ospitava il mondo nessuno paradossalmente parlava di Milano, «lacuna che abbiamo colmato inaugurando la location il 25 giugno 2015, quando per la prima volta abbiamo sfruttato il cortile esterno». Nessuno immaginava che questa esperienza avrebbe poi avuto un seguito: «Dopo Expo abbiamo a poco a poco ristrutturato questa affascinante struttura, operazione burocratica e culturale notevolissima, mantenendo i riferimenti dei due eventi, che hanno così contribuito a caratterizzare l’anima, anzi lo spirito, di questo locale: Spirit of Saint Louis era il nome dell’aereo della prima transvolata oceanica e simbolo dello swing mentre Spirit de Milan significa in dialetto “spirito di Milano”. Spirit de Milan è un nome che si può leggere in italiano e in inglese, per tutti».

Locatelli, pur alla prima esperienza come gestione di un locale, mostra tanta energia e voglia di mettersi in gioco: «Ho cominciato occupandomi di scenografie per la moda e creazioni di contenuti per eventi, da piccole produzioni a porte chiuse a commissioni “pubbliche” come il tram di luce che si vede scorrere per Milano. Sono abituato al fai-e-disfa dell’architettura effimera ma in questo caso il vero contributo è stato rispettare lo spazio che abbiamo trovato, reinterpretando con mestiere le luci». Lo spazio è stato fondamentalmente conservato, anzi indicando una macchia di olio vegetale sulla parete Locatelli spiega: «Quella macchia per me è come un affresco del Quattrocento, fa parte della storia di questo edificio, un marchio culturale che contribuisce a renderci unici. Abbiamo solo assecondato l’immaginario anni ’30 senza interpolarlo con altri dettagli che possano sovrapporsi ad una precisa chiave stilistica».

Locali361: swing milanese allo Spirit de Milan 1
Particolare interno

Come definire lo Spirit? «Genuino: in questo momento di confusione relazionale offriamo forme di aggregazione genuina fatta da musica, ballo, bicchieri di vino e lunghe tavolate per favorire la conoscenza: intorno ai nostri tavoli sono già nati gruppi facebook». Da una recente indagine di mercato pare che la clientela dello Spirit sia composta anche da numerosi single, dato che il locale è consigliato da tante applicazioni ma in particolare l’obbiettivo di Luca sarebbe diventare il nuovo punto di riferimento di una Milano che non c’è più: «Ogni volta che vedo entrare allo Spirit un anziano sento che sto lavorando nella direzione giusta. Vogliamo far incontrare ragazzi di 19 e 90 anni, entrambi animati dalla voglia di divertirsi. E stiamo cercando di definire il nostro pubblico considerando anche il turismo di passaggio».

Effettivamente non si può passare da Milano senza visitare un locale che si chiama “Spirit de Milan”, soprattutto se il suo menù è costituito da piatti da nonna meneghina: «Nessuna cucina stellata ma polenta, minestrone, orecchia d’elefante e mondeghini: stiamo legando ogni portata ad una storia culturale, dai pizzoccheri della Valtellina al pesce in carpione dal lago di Como, piuttosto che prodotti lombardi locali, così come i vini e birre. Persino la drink list ha cocktail dai nomi dialettali».

Spirit de Milan, intervista al gestore Luca Locatelli
Evento estivo negli spazi esterni

E se non volete cenare tante sono le serate ad ingresso gratuito, diversi gli eventi settimanali: «Da segnalare il martedì “Tacchi, Dadi e Datteri, spettacolo d’arte varia” con protagonisti storici del cabaret milanese come Enrico Beruschi e Roberto Brivio più, una volta al mese, Arianna Porcelli Safonov conosciuta per i suoi divertenti monologhi sul web; mercoledì il progetto “Rock files” in collaborazione con Radio Lifegate nella sala “da club” e la domenica musica blues o progetti cantautorali dal vivo. Tra tutti consiglio la serata swing del sabato: si è creata una vera comunità e siamo un riferimento per Milano».

Lo Spirit è nato come spazio estivo ma oramai si può godere anche d’inverno grazie ai caratteristici tre ambienti a disposizione «e anzi vorremmo presto riuscire a lavorare anche su tutti gli altri spazi a disposizione per realizzare una scuola di ballo o di musica: stiamo pensando di ospitare l’Accademia del pianoforte o masterclass legate al jazz e allo swing, allestendo anche uno stand per accogliere artisti o eventi per bambini legati alla musica, piuttosto che altre originali collaborazioni a tema col territorio».

http://spiritdemilan.it/

https://www.facebook.com/spiritdemilan/

Batteristi incalliti e amanti delle percussioni? Musica361 vi porta alla scoperta del Percussion Village, uno spazio unico in Italia per soddisfare ogni vostra curiosità. Quasi 20 anni di attività raccontati con passione e professionalità dal proprietario Fabrizio Di Tano

Percussion Village: l’oasi delle percussioni tiene il tempo da 20 anni
Logo del Percussion Village a Milano

L’8 ottobre 1998 nasce in via Bezzecca il Percussion Village, semplice negozio che vende strumenti a percussione. Dopo una decina d’anni quel punto vendita si trasferisce in via Anfossi 6 diventando qualcosa di unico: «A seguito della continua richiesta di lezioni da parte dei nostri clienti abbiamo accettato la sfida di cercare uno spazio che potesse ospitare, insieme alla nostra esposizione, anche una scuola di musica. E così siamo finiti in questo cortile interno un po’ nascosto, d’altra parte come tutte le cose belle», racconta orgoglioso Fabrizio Di Tano. Ha la passione negli occhi Fabrizio, batterista presso tre formazioni e responsabile di questo singolare store insieme a Silvia Taglioretti, quando ricorda come tutto ebbe inizio: «Quando ascoltai per la prima volta a 13 anni la canzone Tom Sawyer dei Rush con l’intro di Neil Peart capii che quello sarebbe stato il mio mondo. Ho studiato un paio di anni col maestro Mariano Marini poi ho seguito un triennio al CPM e vari altri stage a cui si sono aggiunti gli incontri con i professionisti che abbiamo ospitato qui, grazie ai quali anche io ho approfondito i segreti di questo mestiere».

Non esiste uno spazio simile a Milano o in Italia, piuttosto nelle grandi strutture americane ma in quel caso si tratta di scuole con merce esposta mentre «noi nasciamo come negozio diventato scuola di percussioni e non solo: abbiamo a disposizione artisti impegnati sulla scena musicale che sono anche ottimi insegnanti come Diego Galeri, ex batterista dei Timoria, Silvio Masanotti per la chitarra, Daniele Moretto per la tromba e Tullio Ricci per il sax». Un organico qualificato di 18 docenti che, dalle percussioni al canto, vivono l’insegnamento con grande dedizione: «Inutile avere grandi nomi che poi non ci sono mai, insegnare è una missione». Una cura e un’attenzione che si ritrova anche nelle attrezzate e confortevoli sale didattiche, «sette ambienti che suonano benissimo e in cui abbiamo investito molto, specialmente in quella più capiente dove ospitiamo clinic, seminari e master class». Diversi artisti del settore come Tullio De Piscopo, Walter Calloni o Maxx Furian sono passati negli anni dal Percussion Village sia come clienti che come maestri: «In questi eventi a tu per tu con i professionisti abbiamo voluto smitizzare una certa immagine da “virtuoso di YouTube” riportando ad un approccio più esistenziale con la musica, come il titolo dell’ultima clinic di Ellade Bandini: “Perché suoniamo? Per chi suoniamo?” Crediamo in questo tipo di didattica».

Percussion Village: l’oasi delle percussioni tiene il tempo da 20 anni 1
Una delle sale interne del Percussion Village

Nelle attività della scuola al momento gli obbiettivi didattici non sono disgiunti da quelli amatoriali: «Educhiamo allo strumento preparando anche per gli esami di ammissione al Conservatorio, anche se pochi in realtà vogliono diventare professionisti. Per questo stiamo pensando di differenziare i corsi per soddisfare i diversi interessi della clientela. Proponiamo comunque sempre, come test, almeno quattro lezioni di prova nell’arco del primo mese». Ogni programma didattico è rivolto al singolo, con cui viene poi concordato giorno e orario per la lezione settimanale: «Sono corsi cuciti su misura. C’è ad esempio chi vuole imparare a 70 anni a suonare i Led Zeppelin e in quel caso è inutile essere troppo accademici. A noi interessa anzi tutto dare insegnamenti pratici, come saper scrivere e suonare un tempo o un fill». Le uniche lezioni di gruppo sono il “Laboratorio ritmico” per imparare linee melodiche di percussioni o “Musica d’insieme”, fase più matura del percorso: «Per accedere a questo tipo di lezioni è richiesto a tutti almeno un primo anno di studio in cui si apprendono i rudimenti e al termine del quale è previsto un saggio. Dal successivo si studia il genere di riferimento preferito, anche se un conto è amare un certo tipo di musica e un conto è suonarla, quindi è possibile cambiare idea».

Se amate “tamburellare”, oltre alla batteria il Percussion Village vi farà scoprire percussioni mondiali come djembe, cajon, congas e bongo ma anche più ricercate come il bodhrán irlandese o la tabla indiana: «Ultimamente sta avendo successo l’handpan: siamo, credo, gli unici in Italia ad avere a disposizione questo strumento. Loris Lombardo, il primo ad aver concepito un metodo, è recentemente venuto qui a presentarlo».

Le percussioni continuano ad essere strumenti di grande richiamo, sempre più apprezzati anche dal gentil sesso: «Piace alle ragazze forse anche perché si stanno imponendo nuove “batteriste” come Emmanuelle Caplette o Cindy Blackman, che ha accompagnato Lenny Kravitz. Quando le donne si mettono d’impegno sono più brave degli uomini». Uomini o donne che siate le percussioni hanno un fascino ancestrale, probabilmente perché tutti nasciamo con un metronomo nel nostro petto: «Sembrano strumenti istintivi ma quando li si studia sul serio ci si rende conto di quanto siano complessi e molteplici. Provate».

Se avete apprezzato il Bloom di Mezzago, Locali361 vi propone un altro locale “rock”: entriamo nel Legend Club, che quest’anno festeggia due lustri. Ce lo ha raccontato il direttore artistico Filippo “Fil” Puliafito.

Cosa ha di particolare il Legend Club Milano
Ingresso del Legend Club, in via Enrico Fermi

Sulle fondamenta di una ex pescheria e dal know-how dell’ex proprietario del celebre Indian Saloon di Bresso, nasce nel 2007 in via Enrico Fermi il Legend 54: «Credo che il 54 si riferisse all’anno di nascita del proprietario. Fu poi chiamato Legend club, con l’intenzione di ricordare più un club internazionale, sullo stile di Inghilterra o Germania. In effetti non sembra di essere in Italia o per lo meno è quello che mi confermano molte band straniere che vengono a suonare qui», spiega il direttore artistico Filippo Puliafito, conosciuto come “Fil”, mentre sorseggia una birra.

Filippo ha cominciato a occuparsi da giovane di eventi di altro genere, quando ancora lavorava come parrucchiere: tra i suoi clienti molti “capelloni” o meglio musicisti rock che col tempo lo hanno coinvolto nella realizzazione di eventi musicali. «Dopo l’ottimo risultato con il primo concerto di beneficenza che feci a Binasco per raccogliere fondi per il terremoto in Abruzzo (2009) ho a poco a poco cominciato a collaborare con diversi locali a Milano e hinterland, finché è diventata la mia occupazione principale dal 2012, anno dell’altro mio grande progetto, “Emilia Calling”». Tre anni e mezzo fa poi gli viene ufficialmente offerta la direzione artistica del Legend: «Il Legend, all’epoca senza una vera direzione, aveva un potenziale inespresso: da allora mi sono dedicato ad una programmazione ben definita collaborando con Federico, il figlio del proprietario, che oggi si occupa parallelamente di eventi privati e pubbliche relazioni».

Cosa ha di particolare il Legend Club Milano
L’interno del Legend Club durante un live, con la colonna a vista sul palco

Caratteristica di questo “club da leggenda” è una colonna sul palco, come sottolinea ironicamente Fil: «In questo ex capannone esisteva un colonnato interno di cui oggi sono rimaste solo due colonne, una vicino al bar e l’altra proprio sul palco. A parte questa caratteristica estetica uno dei vanti del Legend è l’acustica eccezionale che, credo, poche altre sale milanesi possano vantare: per questo molte band lo scelgono per i loro live». Il 90% della programmazione del Legend è costituita da band con un repertorio originale di cui almeno la metà sono straniere: «Quando ho cominciato era difficile far capire a promoter e manager che questo locale fosse interessato anche a nomi stranieri, oggi la fama del Legend si è diffusa anche all’estero: su circa 200 date l’anno, più di 80 sono di band internazionali. Due settimane fa abbiamo ospitato i Nothing More, ancora sconosciuti in Italia ma con 3 nomination agli Awards in America, a gennaio avremo gli storici Rage e Firewind e a maggio Phil Rudd, ex batterista degli AC/DC».

Questa programmazione rock in tutte le sue sfumature, dal pop al metal, va di pari passo con la clientela del Legend, «appassionati di musica underground tra i 25 e 35 anni, interessati a band storiche e originali: il mio compito è soddisfare l’aspettativa di questo pubblico scegliendo sempre accuratamente cosa è per il Legend e cosa no, mantenendo una certa qualità. Il primo concerto che ho organizzato qui fu con Michael Monroe, cantante finlandese degli Hanoi Rocks, band spalla dei Guns’n’Roses e da allora sono passati anche Glenn Hughes, Richie Kotzen e recentemente i Sick of it all».

E se amate il rock l’evento da non perdere al Legend è il “Rock in Park”, appuntamento che si ripete due volte l’anno dal 2014: «È un festival nato dalla voglia di creare una sorta di ritrovo del mondo musicale underground. Quest’anno siamo alla nona edizione: per ora si svolge al Legend da metà settembre ai primi di ottobre e tra maggio e giugno ma vogliamo che diventi un incontro mensile e soprattutto esportarlo come evento itinerante in tutta Italia. Non c’è nessun premio: la vera ricompensa è partecipare alla rassegna targata Legend Club».

Durante i concerti l’angolo bar offre diverse birre, dalla Pilsner Urquell alla spina a birre artigianali scozzesi e ovviamente piadine e panini ma il momento migliore dell’anno per godersi il locale e soprattutto la sua ampia area esterna con giardino, è tra maggio e giugno. Prima ancora dell’estate però Puliafito consiglia di non perdere questo capodanno: «Avremo cenone a buffet e, alternati, due dj set e tre band, all’americana. La vera sorpresa nel corso della serata però sarà l’esibizione della misteriosa band Wolf Theory, composta da quattro rinomati musicisti della scena underground milanese che presenteranno il loro nuovo disco di rock elettronico».

www.legendclubmilano.com

www.facebook.com

Musica361 ha incontrato il giornalista Claudio Todesco, autore del libro “Grunge”, pubblicato nel 2011 per Tsunami e recentemente ristampato da Arcana. Per riscoprire uno dei movimenti musicali e culturali più importanti di fine anni ’90 a livello internazionale ma curiosamente nato dall’isolamento di una città.

Incontro con Claudio Todesco, autore del libro Grunge
Claudio Todesco, giornalista e critico autore de “Grunge, il rock delle strade di Seattle”

Nella seconda metà degli anni Ottanta Seattle è stata una città dalle influenze musicali eterogenee, dall’hard rock al punk, dall’heavy metal alla psichedelia. E ad oggi è oggetto di discussione se il grunge, una delle ultime rivoluzioni rock partorita in quella città, sia un vero genere musicale o un termine di comodo per catalogare gruppi diversi che semplicemente si formarono là in quegli anni: «Propendo per questa seconda ipotesi» afferma Claudio Todesco, autore del libro Grunge, il rock delle strade di Seattle. «Per me “grunge” identifica una provenienza geografica: e propriamente ritengo grunge i gruppi cresciuti tra metà anni Ottanta e Novanta intorno all’etichetta Sub Pop di Seattle, caratterizzati da un mix di metal e punk e sonorità ispirate agli anni Settanta».

Nell’era in cui trionfano nella musica leggera ridondanti tastiere, sintetizzatori o band hair metal, il grunge si impone come alternativa, più che innovativa quasi conservatrice, con composizioni musicali scarne ma d’impatto, le collaborazioni e gli scambi tra membri di diverse band limitate dalla generale privazione di mezzi e possibilità: «Esistevano pochi spazi per suonare o produrre musica in quella città ma incredibilmente da quelle strade è nato qualcosa capace di definire una nuova identità culturale rispetto a qualsiasi altro paese negli Stati Uniti».

Chris Hanzsek, uno dei fondatori di quegli studi di registrazione nei quali sarebbero passati tutti i gruppi più importanti di quella scena, fu tra i primi a notare, rispetto ad altri luoghi degli Stati Uniti dove la musica ispirata alla New wave stava diventando più sofisticata, quanto a Seattle regnasse un vero primitivismo musicale, da lui documentato per prima volta nella raccolta Deep Six (1986), costituita da brani registrati appositamente dai Green River, Melvins e altri autori di quelle sonorità: «Considero quella raccolta, poco citata in verità, il vero disco d’esordio del grunge, prima ancora della canzone Touch me I’m sick (1988) dei Mudhoney ritenuta da tanti l’archetipo».

Il Grunge tra movimento musicale e geografia culturale raccontato da Claudio Todesco 1
La copertina del libro “Grunge, Il rock delle strade di Seattle”, Arcana (2017)

Con i primi anni Novanta il grunge si diffonde a livello mondiale interessando anche il nostro paese: «In Italia si è cominciato a capire qualcosa poco prima dell’uscita di Nevermind (1991) dei Nirvana, che ha aperto la strada ad altri gruppi come Pearl Jam, dal primo showcase a Milano fino agli stadi». Ripensando a quel periodo in cui molti giovani si vestivano con camicie di flanella a quadri, jeans strappati, scarpe da ginnastica Converse consumate e t-shirt sdrucite, ci si chiede anche in che termini il grunge sia stato un fenomeno legato propriamente alla moda e Todesco spiega così: «La moda grunge, proposta anche da stilisti, riaccende ricordi nella mente di chi l’ ha vissuta ma a molti di quei musicisti sembrava qualcosa di costruito a regola per vendere un nuovo prodotto. Poi però, ironia della sorte, proprio coloro che intendevano distinguersi dall’industria discografica e dalla moda ne diventarono involontariamente parte. Nell’era pre-internet radio ma soprattutto televisioni musicali come Videomusic ebbero un grande ruolo: da metà anni Novanta Cobain e Vedder ebbero, come dico spesso provocatoriamente, un’attenzione paragonabile a Taylor Swift e Adele oggi. Attenzione che, come sappiamo non tutti hanno vissuto felicemente».

Queste sono solo alcune delle curiosità raccontate dall’indagine di Todesco, che ricostruisce tutta la vicenda di questo genere con passione e autenticità: «Nel 1989 avevo 20 anni e mi piaceva molto quello stile chitarristico aspro, poi da giornalista, ho deciso di approfondire la materia. Quando ho intervistato Dave Grohl, il batterista dei Nirvana, mi ha illuminato, spiegandomi “Devi raccontare l’isolamento di Seattle”: questo è il principio base a partire dal quale ho raccontato il grunge, lontano da tagli enciclopedici fatti di biografie o discografie e diversamente dalle letture storicizzate e patinate dai mass media, riportando invece, salvo che per poche parti ricostruite per necessità da altre fonti, autentiche chicche e interessanti testimonianze dai protagonisti o dai “sopravvissuti”, come i Pearl Jam. Quelli che già nel 1991, forse profeticamente, cantavano “Oh I, oh, I’m still alive”».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Festeggia quest’anno 30 anni il Bloom di Mezzago, storico locale nel cuore della Brianza, riferimento della scena underground dagli anni ‘90. Ve lo racconta Locali361

Bloom di Mezzago festeggia i 30 anni
Interno del Bloom di Mezzago.

Dalla passione di un gruppo di giovani brianzoli fondatori di Radio Montevecchia alla ricerca di un luogo per organizzare musica dal vivo nacque nel 1987, nel cuore della Brianza, il Bloom (Fioritura). Il Comune di Mezzago concesse loro in gestione la struttura dell’ex storico cinema risalente al 1929 e dopo le opportune riqualificazioni il Bloom, a poco a poco, da centro culturale caratterizzato da teatro, danza, cinema e corsi d’arte varia, diventò il locale di riferimento della cultura musicale underground: «Il Bloom si è costruito una nomea in Brianza, e non solo, in quei primi anni ’90 quando gruppi come Green Day, Hole e persino Nirvana lo elessero come luogo ideale per le loro esibizioni rispetto ad altri locali milanesi: cominciò così a gravitare intorno al Bloom un mondo underground, quando ancora in Italia pochi altri locali seguivano questa tendenza», spiega il direttore artistico Massimiliano Elia.

Locali 361: serate indie e alternative al Bloom di Mezzago 1
Locandina del primo live dei Nirvana al Bloom, 26 novembre 1989

E a proposito del caso dei Nirvana ricorda: «Uno dei punti forti del Bloom in quei primi anni erano i rapporti con le agenzie: Filippo Scotti, che al tempo si occupava della programmazione, era in ottimi rapporti con la promoter dei Nirvana. La band di Cobain si esibì qui due volte: da semi sconosciuti nel 1989 e nel 1991 col botto dell’album Nevermind: la fama del Bloom divenne tale che si riuscì a riportarli qui anche se il locale era troppo piccolo per poterli ospitare».

Massimiliano racconta con orgoglio ed entusiasmo uno degli episodi che ha contribuito forse più di altri a dare fama al locale nell’immaginario collettivo, anche se era troppo piccolo per partecipare quando si esibirono i Nirvana. Originario della provincia di Lecco arrivò al Bloom nel 2004: «Dopo le superiori, nei primi anni 2000, mi sono formato come fonico e tecnico audio: ho lavorato con i Ministri e Tonino Carotone e negli ultimi quattro anni con i Club Dogo, Marracash e Ufomammut. Finché, attratto dalla fama del Bloom, sono arrivato qui nel 2005: ho cominciato gestendo la parte tecnica del locale mentre, negli ultimi due anni, sono stato nominato direttore artistico».

La caratteristica che più contraddistingue il Bloom è propriamente il suo ruolo di polifunzionalità aggregativa, grazie alla piccola biblioteca che si trova all’ingresso, alle rassegne di cinema d’essai della sala superiore ma anche al teatro, ai  corsi vari e all’angolo bar: «Un tempo il cocktail di punta era il “Dark side of the Bloom”, oggi abbiamo rinnovato la drink list insieme ad una scelta di 20 tipi di birra in bottiglia e alla spina».

Al Bloom comunque, più che per bere, si viene per ascoltare musica alternativa, dal jazz all’indie: «Proprio perché riconosciuto come locale storico, la nostra programmazione si interessa a band alternative dalla carriera storica: ad esempio l’anno scorso abbiamo avuto The Exploited, storico gruppo punk rock di fine anni ’70, a metà dicembre ospitiamo gli americani Molly Hatchet e a febbraio i Kvelertak, band norvegese supporter per la tournée dei Metallica in Italia. Non solo, anche cantautori della scena new indie come Andrea Laszlo De Simone che suonerà il 22 dicembre, accompagnato da una band di professionisti che ha collaborato anche con Niccolò Fabi e poi una rassegna di Sebastiano De Gennaro, percussionista sperimentale che ha suonato con Daniele Silvestri, Baustelle ed Enrico Gabrielli dei Calibro 35».

Bloom di Mezzago festeggia i 30 anni
Il bar del Bloom, con oltre 20 tipi diversi di birre in bottiglia e artigianali.

In questa programmazione alternativa non mancano anche eventi curiosi come la serata “Disco Merda”, gestita ogni fine mese dal collettivo Beat Acrobatique guidato da Dj Zeemo: «Si tratta di dj set durante i quali proponiamo musica disco anni ’70 ma con sonorità più moderne, stile house e techno».

“Underground” dunque, dopo 30 anni, continua ad essere l’aggettivo che definisce meglio il locale: «Non è forse quello che si definirebbe “un bel locale” anche dal punto di vista architettonico ma la gente è molto affezionata a questa struttura un po’ fatiscente e soprattutto alle sue attività». Anche se, rispetto agli anni ’90 pare che oggi il Bloom abbia meno appeal sui giovani: «La nostra clientela è eterogenea e non solo locale, come la musica che offriamo: l’età oscilla tra i 25 e 40 anni, più lo zoccolo duro costituito dalla clientela storica che si aggira intorno ai 50 anni, i più fedeli ai contenuti della nostra programmazione musicale, certo poco adatta ad un pubblico giovane, mainstream e modaiolo».

Il momento migliore per godersi il Bloom, secondo il consiglio di Massimiliano, è ottobre «quando capita spesso che il locale sia scelto da molte band interessanti come ultima tappa del tour estivo ma anche dicembre è un periodo molto attivo, durante le festività siamo aperti quasi sempre, escluso il lunedì quando il bar è chiuso. E comunque ci sono sempre i corsi». Per l’estate invece il Bloom si trasforma completamente: «A parte qualche serata stile “desert sound”, allestiamo nel parcheggio sotto un campo da beach volley con pizzeria e chiruinguito adiacente alla struttura».

https://bloomnet.org

 

Musica361 ha incontrato il giornalista e critico Stefano Gilardino, autore per Hoepli del libro “La storia del punk”. Un genere che ha influenzato non solo la musica ma anche letteratura, arti visive, mode e vita culturale persino in Italia.

Intervista a Stefano Gilardino autore de La storia del punk
Stefano Gilardino, autore del libro “La storia del punk”

Cos’è o per lo meno cos’è stato il punk? «Una grande rivoluzione musicale e non solo che ha avuto il merito di azzerare un processo di “involuzione” del rock, divenuto fino alla metà degli anni Settanta sempre più complicato per il grande pubblico. Era arrivato il momento in cui la musica rock doveva essere tolta dall’impasse in cui era finita e il punk ha avuto sicuramente questo merito», afferma Stefano Gilardino. Protagonisti di questa rivoluzione musicale  gruppi come Sex Pistols, Clash e Ramones anche se, è bene ricordare, il punk è uno stile che ha influenzato non solo la musica ma numerosi altri aspetti socio-culturali e forme d’arte come letteratura, arti visive e persino mode: «Fu una rivoluzione a 360° che dalla metà degli anni Settanta caratterizzò un momento di liberazione da schemi e regole precedenti, contaminando il mondo musicale almeno fino alla fine degli anni ‘90: quasi tutti i generi di oggi hanno un debito verso il punk, persino l’elettronica ne ha mutuato delle intuizioni, fosse solo il concetto del “Do it yourself”, incidendo e distribuendo dischi autonomamente. A 40 anni di distanza dalla sua nascita questa influenza ancora si percepisce».

Cosa è rimasto però dopo 40 anni di quella filosofia estrema, fatta di anarchismo e apoliticità? «Della pura filosofia punk oggi è rimasto poco, piuttosto certe istanze e valori che si sono evoluti: nel 1977 rappresentava un estremismo etico e musicale, mentre negli anni ’80 e ’90 fu caratterizzato a livello politico, con l’abiura di multinazionali, passaggi televisivi o concessioni commerciali. Sono scelte che si possono capire seguendone l’evoluzione: credo che quello spirito rivoluzionario, per essere incarnato, debba necessariamente passare per la cantine buie e umide e per la propria autogestione. Se accetti il gioco commerciale ti presti inevitabilmente ad un sistema che non è più quello alternativo del punk: di fatto non sei più un carbonaro, sei popolare». Precisa però Gilardino: «Non sta a me decidere chi sia punk e chi no, non ho compiuto un’analisi sociologica ho solo raccontato una storia con tutte le sue contraddizioni. E la prima è proprio che, a dispetto di ogni previsione, il punk è diventato uno degli stili musicali più influenti di fine Novecento».

Stefano Gilardino ci racconta la storia del Punk 1
La copertina del libro “La storia del Punk”, Hoepli (2017)

Il fenomeno ha toccato a suo modo anche il nostro paese, come spiegato in un capitolo a parte: «In Italia il punk delle origini ha interessato forse qualche centinaio di persone, comunque si è declinato in maniera differente a causa della durissima realtà politica: nel 1976 l’ultimo festival a Parco Lambro, nel 1977 l’omicidio di Francesco Lorusso, l’anno successivo le BR avrebbero rapito e ucciso Moro, un clima insomma che non consentiva troppo spazio a novità discografiche che avessero potuto rinfocolare ferite fresche. Non si poteva cantare di anarchia, pertanto fu prevalentemente vissuto come fenomeno di costume: le riviste musicali etichettavano il punk come musica per ragazzini, mentre i rotocalchi pubblicavano articoli sulla nuova moda londinese fatta di vestiti stracciati, spille da balia e capelli dritti, niente di più». Ci fu però anche chi intuì la carica rivoluzionaria del punk: «Quello che considero o mi piace pensare che sia stato  il primo disco punk italiano è Inascoltable (1977) degli Skiantos, che hanno avuto il merito di aprire una via italiana molto personale rispetto a quello che arrivava dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. E poi gli HitlersS/Tampax a Pordenone, a Milano i Decibel di Ruggeri e i Krisma di Maurizio Arcieri, già anticipatori della New Wave».

Nel libro La storia del punk Gilardino racconta questa rivoluzione, celebrandola in occasione del quarantennale di Never mind the bollocks primo album cardine dei Sex Pistols pubblicato nel 1977, annus domini dell’era punk: «Il libro parte in realtà dal 1967, anno della mia nascita, dunque un modo per celebrare anche me che compio quest’anno 50 anni e la mia carriera di collezionista e agitatore punk, compresa la mia testimonianza di quando scoprii quel disco a 10 anni». Ad oggi in Italia non esisteva un testo del genere, dunque un’occasione perfetta per chi voglia farsi un’idea più precisa del punk: «Non è un’enciclopedia ma una raccolta di storie accattivanti da leggere, non necessariamente in ordine cronologico. Si scoprono tante curiosità». Diversi sono i livelli di approfondimento, con box e schede ma anche aneddoti e le recensioni dei dischi migliori, interessanti anche per gli esperti: «C’è tanto da gustare ma soprattutto il valore aggiunto è che molte delle interviste contenute nel volume sono state realizzate da me personalmente, ad esempio quelle a Joe Strummer dei Clash, John Lydon dei Sex Pistols ma anche Patti Smith o Henry Rollins».

Ultima domanda, di rito, non può che essere: punk is dead? «No, it’s alive! Il suo spirito si è conservato in occidente in tante forme, mentre in altri paesi orientali o africani in cui la libertà personale è limitata, indossare una maglietta dei Ramones o dei teschi sulla maglietta può ancora oggi causare problemi di ordine pubblico, persino farti condannare per apostasia o blasfemia. E anche in Italia a livello underground credo che esistano ancora centinaia di band che suonano quella musica con lo spirito giusto. Dicevano che era “dead” nel 1978 ma se ha resistito 40 anni può resisterne almeno altri 40».

Questa settimana Locali361 vi fa conoscere il Bachelite CLab di via Vertoiba a Milano: musica, drink, eventi, arte e design in un ambiente familiare. Ad accogliervi Roberto Paternò

Bachelite CLab Milano, intervista al titolare
Roberto Paternò, gestore del Bachelite CLab  – foto©Rita Cigolini

«Dopo una lunga ricerca di circa 54 location in un anno, abbiamo trovato questo locale nel gennaio 2013: volevo chiamarlo Studio 54, anche in omaggio al locale americano», ironizza Roberto Paternò, fondatore del Bachelite CLab: «Dentro c’era un ex solarium diviso da tanti piccoli ambienti: come diciamo sempre “una volta qui era tutto carton gesso!” Il bello però era che aveva intorno solo box e niente sopra il tetto – tanto che ultimamente stiamo persino valutando la possibilità di sfruttare la potenziale “terrazza” per il periodo estivo. In più questa zona, a poca distanza dal centro come dalla periferia, mi è sempre piaciuta molto».

La struttura interna è grezza, si potrebbe definire post industriale: «Pare che prima del solarium, negli anni ’50, ci fosse un’officina: l’ingresso è fatto da una saracinesca con una vetrina a tutta altezza e il classico soppalco ad “H”. Ho voluto rievocare questa aria da officina anni ’50 nel locale, che poi ho arredato con oggetti di modernariato disseminati ovunque».

Proprio curiosando tra questi oggetti scopriamo di più sul nome del locale, Bachelite CLab: «Il mio socio ed io pensavamo ad un club nel quale poter organizzare musica, eventi e persino teatro, una sorta di laboratorio: da qui CLab con la “L” e la “a”, che, come dico sempre, non sono sinonimo di ignoranza ma di creatività! E “Bachelite” si riferisce alla mia passione per il vintage: la bachelite è un composto chimico di derivazione minerale con la quale sono stati creati molti oggetti anni ’50 o ’60 come quelli che vedi qui. È un materiale che, a differenza della plastica, veniva utilizzato per resistere al tempo, concetto che ci piace associare al locale: produrre eventi e servizi di qualità secondo una proposta che possa durare negli anni».

Bachelite CLab Milano, l'intervista al titolare
Interno del Bachelite CLab – foto©Rita Cigolini

Roberto si è formato e lavora come consulente del lavoro, «esperienza che mi è servita mettere insieme la mia stretta squadra di collaboratori, una vera famiglia». E se gli chiedete la caratteristica che contraddistingue il Bachelite non ha dubbi: «Un punto di incontro del dopo lavoro per amici e per una clientela di quartiere che ha contribuito a sua volta a creare questa atmosfera da festa in casa. Puoi trovare persone di ogni tipo che però si integrano benissimo, nessuno è fuori luogo».

In particolar modo molti giovani e universitari seguono gli eventi musicali in settimana, altra caratteristica del locale: «Adoro la musica e da tempo mi interessavo per passione all’organizzazione di eventi musicali dopo l’ufficio, ultimamente grazie al Bachelite ho potuto gestirli con più cura».

In media 4 o 5 eventi alla settimana ma il genere principe è il jazz: «Dal 2015 il mercoledì è la serata del jazz dal vivo, concerto e jam session. C’è gente seduta ovunque, in piedi davanti ai jazzisti o fuori dalla vetrina: da noi può accedere anche gente semplicemente di passaggio». Un modo originale anche solo per bere una birra dato che «per nostra politica non c’è ingresso o consumazione obbligatoria, vogliamo semplicemente essere un’occasione per far ascoltare buona musica».

E gli eventi non finiscono qui: «Il giovedì spesso proponiamo una selezione di dischi reggae, il venerdì una jam session di musica leggera alternata all’evento “Sindrome elettronica”, due volte al mese, con musica elettronica mista a strumenti acustici e abbinata ad un live painting di uno street artist, un pittore o un fumettista. Le composizioni restano dipinte per qualche giorno poi vengono cancellate, un’esperienza veramente unica come la musica jazz, tutto su improvvisazione». Il sabato è dedicato alla musica per collezionisti di vinili, si va dal funk al Sound bass (bossanova mista a drum’n’bass) oppure alla dance anni ’80 e la domenica jam blues, gipsy o swing, «tutti generi comunque che siano fusion col jazz: c’è anche una serata che si chiama “Jazz e devianze”».

Bachelite CLab Milano, intervista al titolare
Roberto Paternò invita a provare il cocktail di punta del Bachelite CLab, “Rosa Caliente” – foto©Rita Cigolini

In termini di food & drink il locale offre taglieri, in serate speciali carni, birre e vini artigianali ma soprattutto cocktail con distillati originali e presto novità: «Giovedì 7 dicembre lanceremo la nuova drink list con 6 nuovi cocktail dedicati a Milano come il “Ciumbia!”, variante del Negroni oppure il “Ciapa su!” che ricorda vagamente una parola cinese, non a caso miscelato con vodka allo zenzero. Il nostro cocktail di punta comunque è il “Rosa Caliente…il cocktail da ordinare assolutamente!” preparato con una vodka polacca a bagno con peperoncini Habanero freschi, sciroppo di rose e sale affumicato. Sconsigliato a chi non piace il piccante».

Il Bachelite CLab è sicuramente un luogo accogliente soprattutto per le serate d’inverno ma Roberto si sta preparando anche la bella stagione: «Per la primavera stiamo organizzando due festival con delle band, uno al Giardino delle Culture in via Bezzecca che si chiamerà “Out Sound” e l’altro, per aprile, che avrà come protagonista uno strumento particolare, ancora poco conosciuto a Milano».

https://www.facebook.com/bacheliteclab.milano/

Virgin Radio ha compiuto quest’anno 10 anni e Musica361 ha intervistato uno dei suoi protagonisti, Dj Ringo. Aneddoti e riflessioni di una vita da dj, dal rock in Italia al ruolo dei social nella musica.

Dj Ringo intervistato da Musica361 per i dieci anni di Virgin Radio
Dj Ringo

Conduttore radiofonico e televisivo Dj Ringo, al secolo Rocco Maurizio Anaclerio, è stato uno dei primi dj di Radio RockFM, RTL e 105 per la quale ha creato e condotto il programma Revolver. Dieci anni fa ha traslocato con Revolver a Virgin Radio Italia di cui oggi è direttore artistico.

«Sono fedele a Virgin da 10 anni, quasi come con la mia compagna Rachele, con la quale sto insieme da 11» ironizza subito Ringo nel suo originalissimo studio arredato da cimeli rock’n’roll presso la sede di Virgin Radio Italia. «Forse perché nessuno mi ha offerto più soldi (ride)…No la verità è che ho contribuito a fondare questa radio e me ne sarei andato solo se non mi fossi trovato bene ma qui è bellissimo, per questo sono rimasto in squadra. Con una metafora calcistica mi sento un Maldini o se preferite un Facchetti della situazione».

Dopo 10 anni, «a parte la maledetta macchina degli ascolti che qualche volta può dare qualche frustrazione», la vera difficoltà è ancora stare quotidianamente davanti al microfono anche quando accade qualcosa di drammatico: «É un po’ come il lavoro del clown, indossi una maschera dovendo nascondere la tua sofferenza. Mi ha addolorato annunciare la scomparsa di Bowie, idolo della mia adolescenza, così come a suo tempo mi avevano segnato la scomparsa di Elvis e John Lennon: sono cresciuto in una famiglia di rockers con quei miti che ho sempre visto immortali». Per contro in questo mestiere ci sono quotidianamente anche momenti di gioia, «ad esempio quando Virgin diventa radio ufficiale di un evento musicale e posso regalare biglietti gratis: i prezzi sono sempre più alti e sentire l’urlo di felicità di un ascoltatore che se li aggiudica è impagabile».

Orgoglioso del ruolo di Virgin Radio in Italia sottolinea l’unicità dell’emittente: «Solo su Virgin potete ascoltare oltre ai classici rock anche Stray Cats o Tom Petty, persino la classifica dell’heavy metal: accontentiamo tutti, dai coetanei di mio padre che ama i Beatles ai diciottenni come mio nipote che adora Marylin Manson». Citando Marylin Manson viene subito in mente l’immagine da rockstar maledetta “sesso droga e rock’n’roll” e quando gli chiediamo cosa pensi di messaggi del genere Ringo afferma: «Sono a favore di qualsiasi esperienza purché con buon senso: non credo che un bicchiere di vino possa far male ma se ci si mette ubriachi alla guida puoi fare un danno a te e agli altri. Non sono per i divieti ma per il rispetto delle vite altrui».

Dj Ringo intervistato da Musica361 per i dieci anni di Virgin Radio

Spesso si sente dire che il rock è morto ma di fronte all’entusiasmo di Ringo non sembra proprio: «Dopo i concerti dei Guns’n’Roses o dei Rolling Stones di questa estate con migliaia di persone di ogni età o la nascita di nuove band come i Greta Van Fleet come si fa a dire che il rock è morto?» Più diffidente invece sul cosiddetto rock italiano: «Le rock band italiane che cantano in inglese sono troppo maccheroniche per il mercato estero, questo è sempre stato un problema. Poi ci sono artisti che cantano in italiano come i Negrita o Piero Pelù che adoro ma il rock italiano oggi non è più quello degli anni Ottanta: c’è stata una bella fiammata a quei tempi, poi la fiamma si è spenta».

Merito della lunga attività di Virgin probabilmente è anche la sua band portafortuna, i “numi tutelari” Ramones, che inaugurarono con una loro canzone l’emittente nel luglio 2007 ma Ringo non è scaramantico, anzi: «Ci hanno portato fortuna ma per contro non credo alla “sfiga”. Credo piuttosto che esistano persone o anche gruppi “negativi” per il loro modo di comportarsi e quelli stanno alla larga dalla mia radio. Non sopporto il concetto di “sfiga” comprese le sue esasperazioni, come nel caso di Mia Martini. Ogni giorno leggo sui social tante fake news o “fake sfighe”: c’è chi ha le spalle larghe e chi può soffrirne, comportiamoci bene».

Proprio riguardo ai social aggiunge: «Sui social vedo molti haters (coloro che odiano e perseguitano i personaggi di fama): in genere appena qualcuno pubblica dichiarazioni fuori dal coro subito viene etichettato razzista, nazista o altro senza la minima interazione, solo cogliendo il pretesto per sfogare altra violenza. E non è colpa dei social, che a mio avviso sono l’invenzione del secolo, sono le persone che fanno la società e possono rovinarla». E conclude con un invito: «Si può anche sbagliare, siamo umani, l’importante è assumersi le proprie responsabilità, restando però coerenti con se stessi. Non mi piace l’atteggiamento “politically correct” a priori senza reali intenzioni, bisogna dire quello che si pensa, esattamente come ho fatto io in questa intervista. Dopodiché qualcuno sarà soddisfatto e qualcuno non sarà d’accordo però così si vive veramente la vita. That’s rock’n’roll!»

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