In occasione del ritorno al teatro Menotti di Milano e delle imminenti tappe del tour estivo di Nessuna paura di vivere Musica361 ha intervistato la signora Ruggeri.

La cover dell’album Nessuna paura di vivere di Andrea Mirò.

Oltre che il titolo del suo ultimo disco, Nessuna paura di vivere è uno slogan che pare calzare perfettamente anche ad Andrea Mirò, che, come racconta, dopo aver chiuso la stagione al Teatro Menotti tra maggio e giugno protagonista di tre spettacoli di musica e parola diretti da Emilio Russo, si prepara al tour estivo.

Andrea Mirò, al secolo Roberta Mogliotti: qual è l’importanza di un nome d’arte ancora oggi?
Non c’è un’importanza particolare, si può scegliere per diversi motivi. Negli anni ’80 andavano molto i nomi d’arte: nessuno all’epoca avrebbe mai pubblicato un disco di uno che si fosse chiamato ad esempio Gualazzi, di sicuro glielo avrebbero fatto cambiare. In realtà era quello che pensavo anche io: chi avrebbe mai comprato un disco col mio cognome? Mogliotti va bene per un commercialista o un ragioniere, non certo come nome d’arte. Scelsi a tavolino Mirò, insieme al responsabile delle promozioni della EMI, perché a me piaceva molto la pittura. Poi abbiamo cercato un nome e qualcuno suggerì Andrea, ambiguamente maschile, che creò un po’ di scompiglio: era un periodo storico legato ancora a certi stereotipi e vedere una ragazza dal nome maschile e il look androgino ancora colpiva, per lo meno in Italia. I primi tempi l’ho vissuto in maniera un po’ ingombrante ma poi mi ci sono affezionata abituandomi non ad una doppia identità – io sono quello che sono anche sul palco – ma ad avere questa alternativa.

Prima ancora di Sanremo, nel 1986, ti aggiudichi la vittoria a Castrocaro con Pietra su pietra. Come ricordi quel primo importante traguardo?
Non è stato un evento che ho tenuto troppo in considerazione, è semplicemente capitato. Avevo 18 anni e sono entrata in questo mondo per caso, a bocca aperta: non ero pronta come i ragazzi di oggi, determinati ad affrontare questioni tecniche, discografiche e contrattuali. La vincita mi diede l’opportunità di firmare un contratto con una delle più grandi case discografiche in assoluto, la Emi, e poi andai di diritto a Sanremo: fu un’opportunità che mi mise di fronte a delle scelte e nell’ottica di capire quali fossero i miei obbiettivi. Ho cominciato a suonare nei locali e poi mi è capitata la prima vera occasione importante, una grossa tournée con Enrico Ruggeri: e ho conosciuto la persona che da 23 anni ormai è insieme a me.

Come è nata appunto la collaborazione con Ruggeri e cosa ha significato per te quell’esperienza?
Enrico era in cerca di una polistrumentista che potesse cantare le doppie voci insieme a lui: fecero dei provini e mi selezionarono. Quindi è seguita la tournée di Oggetti smarriti (1994), il disco successivo alla sua seconda vittoria sanremese, Mistero. Un tour da grandi numeri, circa 137 date: la prima grossa esperienza grazie alla quale ho avuto la possibilità di lavorare a stretto contatto con un artista che aveva tanto da insegnarmi, come già mi era successo con Mango, Vecchioni e Finardi. E quell’esperienza diretta mi ha dato tanto: come in tutte le arti la teoria serve a ben poco. D’altra parte non si diventa compositore con un corso di scrittura: puoi avere indicazioni preziose per esprimere al meglio la tua sensibilità ma non ti insegneranno mai a scrivere una canzone. Bisogna incanalare il talento, imparare a gestirsi e avere molta sistematicità ricordandosi che questo prima di tutto è un mestiere. Si può avere un’ispirazione alle 4 di notte e scrivere una canzone ma non è la norma. La norma è decidere che in tre giorni devi stendere tre pezzi e non uscire dalla stanza fino ad aver ottenuto qualcosa di buono. Non bisogna stare solo ad aspettare le intuizioni, è un lavoro. O per lo meno lo è davvero quando è così.

Per chi ti conosce e chi vorrebbe scoprirti: ad oggi qual è il tuo brano più rappresentativo, quello cioè che non può mancare ad un tuo concerto, e quello che ami di più?
I pezzi oramai storici, quelli che non possono mancare in ogni concerto, sono due in realtà, quelli scritti a quattro mani con Enrico: Primavera a Sarajevo, ribattezzata dal pubblico La Balalajka e Nessuno tocchi Caino. Sono sempre in scaletta nei miei live, pur con qualche arrangiamento talvolta cambiato. Tra i non necessariamente famosi ce ne sono tanti: tutti i brani che ho composto mi piacciono per motivi diversi. Me ne piacciono molti dell’ultimo disco: Piove da una vita, Così importante o Conseguenze.

Parliamo appunto di Nessuna paura di vivere: perché questo titolo e che tappa rappresenta per te questo disco?
È un titolo che racconta bene il contenuto del disco nel quale ricorre molte volte la parola “paura”. Non nell’accezione di terrore ma intesa come elemento che fa parte della nostra epoca: la paura di guardarsi allo specchio, dell’altro e del diverso, di quello che può succedere nel mondo con i suoi contrasti incredibili, la paura di non essere all’altezza… E soprattutto la paura come sprone per andare oltre l’ostacolo, che ti fa sentire quanto può essere importante quel momento, ti fa salire l’adrenalina e rendere il massimo. Non il panico che blocca ma la paura: la paura di salire su un palco, come di affacciarsi alla vita. E d’altra parte se manca quella è finito tutto: senza emozioni non hai più niente da regalare agli altri, solo mestiere. Questo è il concetto del disco raccontato attraverso le sue storie. Rappresenta una tappa matura: si discosta dal resto della mia discografia per sperimentazione, è un disco abbastanza anomalo, che non riesco ad accostare a nessun altro che io conosca tra gli italiani. É molto particolare, rappresenta il tentativo di distinguermi nel mio percorso, di realizzare qualcosa anche di più rischioso se vogliamo.

Intervista ad Andrea Mirò: Nessuna paura di vivere
Intervista a Andrea Mirò.

Il tuo stile, che fonde anima classica e rock, è sempre stato lontano dal mainstream. Da questo punto di osservazione, come vedi orientarsi il panorama musicale italiano?
C’è molto fermento. Quello che si potrebbe chiamare indie non esiste più, o comunque una parte dell’indie è diventata mainstream, come nel caso degli Afterhours, anche se la qualità dell’indie non corrisponde ai grandi numeri. Non esiste più molto di “alternativo” se per indipendente si intende alternativo. Esiste però ancora un ambito di nicchia, una rosa di artisti che sa invogliare il pubblico a venire ad ascoltare oltreché solo partecipare: una forma che si è persa negli anni.

La scorsa settimana hai calcato il palco del Menotti con Degni di nota insieme ad Alberto Patrucco, in questi giorni torni con Talkin’ Guccini e chiuderai la stagione con Brechtsuite. Che tappa ha rappresentato il teatro per te?
Il teatro è un ambito che non avevo tenuto in considerazione fino a poco tempo fa finché è arrivata questa proposta da Emilio per lo spettacolo su Brassens e Gaber. Io ero un po’ titubante ma Emilio mi ha incoraggiato e pare che da buon regista abbia visto giusto: quando gli attori veri vengono a farti i complimenti nei camerini vuol dire che hai lavorato bene.

In Degni di nota sono protagonisti Brassens e Gaber, musicisti definiti “impegnati”.  Esistono ancora oggi artisti “impegnati” o è una dimensione ormai perduta?
Oggi come oggi il cantautore impegnato, come poteva esserlo negli anni ’70, non esiste più. E credo che un artista impegnato debba prima di tutto essere impegnato a fare al meglio quello che sa fare. Personalmente, da musicista, non ho bisogno di dire cosa penso o di schierarmi, sono bassezze che non mi interessano. Ognuno nella vita privata ha le sue convinzioni, io non ho bisogno di spiegare quello che penso del mondo o della vita degli altri: sono semplicemente considerazioni che si evincono immediatamente da quello che scrivo e faccio. Anche in alcune mie biografie c’è scritto “artista impegnata nel sociale”: ma che significa? Il mio impegno nel sociale si realizza già scrivendo e facendo bene il mio lavoro: si fa politica anche così, si parla alla gente facendo bene il proprio mestiere.

In occasione del contest #Memolive, Musica361 ha visitato il Memo Restaurant, uno dei locali milanesi di musica dal vivo più importanti del momento.

Di fronte all’area in costruzione della stazione ferroviaria di Porta Vittoria a Milano, tra i nuovi palazzi residenziali, un albergo, l’Esselunga e parcheggi sotterranei, in via Ortigara, tra gli edifici anni ’50, quello che era il sito della ex sala cinematografica Abadan ospita da più di cinque anni il Memo Restaurant Music Club.

Una sala perfettamente adatta a esaltare la qualità del suono, impreziosita da luci soffuse e una galleria al piano superiore dalla quale si ha una gradevole vista sul palco.

Abbiamo intervistato la direttrice di sala Egle Spaggiari.

Memo Resturant Music Club Milano
Egle Spaggiari, direttrice di sala del Memo Restaurant Music Club di Milano

Cominciamo da un po’ di storia sulla struttura: come è nato il Memo Restaurant?
Il proprietario Alberto Pilotti fece restaurare cinque anni fa la sala dell’ex cinema Abadan chiusa nel 1980, mantenendo la struttura originale con il suo alto soffitto e le prospettive molto marcate della galleria. È stato utilizzato poi un arredo che si rifà alle suggestioni dell’America anni ’30, con un che di familiare tra camino, credenza e divani, e sparsi un po’ dappertutto libri non solo di musica ma anche di moda, fotografia e letteratura.

Qual è la vocazione del Memo?
Il Memo è nato come jazz club, nella tradizione di altri locali milanesi come il Capolinea che poi ha chiuso, come molti altri nel corso degli anni, uno degli ultimi è stato Le Scimmie. Ormai sono rimasti veramente pochi i locali importanti che fanno jazz o comunque musica dal vivo a Milano, soprattutto nei mesi invernali. E più lavoro in questo settore e più capisco le difficoltà: fare musica dal vivo in questo periodo storico è molto difficile. I costi legati alla gestione della musica sono molto importanti, se poi si aggiungono quelli della ristorazione le difficoltà raddoppiano. Il Memo stesso è un locale particolare che comprende musica dal vivo e ristorazione e va gestito con molta attenzione.

Dalla sua apertura ad oggi è sempre il jazz a farla da padrone?
Il jazz ha una clientela di nicchia e ha funzionato per un certo periodo ma poi abbiamo deciso di diversificare l’offerta. Negli ultimi anni, abbiamo proposto altri generi musicali che funzionano altrettanto bene, persino la lirica. Aprirsi ad altri generi musicali non solo ci ha a sua volta aperto a nuove idee ma personalmente mi ha anche fatto incontrare artisti meravigliosi che neanche avrei immaginato. Lo spazio inoltre funziona bene anche per eventi privati e aziendali durante la settimana.
La formula del Memo è assolutamente originale, non si trovano molti locali simili a Milano, siamo unici direi. I nostri competitor come il Blu note, tempio del jazz, o La Salumeria della musica hanno una programmazione e una location diversa dalla nostra o che comunque ci accomuna poco.

Chi è il cliente tipo del Memo?
Si può trovare sia l’intenditore sia chi decida di passare una serata per cenare ascoltando musica senza neanche sapere chi suoni.
Durante la settimana il nostro target è diversificato: chi viene il giovedì ad esempio ha voglia di cenare con stile ascoltando jazz o swing, comunque una musica che accompagni il pasto senza disturbare troppo. La clientela del venerdì e del sabato invece ha voglia di divertirsi con soul o funky. Rispetto al pubblico di zona ci sono più avventori da altre parti di Milano o anche da fuori ma il bello è che comunque sta diventando una clientela abituale, disposta a sperimentare le nostre proposte. E ultimamente, oltre alla musica, abbiamo puntato molto anche sulla cucina.

Memo Restaurant Music Club
Più lavoro in questo settore – afferma Egle Spaggiari – e più capisco le difficoltà perchè fare musica dal vivo è molto difficile.

Qual è la caratteristica dei vostri menù?
Non abbiamo più, rispetto agli ultimi anni, un menù fisso come molti nostri competitor ma scegliamo quasi quotidianamente nuove materie prime tra cui pasta fresca, pane e focaccia, salumi e formaggi dop che ci arrivano direttamente dai posti di origine. La qualità è migliorata e si sente.
Inoltre offriamo un menù differente durante le diverse serate: ad esempio per la serata jazz che allestiamo una volta al mese con l’associazione JazzMilano, abbiamo il “menù capolinea”, costituito da un piatto unico con verdura, scamorza grigliata e bruschette, in omaggio al menù tipico di quello storico locale.

Generalmente, per quanto riguarda la musica dal vivo, tendete a dare più visibilità ad artisti affermati o anche ad emergenti?
Hanno partecipato spesso a delle nostre serate molte famigerate cover band e posso dire che ce ne sono di buon livello. Accanto ad esse sul nostro palco sono passati nomi internazionali, come i Jamiroquai, accanto a grandi nomi italiani, come Andrea Mirò o Roberto Vecchioni. E pur consapevoli del rischio di inserire nomi o voci nuove all’interno del nostro palinsesto a volte, pur a discapito del fatturato e delle entrate, abbiamo comunque dato spazio anche ad emergenti. Senza contare, in questo senso, il nostro progetto più ambizioso in essere, il contest #Memolive.

Come è nato #Memolive?
É un progetto nato quasi per caso ma che è diventato sempre più importante dallo scorso 17 gennaio. Si tratta di un prodotto assolutamente nuovo, un talent dedicato ai giovani, con il sostegno di partner di tutto rispetto come Mescal, l’etichetta discografica fondata da Ligabue, All Music Italia e la collaborazione del direttore artistico di RadioItalia Antonio Vandoni. Questa squadra volenterosa ha realizzato un contest assolutamente gratuito per giovani artisti dai 18 ai 36 anni: ciò di cui siamo più orgogliosi del nostro contest è proprio la trasparenza e la gratuità. Mescal produrrà per il vincitore un album e un video pagato da uno dei nostri partner. Non solo: è prevista anche una compilation chiamata #Memolive che comprenderà i brani dei primi 10 vincitori.
In questo contest ognuno dei partner ha dato qualcosa: noi abbiamo messo la nostra location ogni martedì sera fino a giugno, quando scopriremo il vincitore.

Beata Beatz ha recentemente pubblicato Speed of light, nuovo singolo cantato in coppia col rapper italiano Gué Pequeno, brano che si prepara a diventare uno dei prossimi tormentoni estivi.

Beata Beatz con Gué Pequeno: Speed of light
Beata Beatz con Gué Pequeno: Speed of light

Già conosciutissima in Germania Beata Beatz ha scelto di imparare la nostra lingua e lanciarsi alla conquista del pubblico italiano col nuovo singolo Speed of light. Disponibile dal 17 marzo in tutti i digital store, il brano vede il featuring del famoso rapper italiano Gué Pequeno, che ha contribuito alle numerosissime visualizzazioni, condivisioni e apprezzamenti sui social dagli amanti del genere: un lavoro discografico in cui il pop si combina col rap a sottolineare una forte intesa musicale tra i due artisti.

Nell’attesa della pubblicazione a giugno del nuovo album di Beata Beatz, Musica361 ha intervistato la cantante.

Quando hai cominciato a cantare?
I miei genitori sono cantanti, vengono dalla Polonia. Io sono cresciuta in Germania a suon di musica: fin da piccola i miei giocattoli sono stati strumenti musicali.

E cosa ti piaceva ascoltare?
Ho sempre ascoltato tutto quello che passava la radio. Non ho “idoli”, ancora oggi mi piace ascoltare molti generi, dall’ R&B al soul all’hip hop. Sono comunque una cantante pop, per questo sempre molto attenta alle tendenze del pop internazionale: non mi perdo mai la top ten in radio.

Perché hai scelto come nome Beata Beatz?
É un nome che richiama un suono, il beat, cioè il ritmo che è dentro la mia musica. Ho voluto che nel mio nome risuonasse questo significato, fosse cioè un nome che evocasse la musica.

Veniamo al tuo ultimo singolo, Speed of light: come è nato?
Era tempo che volevo cantare un pezzo con un rapper. Proprio mentre ero qui in Italia ho pensato: “Perché non realizzare come prossimo singolo un brano internazionale ma con un artista italiano?” Ne ho parlato con il mio manager e abbiamo pensato di unire due generi diversi, pop e rap, in una canzone che potesse funzionare sia per me che per l’artista che avesse duettato con me. Anche se l’idea del duetto non è nuova la musica diventa più interessante quando si incrociano stili diversi.
Ho conosciuto Gué, lui ha accettato. E poi abbiamo lasciato che parlasse la musica.

Beata Beatz con Gué Pequeno: Speed of light
Beata Beatz.

Come è stato lavorare con Gué Pequeno?
É un artista molto vero, autentico. Quando l’ho conosciuto ho subito pensato fosse il professionista giusto per questo progetto. Mi è piaciuto molto lavorare con lui.

Qual è il messaggio di Speed of light?
Speed of light perché tutto può accadere molto in fretta, alla velocità della luce, ogni giorno la vita è una sorpresa. Per questo la canzone racconta di quanto vada continuamente alimentata la fiamma dell’amore.

L’idea del video come è venuta?
L’abbiamo girato a Milano in un moderno hotel di design tra effetti di luce, con evidenti richiami alla canzone. Mi piace il risultato, molto professionale.

Speed of light anticipa l’uscita del tuo nuovo disco, a giugno. E tu puoi anticiparci qualcosa?
Il disco è stato prodotto in Svezia, Germania e in Italia con la collaborazione di MDA Records di Massimo D’Ambra. Il mio stile rimane quello del pop classico con elementi dance ma sempre aperto a nuove contaminazioni. E Speed of light segna questa mia nuova fase creativa e di sperimentazione. Sarà comunque un disco fresco e rivolto ad un pubblico giovane.

A proposito di pubblico, come ti aspetti l’accoglienza del pubblico italiano?
Ho già fatto tanti live qui in Italia: il pubblico italiano ama la musica ed è emozionalmente più coinvolto rispetto al pubblico tedesco. Confido in una bella accoglienza! (sorride).

A quattro anni di distanza da Grande Nazione, i Litfiba sono tornati con il loro undicesimo album i cui brani sono stati recentemente presentati anche nella data di Assago lo scorso 31 marzo. Per chi ancora non lo avesse ascoltato, la recensione di Musica361.

Litfiba, Eutòpia è il nuovo albumDopo il ritorno di Pelù in formazione con Ghigo Renzulli, Antonio Aiazzi e Gianni Maroccolo nel tour celebrativo Trilogia 1983-1989 live (2013), con una scaletta fatta dai brani della ‘trilogia del potere’ (Desaparecido, 17 re e Litfiba 3) e l’omaggio agli anni Novanta col tour dedicato alla ‘tetralogia degli elementi’ (El diablo, Terremoto, Spirito e Mondi sommersi), si chiude con Eutòpia anche l’ultima trilogia degli stati, inaugurata con Stato Libero di Litfiba (2010) e proseguita con Grande Nazione (2012).

Eutòpia, secondo album di inediti della nuova era Litfiba, ribadisce il marchio di fabbrica del duo fiorentino, caratterizzato da chitarre potenti e serrate a cui si accompagnano testi crudi e senza compromessi, alternando ballate e momenti più aggressivi ispirati all’attualità socio-politica.

Apre il disco l’energico riff di Dio del tuono, esaltazione dei militanti contro la dittatura dell’ignoranza, per proseguire con Limpossibile, il primo martellante singolo, a cantare l’eterna lotta tra David e Golia, alias i deboli contro ‘i potenti della terra’, esortando al raggiungimento di obbiettivi solo apparentemente impossibili.

Questo stile schietto e grezzo si ritrova anche in Intossicato, denuncia contro l’inquinamento nella terra dei fuochi, nel manifesto ribelle Santi di periferia o nella rabbiosa Gorilla Go, per trovare il suo culmine, ammiccando quasi a sonorità gothic metal, nell’invettiva contro la strumentalizzazione religiosa de In nome di Dio, dedicata alle vittime della strage del Bataclan a Parigi.

Uno dei momenti più poetici e interessanti è Maria coraggio, canzone dall’arrangiamento inquietante ma orecchiabile dedicato alla vicenda di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia uccisa dalla propria famiglia ‘ndranghetana, o le ballate dalle melodie accattivanti di Straniero e la title track Eutòpia che contiene il DNA del disco: “Eutòpia è l’isola che c’è per chi la cerca e non si arrende mai / dal polo nord al polo sud la puoi creare ovunque tu vorrai” – messaggio ribadito anche nella perseveranza di Oltre.

Nelle 10 tracce la voce di Pelù è ancora una volta coerentemente e irriducibilmente schierata contro tutto e tutti (“queste mie parole sono artiglieria” dice nel singolo Limpossibile), ma la criticità sta talvolta nell’uso di luoghi comuni eccessivamente populisti, espressi attraverso motti ideali più per uno sfogo da social che come testo di una canzone.

L’indignazione di Pelù viene agevolata dall’alto volume della chitarra di Renzulli in una esaltazione autocelebrativa di una forma di canzone già sentita nei loro lavori precedenti – sonorità già sperimentate, in una sintesi tra rock grezzo e atmosfere psichedeliche e dark.

Litfiba, Eutòpia è il nuovo album
Litfiba, Eutòpia è il nuovo album.

Ne risulta un album pretesto per promuovere ulteriormente l’immagine della band, certo ’sincero’ e coerente, come definito dagli stessi autori, anche se a tratti retorico e ripetitivo nel suono e nelle tematiche.

Il problema non è tanto il disdegno della band per le storture del mondo cantato e suonato alla loro maniera quanto i poco convincenti proclami di ribellione dovuti all’età e alla loro condizione: le parole di Pelù erano vera artiglieria nel periodo d’oro dei Litfiba quando il loro status era davvero “contro” ma oggi, prodotti dalla supermajor Sony o alla conduzione di talent show questa posa da oppositori duri e puri, ammettiamolo, stona un po’.

L’album – acquistabile anche nella versione doppio vinile comprensiva delle due bonus track Tu non ceri scritta da Piero Pelù per la colonna sonora del film di Erri De Luca e La danza di Minerva scritta da Ghigo Renzulli – certamente può in qualche modo soddisfare gli irriducibili fan di lunga data ma forse può legittimamente risultare meno accattivante per i più giovani ascoltatori, che anzi possono francamente trovare più pungenti e intriganti altre pubblicazioni discografiche della band fiorentina.

Dopo la data di Assago i Litfiba continueranno a calcare i palchi di tutta Italia nelle date prodotte e organizzate da F&P Group.

Tracklist di Eutòpia

  1. Dio del tuono – (03:21)
  2. L’impossibile – (04:16)
  3. Maria Coraggio – (03:54)
  4. Santi di periferia – (03:36)
  5. Gorilla go – (03:32)
  6. In nome di Dio – (04:57)
  7. Straniero – (04:50)
  8. Intossicato – (04:32)
  9. Oltre – (03:26)
  10. Eutòpia – (06:11) 

Il videoclip di L’impossibile

Lo aveva annunciato a Musica361 e la promessa è stata mantenuta: lo scorso 13 dicembre è stato pubblicato Tiamoforte – Musica, energia per la vita, il primo album strumentale del pianista di Casale Cremasco.

Tiamoforte, da Andrea Benelli
Il pianista Andrea Benelliè di Casale Cremasco (CR).

Andrea Benelli, classe 1980, diplomato presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano in organo (2000), pianoforte (2002) e clavicembalo (2003), musicista presso l’Orchestra, la Filarmonica e i Cameristi del Teatro alla Scala sotto la guida dei più grandi direttori del mondo fino al 2013, dalla metà del 2014 aveva cominciato a comporre brani per pianoforte solo.

Noi lo avevamo intervistato a luglio, durante la messa a punto del suo primo album, circa una dozzina di inediti registrati nel 2015 presso la Concert Hall Fazioli a Sacile (PN). E la scorsa settimana finalmente, a coronamento di una intensa produzione durata due anni, Benelli ha dato alla luce la sua prima fatica discografica con l’etichetta Don’t Worry Records: Tiamoforte – Musica, energia per la vita, 13 tracce strumentali che esplorano ed esprimono le infinite emozioni che hanno accompagnato momenti importanti della vita del nostro pianista.

Tiamoforte, da Andrea Benelli 1

Da Sogno D’amore, nato dall’improvvisazione di un pomeriggio, passando per Remember me ispirata ad una ragazza conosciuta un’estate in Sardegna mentre era animatore, fino a Stronger than before, toccante brano dedicato alla tenacia e alla caparbietà del padre a seguito di un tragico episodio, l’album sciorina 13 melodie crossover che descrivono precise e intense sensazioni: «Questi brani raccontano prima di tutto il mio cammino nel mondo insieme al mio fedele compagno, il pianoforte» ha dichiarato Benelli. Un album che in sostanza accompagna l’ascoltatore in «un viaggio emotivo e musicale guidato dall’energia che gli elementi della vita mi hanno trasmesso».

Elementi ben sintetizzati a cominciare dal titolo Tiamoforte, fusione delle parole pianoforte e amore, principi guida dell’esistenza di Benelli: prima di tutto la musica che «è stata e continua ad essere una forza che mi aiuta ad affrontare con spirito rinfrancato le difficoltà quotidiane nel raggiungimento dei miei obiettivi». E insieme alla musica, l’amore in tutte le sue forme, principale fonte di ispirazione in tutte le tracce, «dall’amore materno o tra due individui a quello inteso come consolazione nella sofferenza o nelle scelte difficili fatte nel corso della vita, fino all’amore incondizionato per gli amici e persino per le creature. Mi auguro che tutti coloro che ascolteranno il mio lavoro si sentano pervasi dall’energia positiva della mia musica e vengano avvolti da quest’aura amorosa».

Un disco dunque dedicato a chiunque voglia lasciarsi abbandonare a note di dolcezza e positività, che mai come in questo periodo si intonano a queste giornate di festa.

Emozionato come alla realizzazione di un sogno ma con lo spirito di chi dona – e quale momento migliore del Natale – Benelli vive con grande soddisfazione questa prima fatica dalla quale ora si aspetta di ricevere quanto ha dato: «Senza peccare di presunzione, mi aspetto un successo che ritengo di meritare, non solo per me, ma anche per chi, in questi lunghi anni di transizione e di mia metamorfosi di musicista, mi ha sostenuto, accompagnato e inondato di fiducia».

Queste le parole del nostro pianista ma lasciamo ora che sia solo la sua musica a parlare: Tiamoforte è disponibile in CD e sulle principali piattaforme digitali – ITunes, Spotify, Google Play, Amazon e Shazam. Buon ascolto.

Musica, energia per la vita

Nel dicembre del 1974 Lucio Battisti spiazzò pubblico e critica pubblicando il suo album più ambizioso e complesso, marcato da sonorità latine, in bilico tra word music e progressive rock. A più di quarant’anni uno dei suoi dischi probabilmente meno conosciuti rimane ancora (forse) il più interessante.

Riscoprire Battisti: Anima latina
Anima Latina di Lucio Battisti è del 1974.

Lucio Battisti, fresco del successo de Il nostro caro angelo (1973), è oramai un affermato autore di riferimento per il cantautorato italiano da almeno un decennio. Il pubblico e la critica sanno cosa aspettarsi da lui e probabilmente questo ruolo a Lucio comincia a stare stretto rispetto alla sua voglia di sperimentare. Attento ascoltatore, sente il bisogno di una “innocente evasione”, intrigato da tempo dalle influenze musicali straniere, prime fra tutte quelle che vengono dalla Gran Bretagna, dall’America e anche dal Sud America, terra che visita e nella quale si trasferisce insieme a Mogol per qualche mese tra il 1973 e il 1974.

In quel periodo, immerso nel folklore delle musiche tradizionali di Argentina e Brasile, trova ispirazione per il suo disco più ambizioso e complesso: Anima latina. «Un’operazione culturale, quasi un esperimento» dichiarerà, un tentativo cioè di declinare in un’alchimia sonora elementi latini, cantautorato italiano e progressive rock. «La mia permanenza in Sudamerica mi ha fatto prendere coscienza di un’altra dimensione della musica […] come vita, come possibilità di stare insieme, di ballare insieme, di protestare insieme. La musica brasiliana […] non ha perso la sua funzione di consentire a chi è “in mezzo alla musica” di parteciparvi […] un grosso fatto sociale oltre che musicale» (Lucio Battisti, intervista Ciao 2001, 1 dicembre 1974).

Lucio parla di questa idea a Mogol e al ritorno in Italia, nella primavera del 1974, si mette al lavoro negli studi Fono – Roma Sound Recordings insieme ad uno schieramento di musicisti. Lavora duro tra prove, ripensamenti e versioni poco soddisfacenti poi completamente riarrangiate e nuovamente registrate. Incide e sovraincide frasi musicali in lunghi brani dall’orchestrazione estremamente composita e stratificata, fatta di cori, fiati, percussioni e sintetizzatori: ne ricava talmente tanto materiale che in principio pensa a un disco doppio, possibilità che poi viene scartata – ad oggi comunque rimangono ancora inedite alcune registrazioni di quelle sessioni.

A poco a poco prende forma il disco che per primo metterà in discussione la fama del solido cantautorato popolare di Mogol-Battisti.  Finalmente pubblicato nel dicembre del 1974, quando i fan della prima ora posano la puntina sul disco rimangono disorientati: le parole del primo brano Abbracciala, abbracciali, abbracciati, che inizia sorniona tra rarefazioni elettroniche, sono volutamente quasi impercettibili per il basso mixaggio della voce allo stesso livello degli altri strumenti.

Il tutto secondo i piani di Lucio, come aveva preannunciato in un’intervista di Renato Marengo per Ciao 2001, per costringere l’ascoltatore a concentrarsi maggiormente sulle parole nella loro interazione musicale: «Quando uno parla in mezzo agli altri se la sua voce interessa a chi ascolta viene individuata in mezzo alle altre, magari con un po’ più di attenzione. Questo ho fatto con il mio LP: ho messo la mia voce in mezzo alla mia musica stimolando gli altri a capire le parole, ad afferrare il senso o la sola sonorità […] non perché questo sia piacevole, ma perché ascoltare significa qualcosa: e ascoltare con attenzione, magari rimettendo il disco daccapo perché non si è capito, facendo irritare chi non è riuscito ad individuare al primo ascolto una parola […] è il modo che ho scelto per comunicare con gli altri, per essere presente in mezzo agli altri».

E questa non è che la prima disorientante rivoluzione: man mano che si prosegue nell’ascolto ci si rende conto che tutti i brani (tranne Due Mondi) sono privi di ritornello, costruiti su lunghe sequenze musicali dominate da strumenti a corda, cori e sintetizzatori. Arrangiamenti stratificati, melodie complesse e poco immediate, ritmiche complicate in alcune sequenze da tempi dispari rappresentano la vera conquista di Battisti: allontanarsi dal suo stile formato-canzone aprendo la strada verso nuovi generi.

Lontano dalle consuete immagini di quotidianità di Mogol, a questa nuova musica si sposano liriche brevi, ermetiche e crepuscolari ma di grande carica evocativa. Sono testi che raccontano, nella maggior parte delle tracce, il rapporto di coppia dal punto di vista dell’io-poetico maschile, conferendo all’album una sorta di tematica da concept avente per oggetto il rapporto uomo-donna/separazione-unione o più semplicemente il percorso umano e sentimentale di un bambino e una bambina in un mondo periferico, con evidente riferimento alle favelas brasiliane.

Si passa così dal tripudio dei sensi di Abbracciala abbracciali abbracciati a liriche amorose più innocenti che riguardano la scoperta del sesso come Il salame o la jam pastorale Anonimo, che si conclude con una citazione bandistica velocizzata de I giardini di marzo. Il rapporto di coppia oscilla tra critici allontanamenti e legami erotici, passando per Macchina del tempo, il brano musicalmente più complesso dell’album, incentrato sulle estreme conseguenze dell’alienazione amorosa fino ai quattro versi di Separazione naturale, il testo più breve scritto da Mogol, il malinconico allontanamento finale.

Tra le pieghe delle tematiche amorose paesaggi urbani di musica e miseria, progresso e natura contaminata tipici della vitalità sudamericana: emblematica su tutte la title track, Anima latina, con una folkloristica introduzione strumentale d’accompagnamento al quadretto di Mogol, che all’epoca ritenne essere il più bello da lui mai scritto, fino alla sfrenata danza carioca del finale.

Merita menzione anche Gli uomini celesti, samba avvolta nelle atmosfere oniriche del sintetizzatore e squarciata da un breve intermezzo percussivo, nella quale si condanna  la facilità di molte illusioni dell’epoca, prendendo le distanze da un certo conformismo modaiolo.

Un album certamente inconsueto che all’epoca spiazzò molti fedeli ascoltatori di vecchia data ai quali Battisti non regalò neppure un singolo degno di altri brani del suo migliore repertorio ma che poi, nonostante tutto, rimase per tredici settimane l’album più venduto in Italia raggiungendo il primo posto.

Riscoprire Battisti: Anima latina 1La critica si divise tra chi lo stroncò in pieno e chi provò timidamente a difenderlo («Battisti fa un tentativo per uscire da una certa strada: in questo senso il disco è positivo», Andrea Lo Vecchio) mentre oggi molti ascoltatori contemporanei, non necessariamente fan, a riprova del suo autentico valore, hanno notevolmente rivalutato l’album tra i migliori mai scritti dal cantautore, per alcuni addirittura il suo capolavoro degli anni Settanta, nonché precursore dell’era Battisti-Panella.

Che vogliate apprezzarlo come concept album di progressive rock mediterraneo capace di miscelare tradizioni musicali diverse e inusuali trovate ritmiche o come curioso esperimento, rimane indubbio che si tratti di un’opera unica e ineguagliabile che ha segnato non solo il percorso musicale di Battisti ma di molti altri artisti da allora fino ai contemporanei Verdena e Dente.

Un disco che ancora oggi merita un ascolto e comunque rappresenta un’altra occasione per riconfermare, se ancora fosse necessario, che Battisti è stato uno dei pochi veri cantautori italiani a “fare musica” senza nulla o poco invidiare ai colleghi stranieri.

  1. Abbracciala abbracciali abbracciati
  2. Due mondi (con Mara Cubeddu)
  3. Anonimo
  4. Gli uomini celesti
  5. Gli uomini celesti (ripresa)
  6. Due mondi (ripresa)
  7. Anima latina
  8. Il salame
  9. La nuova America
  10. Macchina del tempo
  11. Separazione naturale

ANIMA LATINA (1974)

Il cantautore romano che abbiamo conosciuto con il tormentone Vorrei cantare come Biagio e Ti regalerò una rosa, con la quale vinse Sanremo 2007, da qualche tempo si sta dedicando al teatro con buoni risultati. Musica361 ha incontrato Simone Cristicchi.

Simone Cristicchi: in bilico tra musica e teatro ma sempre sotto i riflettori 1
Simone Cristicchi.

Dopo Magazzino 18, che racconta il dramma dell’esodo istriano, giuliano e dalmata di molti italiani costretti ad abbandonare la propria terra nel secondo dopoguerra, Cristicchi torna in teatro per raccontare un’altra storia italiana poco conosciuta ma sicuramente di grande fascino: vita, morte e misteri del mistico David Lazzaretti. Abbiamo colto l’occasione per fare con Cristicchi un bilancio della sua carriera tra musica e teatro.

Simone, è vero che la tua prima vera passione è stata il fumetto?
Il disegno è stata la prima manifestazione di un talento innato, fin da piccolo. Quando avevo 16 anni conobbi Benito Jacovitti che è stato per me il primo maestro d’arte. Proprio d’arte più che di disegno: è stato lui a insegnarmi il rigore dell’artista e soprattutto la ricerca di quel tocco che rende ogni artista unico e irripetibile. E trovare il mio stile, prima come fumettista e successivamente come cantautore, è stata una ricerca lunga.

Per dirla col titolo del tuo primo disco, quando hai capito di essere un Fabbricante di canzoni?
Mi ha formato molto ascoltare tanta musica d’autore. Poi ho cominciato a suonare: nei miei primi pezzi mi ispiravo un po’ goffamente ad un cantautorato alla De Gregori e De Andrè. Nel 1998, con lo spirito di chi vuole tentare una nuova strada, se fosse andata bene avrei continuato altrimenti lasciato perdere del tutto, mi iscrissi ad un concorso per cantautori in Abruzzo e vinsi. Con i soldi del premio mi registrai in SIAE, come autore e compositore. L’inizio del mio percorso musicale è cominciato quella sera d’agosto del 1998 davanti ad una piazza gremita da qualche migliaio di persone: quando le ho sentite applaudire per la prima volta ho capito che le mie canzoni potevano emozionare qualcuno. Da lì al vero esordio però passò un’altra decina d’anni.

Come si chiamava il pezzo con il quale hai vinto quel concorso?
L’uomo dei bottoni: parlava di un senzatetto che incontravo sempre alla fermata della metropolitana di Roma che prendevo per andare in Università. Mi aveva colpito la figura di quest’uomo che provava a vendere chincaglierie per lui preziose ma neppure considerate dai passanti.

Tra le tue prime vittorie anche il Cilindro d’argento al Festival “Una casa per Rino”, dedicato a Rino Gaetano. E poi la tua militanza nei CiaoRino, la più famosa cover-band dell’artista crotonese. Come è nato l’amore per Rino Gaetano?
È stato un amore a primo ascolto: ho sentito qualcosa di me nel suo modo di fare musica. Nelle sue canzoni convive la voglia di emozionare con testi che, insieme a contenuti profondi, esprimono anche un elemento grottesco: queste due anime hanno sempre convissuto anche nei miei dischi, penso a brani caustici ma che fanno sorridere come la mia Ombrelloni o L’Italia di Piero. Rino Gaetano resta indubbiamente uno dei miei riferimenti musicali e un nume tutelare per chi voglia divertirsi con la musica lanciando allo stesso tempo piccole frecciate.

C’è un suo brano che hai amato in particolare?
Le Beatitudini. Lo incisi anche per un album di cover dedicato a Gaetano, reinterpretandolo in una versione quasi punk.

Simone-Cristicchi-IntervistaIn tema di interpretazioni hai cantato anche Questo è amore, firmata da Sergio Endrigo. Chiedo a te che hai avuto anche modo di conoscerlo personalmente: oggi viene degnamente ricordato?
Endrigo ebbe una vita molto avventurosa ed intensa, era un piacere starlo ad ascoltare. Era anche molto divertente, a differenza di quanti lo reputassero un musone. Come artista probabilmente avrebbe meritato e meriterebbe più attenzione, oltre che per i suoi successi come Io che amo solo te e Lontano dagli occhi, anche per il suo repertorio sudamericano, quello con Vinícius De Moraes, i dischi con Toquinho o le canzoni con i testi di Pasolini e Ungaretti.

Nel 2005 finalmente il successo con Vorrei cantare come Biagio, primo singolo che ha lanciato il tormentone Cristicchi. Ancora oggi molti ti ricordano prima di tutto per quella canzone: a distanza di più di 10 anni di carriera come vivi quel successo?
Quella canzone per me è stata indubbiamente una benedizione del cielo, nonostante la abbia scritta in un momento di grande sfiducia nel mondo della discografia. Quella che in principio poteva sembrare una presa in giro di Antonacci, in realtà ha rappresentato un pretesto per criticare il mondo discografico: in quelle strofe c’è il grido di chi non trova spazio per poter esprimere le proprie idee in musica. Ironia della sorte poi proprio quel brano mi ha fatto sfondare. Non posso che essere debitore a quella canzone, anche se, introdurmi nel mondo del mainstream con un tormentone ha anche rischiato di marchiarmi per tutta la carriera. Fortunatamente ho avuto una seconda opportunità altrettanto benedetta, il Festival di Sanremo 2007, occasione grazie alla quale ho potuto dimostrare di essere un cantautore e non una macchietta.

Vinci la 57° edizione del Festival di Sanremo con Ti regalerò una rosa (2007) e sempre in quell’anno esce il tuo libro Centro di Igiene Mentale. La follia è una tematica che sicuramente ti distingue nel processo artistico: qual è la cosa che più ti affascina di quel mondo?
Da bambino mi affascinava il mondo parallelo che sentivo vivere dai malati di mente. Poi, quando mi sono trovato ad indagare più a fondo la realtà della malattia mentale parlando con molti che avevano vissuto l’esperienza del manicomio, da psichiatri a infermieri fino agli stessi malati di mente, mi sono reso conto di quanto quella dimensione fosse invece dolorosa, fatta di emarginazione e pregiudizio e quanto ben poco avesse di così affascinante su cui speculare filosoficamente. Anche se abbiamo avuto esempi di personaggi la cui follia è diventata materia d’arte: insieme a “folli comuni” sono esistiti anche malati di mente come Van Gogh o Alda Merini. Non bisogna dimenticare però che quello che può pur apparentemente sembrare affascinante, nasconde sempre un grande dramma, qualcosa che ancora oggi gli scienziati non riescono a comprendere fino in fondo.

Come cantautore ti definiresti impegnato?
Non saprei dire se sono impegnato o no: mi piace raccontare storie di confine, argomenti di cui si parla meno, da emarginati. In queste storie, più che vero impegno sociale, trovo una grande poesia. Un tipo di poesia che mi fa piacere sentire: forse perché anche io in qualche modo mi reputo o mi reputavo un emarginato.

Lo scorso 15 novembre è stato pubblicato Il secondo figlio di Dio, il tuo romanzo sulla figura di David Lazzaretti, mistico toscano conosciuto come “il Cristo dell’Amiata”. Anzitutto come ti sei imbattuto in questo personaggio?

Simone Cristicchi: Il secondo fiiglio di Dio
Simone Cristicchi: Il secondo fiiglio di Dio.

L’ho conosciuto frequentando il territorio del Monte Amiata, tra la provincia di Siena e Grosseto, terra nella quale la sua vicenda è ancora molto sentita. Ho scoperto che su questo mistico sono stati scritti molti saggi in Toscana ma a livello nazionale non è stato ancora abbastanza valorizzato per quello che ha compiuto: nell’arco della sua vita, singolare e avventurosa, riuscì a cambiare la realtà in cui viveva attraverso la forza delle proprie idee, fino alla tragica morte per il proiettile di un carabiniere. E a 180 anni dalla sua nascita ancora oggi è oggetto di culto: gli è stato persino dedicato un museo e un centro studi tutt’ora attivo nel suo paese natale, Arcidosso.

Perché hai intitolato il tuo romanzo, e il tuo nuovo spettacolo, Il secondo figlio di Dio?
Il secondo figlio di Dio si rifà alla sua proclamazione di “Cristo in seconda venuta” che costò al Lazzaretti un processo e una scomunica dal Santo Uffizio. Probabilmente se affermassi che Cristo è nato il 6 novembre del 1834 ad Arcidosso in Toscana sembrerei un esaltato ma devo confessare che i documenti che abbiamo sono puntellati da coincidenze e testimonianze inquietanti che per lo meno fanno venire qualche dubbio. È un mistero che cerco di indagare.

Cosa ti ha spinto a far conoscere David Lazzaretti?
In ogni secolo, nella storia dell’umanità, ci si imbatte in figure che sembrano giungere da un’altra dimensione a indicare una strada agli esseri umani e il Lazzaretti non fa eccezione: pur ampiamente studiato da Gramsci a Tolstoj, da Pascoli a Lombroso però è stato poi dimenticato. Le sue istanze di solidarietà, uguaglianza e istruzione proclamate a metà Ottocento però continuano ad essere molto attuali. Mi è sembrato doveroso raccontare il risultato di questa indagine, condotta in circa tre anni di ricerche, sia con uno spettacolo ma anche con un romanzo: ho creduto che questa potesse essere una bella sfida per me, sia come scrittore che come divulgatore. Il mio scopo principale e restituire a quest’uomo il posto che merita nella storia italiana: mi piacerebbe che il mio romanzo potesse diventare un nuovo “Codice Da Vinci”, diciamo il mio “Codice Lazzaretti”.

In questo spettacolo, come nel precedente, si alternano momenti recitati e canzoni: dato che nasci come cantautore, come ti sei trovato a conciliare queste due dimensioni?
Si tratta di uno spettacolo teatrale vero e proprio in cui interpreto più personaggi. Ci sono canzoni inedite che sottolineano alcuni momenti ma resta la performance di un attore che ha poco a che vedere col cantautorato. I testi delle canzoni, ispirate alle fonti sulla vicenda del Lazzaretti, mi hanno aiutato semplicemente a sintetizzare in forma musicale tante parole.

La maggior parte del pubblico al momento è abituato a legare il tuo nome ancora alla musica. Il tuo ultimo disco è Album di famiglia (2013): stai preparando qualcosa?
Dal punto di vista discografico non ho novità da segnalare. Continuo comunque a fare concerti e la musica rimane fondamentale per la mia carriera anche se ultimamente sto raccogliendo molto dal teatro.

Come stai vivendo questa esperienza teatrale che ti interessa ormai da qualche anno?
Sono impegnato a costruirmi una nuova credibilità artistica che spero non verrà tradita dal pubblico di sala, permettendomi di continuare a seguire questo meraviglioso percorso. Magazzino 18, lo spettacolo precedente, ha avuto 170.000 spettatori: è un piccolo merito che con tanta fatica mi appunto come una medaglia immaginaria. Quando mi sono proposto nel mondo del teatro, francamente non ho goduto da subito di tanta benemerenza ma ora mi ci sto dedicando con crescente impegno e dedizione: sicuramente al momento voglio continuare a proporre agli spettatori che acquistano un biglietto per venirmi a vedere qualcosa di affascinante e inedito che possa sempre intrigarli e appassionarli.

Lo scorso 11 novembre è stato pubblicato Le Migliori, secondo disco di inediti della coppia d’oro della canzone italiana, Mina e Celentano. Ecco la recensione per Musica361.

A 18 anni dal primo album di duetti, Mina e Celentano tornano ad affacciarsi sul mercato discografico con un album forse un po’ meno celebrativo e più al passo coi tempi, «da ascoltare, meglio se in radio», come hanno suggerito Massimiliano Pani e Claudia Mori.

Sentiamo “Le Migliori”
La copertina dell’album “Le Migliori” di Mina e Adriano Celentano.

Le Migliori rispecchia semplicemente la voglia di due grandi artisti e amici di vecchia data di tornare a cantare insieme esplorando generi inusuali.

Cosa che si sente già dal singolo di lancio nonché traccia d’apertura, Amami Amami, pezzo di compromesso tra tradizione e gusto neomelodico scandito da una cassa in quarti in un’atmosfera sudamericana – impreziosito da un assolo di fisarmonica che cita il motivo di Storia d’amore di Celentano. Brano di facile ascolto che francamente poco rende la varietà del disco, oltre a non avere la carica accattivante di Acqua e sale (1998), la cui eredità si ritrova forse più in Ad un passo da te firmata da Fabio Ilacqua. Quanto a richiami all’album del 1998 da segnalare anche la reggaeggiante Ma che ci faccio ancora qui che ricorda il dialogo di Che t’aggia dì.

L’amore di coppia, come si capisce, resta comunque il filo conduttore dell’album raccontato attraverso quadretti maturamente intensi e turbanti in cui Mina e Celentano giocano a interpretare amanti che si affliggono, si lamentano e si confessano.

In Ti lascio amore, scritta da Toto Cutugno, Mario Culotta e Fabrizio Berlincioni, si racconta la fine di un rapporto sottolineato in modo poeticamente tragico, in Sono le tre regna un senso di pigra malinconia sentimentale ma l’emozione del gusto dolceamaro dell’amore trova un’interpretazione più tradizionale in È l’amore scritta da Andrea Mingardi a quattro mani con Maurizio Tirelli, con un bellissimo assolo jazz di pianoforte in chiusura su vocalizzo di Mina.

Al disco contribuiscono anche giovani autori come Marco Bruni, già leader dei Deco – band che partecipò nella sezione Giovani del Festival di Sanremo 1995 – che scrive Come un diamante nascosto nella neve e Mondo Marcio che firma e arrangia Se mi ami davvero, con Celentano che rappa al vocoder.

Non è così sorprendente se si pensa che il primo pezzo rap della storia sembra essere suo: anzi proprio quel classico nonsense del 1972, Prisencolinensinainciusol, remixato in versione dance dall’asso italiano della consolle Benny Benassi, chiude il disco; un episodio isolato in scaletta, pretesto per sottolineare il divertimento di due artisti che si abbandonano a duettare in botta e risposta tra modernità e tecno.

Unici brani solisti della tracklist sono Il bambino col fucile scritto da Francesco Gabbani per Celentano – una condanna contro gli esempi diseducativi di oggi che si candida a diventare uno dei nuovi classici del Molleggiato – e Quando la smetterò, toccante dichiarazione d’amore nella quale Mina fa sfoggio della sua abilità vocale accompagnata dallo straordinario pianoforte di Danilo Rea.

Queste le 12 tracce delle 14 registrate tra Lugano e Galbiate sotto la supervisione di Pino Pischetola – per le due inedite pare dovremmo aspettare il Natale del 2017 – che caratterizzano un disco, composito e contemporaneo, contraddistinto da arrangiamenti puntuali ed esecuzioni patinate ma dalle atmosfere per certi versi inedite, nelle quali i vocalizzi di Mina ben si amalgamano alla metrica celentanesca nella formula da scketch musicale.

Una formula che certamente va ad arricchire l’interpretazione di testi sottolineando, più che l’amore di coppia nelle liriche, una complicità artistica che vede i nostri legati da anni.

È in sostanza quanto ci si può aspettare da due icone italiane ultrasettantenni che dimostrano ancora di avere dei numeri: un capitolo che forse nulla toglie e poco aggiunge all’eredità musicale della Tigre e del Molleggiato ma una valida occasione per godere ancora di due interpreti che hanno ancora di voglia di mettersi in gioco. A patto di essere disposti ad accettare che le regole di questo gioco siano sempre dettate da loro.

Tracklist

  1. Amami amami
  2. È l’amore
  3. Se mi ami davvero
  4. Ti lascio amore
  5. A un passo da te
  6. Non mi ami
  7. Ma che ci faccio qui
  8. Sono le tre
  9. Il bambino col fucile
  10. Quando la smetterò
  11. Come un diamante nascosto nella neve
  12. Prisencolinensinainciusol (Benny Benassi remix)

Dopo l’aneddoto sul brano inedito Non lasciare Roma la scorsa settimana non abbiamo resistito: Musica361 ha intervistato per voi uno degli interpreti e autori fondamentali della storia della musica italiana

Franco Fasano, un autore "Fortissimo"La scorsa settimana Fasano ci ha raccontato la genesi di un fantastico brano inedito ma la nostra curiosità, chiacchierando, non si è fermata: ecco cos’altro abbiamo scoperto parlando con uno dei più importanti autori della tradizione nazional popolare italiana.

Come hai esordito nel mondo della musica?
Alla fine degli anni ’70, in occasione dei 25 anni del muretto di Alassio, avevo scritto e inciso Splash, brano che strizzava l’occhio a certe canzoni anni ’60 in stile Eduardo Vianello: a Mario Tilesi piacque molto e decise di produrlo. Quella canzone mi portò molta fortuna: finì sulla scrivania di Salvatore De Pasquale che, credendo fosse firmata dall’amico Peppino di Capri, il quale aveva un’etichetta che per coincidenza si chiamava “Splash”, decise di ascoltarla. Fu così che nel marzo del ’79 mi incontrai con De Pasquale a Milano e gli feci sentire altre canzoni che già erano caratterizzate da questa mia doppia vena romantica e ritmica.

Debutto ufficiale a Sanremo 1981 con Un’ isola alle Hawaii: come ricordi questa prima esibizione?
Nell’estate del 1980 avevo pubblicato con la Durium il mio primo 45 giri Mi piaci tu: dato il buon successo decisero di propormi a Sanremo. Per il festival avevo scritto Esami di maturità che però non convinse abbastanza. Decisero allora di presentarmi con Un’ isola alle Hawaii in origine scelta per Celentano che però all’epoca non poteva incidere perché stava girando un film. E così mi ritrovai per la prima volta al Festival di Sanremo: mi piazzai quinto insieme a Edoardo De Crescenzo, Luca Barbarossa, Fiorella Mannoia e Orietta Berti ma non ebbi accesso alla finale. In ogni caso fu una delle prime emozionanti occasioni per mettere in mostra la mia capacità compositiva.

E quel giorno non mi perderai più (1989) rappresentò uno spartiacque nella tua carriera: pensata per un grosso nome i discografici ti fecero notare che la cantavi meglio tu. Fu quello il momento che ti spinse a dedicarti totalmente alla musica come cantautore completo?
Da quando ho scritto il primo testo non ho mai smesso di sperare di interpretare le mie canzoni, anche se all’inizio non me le facevano cantare. Poi nel 1989 la casa discografica decise di mettere insieme due artisti per vincere a Sanremo formando la coppia Fausto Leali e Anna Oxa, scegliendo per loro E quel giorno non mi perderai più, scritta da me e Berlincioni. Capii che l’idea del duetto poteva funzionare però, per questioni tecniche, mi ero reso conto che quella non era la canzone giusta per loro. Così proposi in alternativa, Ti lascerò, che poi vinse. Si era comunque deciso di presentare E quel giorno non mi perderai più a Sanremo e mi proposero di cantarla: quella fu la prima volta che una canzone che avevo scritto per me trovò il suo interprete migliore! Arrivai terzo nella sezione “Nuovi” ma il tempo mi ha dato giustizia: oggi mi piace sottolineare che grazie a Radio Italia quella canzone entrò in classifica per merito del compianto Franco Nisi, che la spinse parecchio.

Come ricordi Franco Nisi?
(Commosso) È stato uno di quelli che ha fatto capire l’orgoglio e l’importanza della musica italiana trasmettendo 24 ore su 24 il meglio della nostra produzione, in un Paese dove eravamo ancora molto esterofili. La nostra musica arriva da Domenico Modugno, Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè e Lucio Battisti: quella musica continua a rappresentare un’epoca che non smette mai di essere di moda. E se talvolta la musica italiana ha fatto qualche passo indietro rispetto alla famosa musica anglofona è dipeso dal fatto di aver scelto di imparentarsi nella scrittura ad un gusto che non gli è proprio, fingendosi italiana.

Quale resta ad oggi il tuo disco più rappresentativo?
Sicuramente FFF (2012). Il titolo spiega bene anche il perché: il significato delle prime due FF è Franco Fasano. Non solo però: nella musica stampata, le due FF indicano il momento in cui un direttore d’orchestra fa suonare tutti gli strumenti insieme, il movimento si chiama “fortissimo” e il suono acquista una forza incredibile. Dunque FFF si può leggere “più che fortissimo”, cioè “fortissimissimo”. E suona benissimo (sorride) perché in quel disco, cui hanno collaborato 320 artisti, tra grafici, autori e musicisti, c’è tutto il mio passato, presente e futuro. Ho rivisitato tutte le mie canzoni che sono tornate ad avere la forma originale, prima dell’adattamento: ad esempio in Mi manchi c’è una strofa tagliata, Ti lascerò si intitola Le ultime tre cose, così come nella famosa lettera di Berlincioni da cui è tratta. In quel disco ho collaborato con tutti gli arrangiatori e i produttori della mia carriera: la regola che ho dato a ciascuno di loro è che ognuno potesse attingere al mio repertorio ma con il divieto di riarrangiare il pezzo che avevamo originariamente realizzato insieme. La produzione di Fortissimissimo è sicuramente quella che ho più nel cuore: a parte due o tre inediti, la considero la mia antologia sonora.

Negli anni hai firmato per numerosi interpreti da Fausto Leali, a Drupi a Mina. C’è una canzone o una collaborazione che hai più nel cuore?
Tante ma stranamente poche tra quelle che poi sono diventate successi, forse perché durante la realizzazione non le avevo vissute così intensamente. Un’artista invece con la quale ho collaborato, che non cito quasi mai ma che ricordo con piacere, è Lu Colombo con la quale ho anche vinto Un disco per l’estate con Rimini Ouagadougou (1985), suo secondo successo dopo Maracaibo. Quella canzone fu molto importante perché mi permise di conoscere Sergio Conforti cioè Rocco Tanica di Elio e le Storie Tese col quale è nata un’amicizia che lo ha portato ad arrangiare per me Mezzo cielo che non sai e Per niente al mondo.

Colpevole invece è la canzone presentata a Sanremo 2005 da Nicola Arigliano che si aggiudica il Premio Mia Martini. Questo riconoscimento ti ha portato poi la carica di direttore artistico del Premio Mia Martini.
Voglio prima ricordare che ho avuto il piacere di conoscere Mimì personalmente. Le scrissi anche la canzone La luna ma non fece mai in tempo a registrarla. Dopo la sua morte non volevo più darla a nessun altro. Poi, quando ho registrato Fortissimissimo, mi hanno convinto a inciderla, però rimodificando un po’ il testo: prima era Mimì che si immedesimava nella luna mentre nella mia versione io, guardando la luna, mi ricordo di lei. Quando partecipai alla prima edizione del premio Mia Martini a Bagnara Calabra portai proprio La luna che quasi non riuscii a cantare dall’emozione. Fu in quell’occasione che l’allora direttore Nino Romeo esortò gli artisti a firmare una petizione perché il premio della critica fosse intitolato Premio Mia Martini, dato che nella sua carriera l’aveva vinto ben tre volte. Poi, casi della vita, nel 2005 dopo che Arigliano si aggiudicò il riconoscimento con Colpevole, Romeo mi propose la direzione artistica del Premio Mia Martini.

Il mio sogno oggi è che questo riconoscimento possa diventare una specie di Premio Tenco del sud. E ci sono parzialmente riuscito: quest’anno tra i premiati c’erano Amedeo Minghi, Roberto Vecchioni e Gaetano Curreri. E anche Chiara Dello Iacovo che ha regalato una bella interpretazione che ha un po’ commosso tutti.

Oggi secondo te la figura di Mia Martini è stata un po’ riscattata rispetto agli ultimi tempi?
Mia Martini ha cominciato a non avere fine da quando è mancata: le sue canzoni continuano a essere un esempio di scrittura e interpretazione. E non sono il solo a pensarla così: il giorno che ho avuto il piacere di conoscere Mina tramite Gianni Bigazzi la sentii con le mie orecchie affermare che Mia Martini è stata una delle più grandi interpreti e voci italiane.

Capitolo musica per bambini: come hai ricordato nella tua carriera sei stato anche autore di canzoni per lo Zecchino d’oro e di sigle di cartoni animati. Che tappa ha rappresentato per te?
Da quando è nato mio figlio nel 1994 ho cominciato a scrivere canzoni per bambini e francamente addentrarmi in quel mondo mi ha un po’ guarito dalla dipendenza da una discografia che cominciava ad ammalarsi, sempre più assoggettata alle logiche di promozione e schiava di certi meccanismi. È stato salutare per certi versi.

Il Fortissimissimo Franco FasanoQual è l’approccio della scrittura di una canzone interpretata da un bambino rispetto ad un adulto?
Tradotto in un’immagine significa che non si può prendere un vestito che va ad un adulto e metterlo ad un bambino: ha le maniche lunghe, i pantaloni larghi e la forma può essere non moderna. Se la stoffa è una sola, la vera capacità deve essere quella di creare un vestito su misura. Io in particolare ho sempre cercato di considerare anche che il bambino, crescendo, potesse rendersi conto della stoffa che ha cantato: nelle mie canzoni c’è sempre un aspetto sia didattico che umano. Un esempio di quello che dico è Goccia dopo goccia scritta con Emilio Di Stefano: abbiamo chiamato in una registrazione il coro di montagna di Sant’Ilario che si è unito a quello dei bambini. Così i più piccoli insieme ai “bambini cresciuti” hanno intonato “Non è importante se non siamo grandi come le montagne, quello che conta è stare insieme per aiutare chi non ce la fa”. E la stoffa di cui ti parlavo è ritornata ad essere una.

Sono rimasti sogni nel cassetto?
In Fortissimissimo ci sono almeno tre canzoni che potrebbero essere la colonna sonora di un film o di uno sceneggiato: mi piacerebbe che qualcuno mi desse l’opportunità di scriverne una.

Il prossimo anno festeggerai 40 anni di carriera: stai pensando a qualche progetto?
Aspetto proposte da chi mi vuole bene! (Sorride) Intanto continuo ad esibirmi raccontando in musica quello che io ti ho raccontato, con uno spettacolo che faccia sempre rivivere quello che ho vissuto a chi vuole conoscere la mia carriera. Sto continuando a scrivere, anche se da un punto di vista discografico sono assente dalle scene da Fortissimissimo: però quel disco racconta talmente la mia storia che mi sembra di essere in promozione ancora adesso! In questo periodo mi sto occupando della direzione artistica di una trasmissione che andrà in onda su Raiuno in una delle notti della settimana di Natale: “Nel nome di Giovanni Paolo II”. È stata registrata dal carcere di Torino, ha una tematica sociale importante. Quando ci sono temi che mi coinvolgono e mi toccano cerco sempre di dare il mio contributo. Oggi come oggi, per quanto riguarda l’aspetto creativo, ogni idea che mi accende una scintilla prende fuoco.

Musica361 ripercorre col cantautore e compositore Franco Fasano tutta la storia di “Non lasciare Roma”, un inedito che ancora oggi continua a intrecciare la vita dell’autore ligure e dell’attore romano.

Franco Fasano con Musica361
Franco Fasano (Foto © www.francofasano.eu).

Il 16 dicembre 2014 veniva pubblicata “Non lasciare Roma” canzone inedita incisa da Nino Manfredi nel 1999. Il brano ha una storia incredibile: nasce il secolo scorso da un’idea di Mario Panzeri e rimane abbozzata per decenni finché poi, riscoperta da Franco Fasano, viene completata insieme al pianista Claudio Zitti. Una storia che continua fino ai giorni nostri come racconta Fasano.

Andiamo per tappe: intanto come ha scoperto questo inedito?
Per festeggiare il successo della mia canzone per bambini Katalicammello nell’estate del 1997 incontrai a casa mia gli autori torinesi Grottoli e Vaschetti. In quell’occasione, chiacchierando, Vaschetti ricordò di quando io avevo presentato entrambi a Mario Panzeri, l’autore di Papaveri e papere e Nessuno mi può giudicare per la Caselli. E tra un ricordo e l’altro mi raccontarono di alcuni brani rimasti inediti tra cui anche una certa Non lasciare Roma senza baciare una romana, canzone per le sale da ballo sullo stile di Arrivederci Roma abbozzata da Panzeri, credo già alla fine degli anni ’50. Quel pomeriggio me la fecero sentire per la prima volta e subito mi colpì: era un successo nascosto in un cassetto. Le mancava il ritornello, così mi misi a sviluppare musica e testo completandola. Chiamai poi Claudio Zitti e gli dissi: “Vuoi diventare famoso? Prendi questa canzone e falla cantare a sette romani che chiameremo I sette re di Roma!

E avete trovato i sette re?
Qualche tempo dopo mi richiama Claudio: “Senti Franco, non so se riesco a trovare gli altri sei, però un re te l’ho trovato”. Accadde una specie di miracolo: Zitti aveva lasciato non so come la cassetta con la registrazione a casa di Nino Manfredi, che lo aveva richiamato dicendogli “Ahò ma che è sto capolavoro?!” Così nel 1999 Manfredi la incise insieme a Zitti su un dat, un nastro digitale. La canzone però di fatto rimase sempre un provino: per motivi sconosciuti non riuscirono a mettersi d’accordo. Poi per il Giubileo del 2000 qualcuno propose questa canzone come colonna sonora di uno spot dell’Alitalia nel mondo ma anche in quel caso niente di fatto. Persino l’allora sindaco Rutelli suggerì di presentarla durante una serata ai fori imperiali ma in quel caso fu Zitti a non essere favorevole perché aveva un altro progetto.

Quale?
Voleva che questa canzone andasse a Sanremo con Nino Manfredi ospite. Riuscì ad avere un appuntamento con Pippo Baudo che, secondo alcune voci che mi furono riportate, disse: “La canzone è bellissima però ci vorrebbe un’idea migliore”. Allora Claudio andò a casa di Alberto Sordi che era già malato e gliela fece ascoltare. E Sordi disse: “Questa canzone è un capolavoro. Io posso rendermi disponibile massimo tre volte: una volta in studio per registrarla, una a Sanremo e una a Domenica In. Non chiedetemi di più però perché non sto bene”. Claudio Zitti purtroppo però non riuscì a fissare un altro appuntamento con Baudo, si finì sotto Natale e alla fine non venne cantata neanche da Alberto Sordi. Pensate cosa è mancato alla storia della musica italiana.

Neanche Sanremo. Che fine ha fatto la canzone?
Chiunque la ascoltasse continuava a dirmi: questo è un capolavoro, non può rimanere inedito. In particolare, grazie all’interesse di Cristiano Di Calisto, due anni fa mi arrivò una telefonata di Erminia Manfredi, la moglie di Nino: “Mi hanno raccontato una storia bellissima su una canzone, vorrei saperne di più”. Io che oramai a distanza di anni avevo perso le speranze non potevo crederci. Ho incontrato Erminia e le ho raccontato tutta la storia; lei si rivelò molto interessata a pubblicare il brano cantato da Nino ma in quel periodo era impegnata ad allestire una mostra sulla carriera di Manfredi a Palazzo Braschi e in più avrebbe dovuto partecipare ad una proiezione del film restaurato “Pane e cioccolata” a Los Angeles. Aveva poco tempo insomma e allora le dissi: “Se lei mi autorizza me ne occupo io”. Così grazie a Gianna Bigazzi, moglie di Giancarlo, abbiamo prodotto il brano proprio come se Nino fosse con noi.

Come è stato rimetter le mani sul nastro cantato da Manfredi?
Abbiamo riaperto e riascoltato quel nastro quasi facendoci il segno della croce. Era ancora intatto: abbiamo digitalizzato la voce e poi convocato un’orchestra di 40 elementi. Gianna propose anche di creare un video e di parlarne a Carlo Conti che presentava il festival due anni fa. A Conti piacque l’idea però anche quell’anno, per altri motivi, con grande raccapriccio la proposta sfumò. Si parlò comunque della canzone che venne pubblicata, vennero anche realizzati un paio di servizi per il tg e qualcosa si trova ancora su YouTube ma in realtà il brano continua a rimanere un inedito di Nino Manfredi.

E qui pare finire la storia della canzone. Ma non la storia che lega lei e la famiglia Manfredi…
Io abito da 12 anni a Roma con la mia compagna. L’anno scorso mio figlio Emanuele ha deciso per la prima volta di venire a Roma per trascorrere con me, la sorellina Dalia e la mia compagna il Natale. Quando è arrivato in stazione a Milano il treno per Roma era in ritardo. Nell’attesa si è accorto di un pianoforte in uno degli ambienti della stazione e si è seduto a suonare un pezzo scritto da lui: e mentre suonava si avvicinò un po’ di gente ad ascoltarlo. Poi finalmente arrivò il treno e mi raggiunse a Roma. La sera del 25 dicembre, verso le 23, mentre eravamo tutti a riposarci sul divano mio figlio lesse ad alta voce un messaggio: “Un’amica mi chiede se quello al pianoforte in questo video su YouTube sono io”. Mi fece vedere il video e ci rendemmo conto che si trattava proprio di Emanuele: qualcuno lo aveva ripreso in stazione mentre suonava e poi aveva caricato il video. Quando ce ne siamo accorti era a 21.000 visualizzazioni e alle 2 del mattino aveva superato le 100mila. Controllai il nome dell’autore di questa ripresa: si trattava di un certo Alberto Simone. Cercando su facebook scoprii una cosa impressionante.

Chi era?
Si trattava del marito della figlia di Nino Manfredi, un importante autore di fiction. Gli scrissi perché volevo assolutamente conoscerlo; lui per prima cosa si scusò con me perché credeva che volessi lamentarmi per le riprese credendo che mio figlio fosse minorenne. Poi ci siamo dati appuntamento e conosciuti di persona il 4 di gennaio di quest’anno. Gli parlai pure della canzone Non lasciare Roma ma non ne sapeva nulla: seguiva poco l’Italia essendo sempre “pendolare” tra Roma e Los Angeles. E la favola non finisce qui.

Conclusione?
Il video di Emanuele è stato visto da tantissime persone, anche da Caterina Caselli con la quale lo scorso maggio ha firmato un contratto discografico. Caterina in persona, con mia gioiosa meraviglia, dopo aver visto il filmato, ha preso un aereo ed è andata a parlare con Alberto Simone. Non ho mai voluto influenzare Emanuele nella scelta di questo mestiere: la cosa più bella di tutta questa storia è che non c’è stato alcun “click” comprato e soprattutto neppure, nella maniera più assoluta, la mia mano.

Forse un segno di riconoscenza di Nino Manfredi?
Chissà. Sarebbe bello pensarlo. E in questo caso “Grazie Nì”.

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