Da venerdì 30 settembre è disponibile sulle piattaforme digitali Like a goodbye, il primo singolo dei Mangaboo. Parliamo con l’ideatore di questo nuovo progetto Francesco Pistoi.

Like a goodbye: sono arrivati i Mangaboo
Mangaboo.

Francesco Pistoi, conosciuto come Dj Pisti, produce musica elettronica per la Krakatoa Recordings ed è stato l’anima più dance-oriented dei Motel Connection, una delle più importanti band di musica elettronica italiane.

Maestro di cerimonie di alcune note serate techno in Italia, si è esibito in rilevanti festival di musica elettronica come Detroit Movement, Barcelona Sonar and Tbilisi Open Air.

Dall’incontro con la cantante jazz Giulietta Passera è recentemente nato il progetto musicale Mangaboo.

Francesco, dati i diversi generi dai quali provenite, come hai trovato l’intesa artistica con Giulietta?
Ho conosciuto Giulietta in occasione del “Fringe in the box” al Torino Jazz Festival. In quell’occasione avevo avuto l’idea di registrare e campionare la musica di alcuni jazzisti da tutto il mondo. Dai suoni campionati ho ricavato una grande libreria a disposizione per i producer di tutto il mondo, pensata per realizzare brani tecno o di musica elettronica. Giulietta, cantante jazz, a sua volta amica di molti jazzisti, in quei giorni è venuta a darmi una mano. Tra le tante avevo registrato anche la musica di Gianluca Petrella, grandissimo trombonista italiano e mi misi a smanettare col campionatore il suo riff di trombone. Dopo una settimana ho chiamato Giulietta e le ho chiesto: “Ti va di registrarci sopra una voce?” Così è nato il nostro primo singolo, in maniera molto spontanea.

La vostra musica è caratterizzata da tanti riferimenti musicali dal Krautrock dei Amon Düül ai requiem di Mozart, fino alla techno di Robert Hood. Come definireste il vostro genere?
D’istinto potrebbe definirsi crossover. O almeno 15 anni fa lo avrebbero chiamato così. Il periodo a cavallo tra gli anni ’90 e 2000 è quello che ho più nell’orecchio e nel cuore: il crossover è una musica che ho amato e si sente. E dico musica e non genere perché la settorialità di cui sento parlare talvolta mi annoia un po’. Anche perché spesso le etichette sono più legate ad un articolo da vendere che all’identificazione di un vero genere.

Restando però ad un discorso di genere comunque, chi è il pubblico dei Mangaboo?
Nelle prime date in cui abbiamo suonato a Magazzino di Giancarlo (TO) e Arteria (BO) – senza che nessuno sapesse che già avevamo realizzato il nostro primo singolo – siamo rimasti impressionati di incontrare un pubblico dai 20 ai 60 anni. Forse appunto perché musicalmente ci stiamo concedendo la massima libertà nel fare quello che ci piace di più e questo ci sta ripagando. Gli ascoltatori della mia età – io ho 44 anni – mi dicono che ascoltare la nostra musica è come ritrovare un oggetto perduto in casa: “Mi sembra di riascoltare un disco dei Morcheeba” o “sembrano i Groove Armada” mi ha detto qualcuno. È come riscoprire nomi come Chemical Brothers, Prodigy, Underworld, che avevano una dinamica e una forza musicale che oggi si è persa, o meglio si è evoluta. Questo progetto ci permette di riprendere quei panorami sonori che si erano persi.

Come avete scelto il nome Mangaboo e perché?
Come è stato per i Motel Connection anche stavolta ho scelto il nome di un luogo. Una sera ho aperto il “dizionario dei luoghi immaginari” alla pagina Mangaboo: viene dal Mago di Oz, è un paese dove non c’è mai la notte. Mi è piaciuto e anche Giulietta lo ha approvato.

Il nome di un luogo vuole forse identificare anche un richiamo visivo alla vostra musica?
Sicuramente. Lo si vede anche nel nostro video di Like a goodbye: c’è un preciso immaginario visivo. Il video è stato realizzato da Cy tone con l’aiuto di Alessandro Gioiello, artista che ha curato anche la grafica del disco.

Nella vostra musica ci sono messaggi legati a visioni precise?
Nel video di Like a goodbye ci sono i paesaggi di Mangaboo. La nostra musica si declina bene con l’arte e la natura: Mangaboo attinge molto a quell’immaginario, non però in maniera “fricchettona” ma per sottolineare e condividere l’obiettivo di tutelare il nostro patrimonio artistico e naturale. La Costituzione afferma che il nostro paese “tutela” il paesaggio: e noi che abbiamo la fortuna di vivere in un Paese strepitoso, dobbiamo continuare a tutelarlo per i posteri. Accanto a questo narrativamente ci è piaciuta anche l’idea di rilanciare dei miti come storie narranti: nel video di “Like a Goodbye” riprendiamo le suggestioni del mito di Endimione e per il prossimo invece stiamo pensando alla liberazione di Andromeda. In un mondo che oggi invece privilegia i fenomeni vogliamo legare alla nostra musica le immagini dei miti.

Il singolo racconta di due esperienze diverse: perché Like a goodbye?
Quando è stato scritto il pezzo non aveva titolo. Poi ho letto il testo di Giulietta e mi è venuto Like a goodbye. Oltre ai riferimenti testuali, quel titolo corrisponde anche ad un momento della vita che stiamo vivendo entrambi: stiamo prendendo insieme una nuova strada abbandonando quelle da cui veniamo. Era un titolo in qualche modo già nell’aria e devo dire che, per tanti motivi, calza perfettamente.

Like a Goodbye è molto rock-oriented e poco electronic. Perché lo avete scelto come singolo di lancio?
Avevo chiesto al mio produttore, per una volta nella vita, di realizzare un pezzo con una batteria stile Black Sabbath. Il primo singolo, scritto praticamente in due giorni, è nato rock-oriented semplicemente perché avevo già campionati tanti strumenti percussivi che volevo usare da tempo. Realizzare un pezzo rock oriented è stata una soddisfazione ma nel prossimo singolo invece ci sarà molta più elettronica: si chiamerà Once upon a time.

Like a goodbye: sono arrivati i Mangaboo 1Una curiosità: qual è il vostro modo di comporre?
Solitamente campiono dei dischi: per Mangaboo ho ascoltato molte colonne sonore e orchestrazioni a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Poi ci lavoro e del campionamento originale non rimane più niente: a quel punto Giulietta scrive le parti musicali e melodiche. Prima ci scambiamo file in continuazione, fino a quando non capiamo di aver imboccato l’idea migliore: allora entriamo in studio, io generalmente sono al synth, programmo i suoni, lei scrive.

Qual è il luogo migliore per godere la vostra musica?
La nostra data zero è stata una presentazione agli amici di sempre in un bosco nelle langhe sopra Alba, vicino alla casa della mia amica dalla quale si domina tutto l’arco alpino. Abbiamo suonato in quel bosco di notte: quello per me è stato un luogo ideale. Poi sicuramente il nostro genere va benissimo per i club. Anche se non è così scontato: suonando mi sono reso conto che ci sono varie location dove la musica si può declinare al meglio, dai grandi palchi dei festival d’estate a luoghi non necessariamente deputati a un concerto.

Uno di questi quale potrebbe essere?
Il mio sogno sarebbe poter aprire per una notte il magazzino di un grande museo, potendo pure esporre per l’occasione qualche opera solitamente in archivio. Magari dentro gli Uffizi, non nelle sale che siamo abituati a vedere ma negli archivi. Mi piacerebbe illuminare con la musica le cantine dell’arte italiana.

Restiamo alla realizzazione del vostro disco: anticipazioni?
Per chi ha già avuto modo di ascoltarci dal vivo dico già che tutte le versioni sentite non corrisponderanno a quelle dell’album: l’album sarà più etereo e meno ritmato. Per il set dal vivo invece riarrangeremo i pezzi per un pubblico che, venendoci a sentire, possa trovare nelle sonorità più intime del disco un invito al ballo. Porteremo dal vivo qualcosa che abbia un’energia più accattivante: sia a me che a Giulietta piace vedere la gente ballare. Anzi per la precisione sto pensando a tre live differenti: uno solo per le discoteche, uno più intimo quasi “chill out” e uno per i party all’aperto. Stiamo già rimettendo mano a molti pezzi, tra l’altro divertendoci moltissimo. A volte ci chiediamo: nel disco mettiamo la versione per il live o per l’album?

A parte Torino, qual è la situazione della musica elettronica in Italia?
Credo che l’Italia sia, per la musica elettronica, un Paese trainante. Penso a The Bloody Beetrots che ha fatto anche un pezzo con Paul McCartney, Tale of us che è un duo elettronico italiano internazionale o a festival come il “Club to club” di Torino che quest’anno ha radunato 30.000 persone da tutto il mondo. Siamo un Paese musicalmente in crescita, sicuramente più oggi di quando ho iniziato ad ascoltare musica io a 12 anni. Dovremmo renderci conto un po’ di più di quanto siamo capaci, considerate anche le potenzialità di questa era come la conoscenza e l’uso della lingua inglese oramai consueta.
Abbiamo un potenziale incredibile ma avremmo bisogno di avere più locali dove poter suonare, altrimenti rischiamo di perdere tutti questi artisti in fuga a Berlino o all’estero. Presto verranno annunciate le date del tour invernale: i Mangaboo vi aspettano presto nei club italiani per presentare il nuovo progetto.

 

A tre anni da “Senza paura”, Giorgia torna sulle scene discografiche con il suo decimo album di inediti. Musica361 vi racconta la realizzazione del disco.

Giorgia-Oronero
Giorgia (Foto © Eolo Perfido).

Nel novembre del 1993 vince la prima edizione di Sanremo Giovani e da lì non la ferma più nessuno: più di vent’anni di carriera, oltre 7 milioni di dischi venduti e uno stile che non ha nulla da invidiare alle grandi star d’oltreoceano.

Giorgia: una delle voci italiane più belle di sempre che nel corso degli anni ha collaborato con artisti italiani e internazionali quali Luciano Pavarotti, Ray Charles, Lionel Richie, Andrea Bocelli, Mina, Zucchero e Pino Daniele.

«Pino Daniele mi diceva che il disco è il tuo documento, quello che lasci di te: questo comporta una lucidità interiore che per me non è solo istinto ma anche frutto di ponderazione, tempo e massima pretesa di coerenza da se stessi. L’ istinto funziona quando senti che su quelle note ci può stare solo quella frase, ma poi servono mesi per accettarlo».

Non a caso il disco era originariamente previsto per la scorsa primavera ma la cantante ha voluto prendersi il tempo necessario «perché le mie canzoni hanno bisogno di tempo per essere scritte, provinate, dimenticate e poi riprese di nuovo. Ed eventualmente buttate: se devo scegliere una canzone deve prima emozionarmi la melodia, deve proprio piacermi cantarla, altrimenti desisto. Il tutto chiaramente sempre a seguito di un confronto col mio produttore ma questa volta devo dire che ha regnato in particolare una rara armonia tra me e Michele».

Michele Canova, già al suo fianco in “Dietro le apparenze” (2011) e in “Senza paura” (2013), a differenza dell’ultimo disco in cui, spiega Giorgia «abbiamo mediato tra la mia visione delle sonorità e la sua», stavolta pare abbia lavorato tanto sulla preproduzione: «Al momento di registrare sapevamo già cosa tenere o rielaborare elettronicamente nelle ritmiche. Come in “Dietro le apparenze” c’è uso di synth ma anche il tocco umano di musicisti come Tim Pierce e Alex Alessandroni, compresa pure la manipolazione di sequenze suonate dal vivo per ottenere un sound irreperibile in alcuna banca dati».

Un lungo lavoro di ricerca musicale dunque: «La scrittura mia e di Emanuel Lo, il cui apporto è stato anche stavolta fondamentale, è iniziata ben due anni fa. Spesso partivamo da basi sulle quali creare melodia e testo oppure lavoravo io su un testo in inglese. In questo secondo caso mi entusiasmava vivere la sfida di riuscire a mantenere la stessa melodia con parole tradotte in italiano. Ho passato giorni, imponendomi orari da operaia, a cercare qualcosa che mi piacesse, senza riuscirci. Ogni tanto arrivava qualche ispirazione dall’alto ma contemporaneamente andavo a chiedere brani agli autori dei precedenti due dischi e a chiunque avesse qualcosa da farmi sentire».

L’album in particolare conferma comunque in ogni brano, oltre alla nota e potente carica interpretativa, anche la sensibilità espressiva della Giorgia autrice – ben 10 delle 15 tracce portano la sua firma.

Eccovi il nuovo “Oronero” di GiorgiaIn Oronero la cantautrice svela una scrittura matura, impegnata e decisamente più libera e consapevole, meno poetica forse ma ancor più “senza filtro” che nei lavori precedenti. Segnano questo disco in particolare episodi privati della vita della cantante, come la recente maternità o la morte di amici cari ma anche i tragici eventi di Parigi al Bataclan: «Sentivo lo stato di angoscia per strada dalle facce della gente comune: questa sensazione di tormento si sente nei miei testi, in una visione allo stesso tempo sociale e individuale. Nelle mie liriche c’è la volontà cioè di rivolgersi e parlare tanto alla gente in senso lato quanto alla coscienza profonda di ogni singolo, alla ricerca di un riscatto morale. Credo che per cambiare il mondo, ancora ci credo, si debba partire dal profondo di ciascuno di noi, lavorando sull’autocoscienza per ritrovare una nuova consapevolezza: il vero ostacolo rimane sempre il poco tempo che ognuno concede sé, preda di altri stimoli della vita quotidiana».

Cogliendo poi l’occasione per ribadire ancora una volta il suo impegno ecologista, riferendosi in particolare al titolo del disco, rivela: «L’ oronero, come il petrolio, è una risorsa della terra non delle macchine o della plastica. L’esperienza ci ha portato a capire che questa risorsa vada lasciata là dove si trova, a lubrificare la terra. Lì è davvero preziosa; usata in ambiti diversi invece può diventare veleno. E questo vale anche per altri validi strumenti e risorse della nostra società che devono essere usate con buon senso, altrimenti rischiano di danneggiarci».

Il tour di Oronero partirà da fine marzo 2017, presto le nuove date. A proposito del live Giorgia ha dichiarato: «Mi interessa molto far conoscere le nuove canzoni ma avrò attenzione per tutto il mio pubblico che negli anni è cresciuto ed è vario. Ognuno è legato a brani diversi che segnano tutta la mia carriera per cui farò in modo di soddisfare tutti».

Tracklist di Oronero

  1. Oronero
  2. Danza
  3. Scelgo ancora te
  4. Credo
  5. Per non pensarti
  6. Vanità
  7. Posso farcela
  8. Come acrobati
  9. Mutevole
  10. Tolto e dato
  11. Amore quanto basta
  12. Sempre si cambia
  13. Grande maestro
  14. Regina di notte
  15. Non fa niente.

Il noto cantautore piemontese ha pubblicato lo scorso 14 ottobre il primo disco strumentale della sua carriera. Musica361 lo ha recensito per voi.

Amazing game, il primo disco strumentale di Paolo Conte
Paolo Conte (Foto © Dino Buffagni)

Alla soglia delle 80 primavere e a due anni dall’ultimo Snob (2014) Paolo Conte ha pubblicato per la Decca, storico marchio della Universal, il sedicesimo capitolo della sua discografia, da pochi giorni reperibile nei negozi tradizionali, nei digital download e su tutte le piattaforme streaming.

Per la prima volta in quarantadue anni di carriera un disco strumentale, una raccolta di registrazioni effettuate dagli anni Novanta ad oggi: «Sono pezzi che escono dai cassetti dove li custodivo con cara devozione», ha spiegato Conte, «li avevo composti su commissione o a scopo di studio e sperimentazione. C’è dentro molta scrittura e anche molta improvvisazione».

Nel disco brani nutriti da sfrenato eclettismo e moderna improvvisazione: a cominciare dalla melodia da colonna sonora che contraddistingue la traccia di apertura, Pomeriggio zenzero, nella quale riecheggia un certo Nino Rota, fino alla totale libertà espressiva di F.F.F.F. (For Four Free Friends) in stile free jazz o la più aggraziata Fuga nell’Amazzonia in Re minore, due brani interamente improvvisati insieme ai suoi musicisti.

Si passa così dal Sudamerica, attraverso sfumature di ogni genere, compresi evidenti richiami alla musica classica e da camera, alle atmosfere settecentesche della “bachiana” Zinia, senza però una precisa sonorità che guidi a definire il disco. Nonostante ciò è comunque riconoscibile il gusto e lo stile novecentista di Conte che sa riportare in musica riferimenti di una vita, siano Chopin o Erik Satie.

A compensare la mancanza di testi e a suggerire le originarie suggestioni che hanno ispirato ogni brano ci pensano titoli bizzarri, come En bleu marine o Zama – che pare poco abbia a che vedere con la storia romana.

Unico brano in cui si sente la voce dell’avvocato è Tips, in cui Conte canta in stile “scat”, mentre Changes all in your arms, che avrebbe originariamente dovuto far parte del disco Razmataz (2000), è interpretato dalle sorelle Brevv.

E poi solo musica fino alla melodia dai vaghi colori mediorientali della traccia di chiusura, Sirat Al Bunduqiyyah (Fiaba di Venezia), composta per la pièce teatrale “Corto Maltese”.

Nella tracklist di 23 canzoni, se ne trovano altre cinque commissionate per la colonna sonora di un’altra pièce teatrale, mai andata in scena, dal titolo “Gli Amici Manichini”, insieme ad altre dodici che furono invece scritte su richiesta della Regione Liguria per commemorare il centenario della nascita del poeta Eugenio Montale.

Amazing game è sicuramente un album capace di testimoniare i raffinati livelli musicali raggiunti negli ultimi 20 anni dall’autore che aveva cominciato cantando «son caduto dalla nave» (Onda su onda, 1974), rappresentando un prodotto decisamente insolito. Anche se, stando alle ultime dichiarazioni, dovrebbe trattarsi di un episodio isolato: Conte sta già riprendendo la sua regolare attività di cantautore e nei prossimi concerti non è prevista in scaletta la presenza di nessun brano della raccolta.

L’album rimane comunque una interessante occasione, lontano da una qualsivoglia celebrazione, per scoprire inediti direttamente dal cassetto dell’artista astigiano.

Certo, se i brani di questo cassetto sono di questa qualità, ci auguriamo che Paolo Conte abbia ancora tanti altri cassetti da aprire.

Amazing game, il primo disco strumentale di Paolo ConteTracklist di Amazing game:

Pomeriggio zenzero

  1. F.F.F.F. (For Four Free Friends)
  2. En bleu marine
  3. Song in D flat
  4. P.U.B.S.A.G. (Passa Una Bionda Sugli Anni Grigi)
  5. Amazing game
  6. Zama
  7. A’ La provençale
  8. Serenata rustica
  9. La danse
  10. Zinia
  11. The bridge,lLargo sonata per O.R.
  12. Fuga nell’Amazzonia in Re minore
  13. Sharon
  14. Tips
  15. Rumbomania
  16. Mannequins tango
  17. Novelty step
  18. La valse fauve
  19. Gli amici manichini
  20. Changes all in your arms
  21. Sirat Al Bunduqiyyah.

Pubblicato lo scorso 14 ottobre, il triplo cofanetto La bussola e il cuore, progetto discografico di Sony Music per celebrare i 50 anni di carriera di Amedeo Minghi.

“La bussola e il cuore”: 50 anni con Amedeo Minghi 2Venerdì 14 ottobre si è finalmente aperto un nuovo capitolo per Amedeo Minghi: attesa da mesi, è arrivata una pubblicazione di grande qualità da parte di un cantautore che, come pochi, ha saputo contraddistinguersi nel panorama della musica italiana con una produzione di originale maestria, fatta di melodie indelebili ormai patrimonio della nostra canzone d’autore.

Un traguardo importantissimo per il cantautore romano che con questo progetto mette un punto a capo nella sua carriera e spiega così: «In occasione dei miei cinquant’anni di carriera avevo la necessità di far ascoltare ciò che sono oggi con nuove canzoni, ma nello stesso tempo, senza toni celebrativi, riconsiderare la mia esperienza musicale. Nasce così La bussola e il cuore: in fondo, qualsiasi direzione io prenda, è sempre “lui”, il cuore, a guidarmi. Tre CD come tre satelliti che orbitano intorno a ciò che è il mio mondo musicale, fatto di tante occasioni e percorsi. Questo lavoro mette in luce una profondità espressiva che si rintraccia nei miei provini inediti, nell’inconsapevolezza di canzoni che hanno resistito al tempo nel piacere di condividere nuovi brani che seguono esclusivamente le logiche del mio istinto».

La bussola e il cuore è un progetto articolato in tre sezioni ben distinte intitolate La bussola, Il cuore e Mappe. Ogni disco racchiude un diverso aspetto del melodista italiano, come tre luci distinte a illuminare il percorso di cinquant’anni di carriera.

La Bussola è di fatto il nuovo album, a ben 11 anni di distanza dal precedente, con canzoni nuove caratterizzate da quello stile unico nel modo di comporre e cantare melodie: un viaggio nell’anima in 10 tracce, due delle quali firmate con Mogol.

Pensato invece per dare nuovo smalto a brani diventati ormai classici il secondo disco, Il cuore, comprende cinque pezzi del repertorio di Minghi completamente riarrangiati in studio: dal manifesto 1950 alla pietra filosofale L’immenso passando per le composizioni con Pasquale Panella La vita mia, I ricordi del cuore e la celeberrima Vattene amore con Mietta. E poi composizioni inedite legate al suo percorso di fede, ispirate alle parole del Santo Giovanni Paolo II, al messaggio di San Francesco o al Discorso della Montagna di Gesù, fino all’ultima Domani in omaggio alla figura laica di Anna Frank.

Più trasversale invece il disco Mappe, con vere perle che non hanno mai visto la luce: incisioni talmente rare al punto da sentire, in alcuni casi, la punta che tocca il solco del vinile. Venti brani registrati tra i primi anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta che comprendono canzoni scritte per alcuni colleghi e mai pubblicate, altre invece entrate nel repertorio di altri interpreti, altre ancora finite in archivio all’epoca per soddisfare le logiche discografiche del tempo.“La bussola e il cuore”: 50 anni con Amedeo Minghi

Tra le curiosità un brano scritto per Gabriella Ferri (Nun ce l’ho), Il coraggio di tornare firmata con Califano o Ti perdo e non vorrei per Rita Pavone.

E ancora provini di alcuni pezzi famosi del cantautore come Il geniaccio degli italiani, composta con Gaio Chiocchio o la prova studio di Telecomunicazioni sentimentali, con Minghi che simula con la voce la traccia della batteria e le armonizzazioni.

A metà tra una nuova meticolosa attività di produzione in studio e un grande lavoro di ricerca in archivio La bussola e il cuore è certamente un’opera capace di affascinare non solo i collezionisti più esigenti ma anche il grande pubblico. Soddisfatto in particolare per la collaborazione con la Sony Music Minghi afferma: «Con Paolo Maiorino e collaboratori ci siamo ritrovati negli intenti e nell’emozione di vedere crescere questo progetto insieme. Avere a fianco una realtà internazionale che guarda avanti è stato per me un valore determinante».

Amedeo Minghi presenterà dal vivo La bussola e il cuore a Milano martedì 18 ottobre alla Libreria Rizzoli presso la Galleria Vittorio Emanuele II alle h. 18:30.

Per festeggiare gli 80 anni compiuti lo scorso 17 agosto, Giulio Rapetti, in arte Mogol, ha recentemente pubblicato l’autobiografia «Il mio mestiere è vivere la vita». Musica361 ha recensito il libro per voi.

Mogol, “Il mio mestiere è vivere la vita”
La copertina del libro di Mogol, edito da Rizzoli.

Emozioni, 29 settembre e Una lacrima sul viso: solo alcune canzoni che ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, ha ascoltato almeno una volta nella vita.

In esse si ritrovano parole ed espressioni diventate patrimonio comune, non solo di una generazione: in questo volume vengono rievocate e raccontate da uno dei parolieri più importanti della tradizione italiana e accompagnate da straordinari ricordi, curiosi aneddoti, incontri memorabili, vivide emozioni e foto d’archivio.

L’affettuosa prefazione del giornalista Clemente J. Mimun e il contributo di Tony Renis introducono un viaggio che comincia malinconicamente da via Clericetti a Milano nel 1936: «Sono cresciuto in una Milano molto diversa da oggi, in un mondo molto più umano e autentico».

La bocciatura all’esame di stato al termine delle scuole elementari, e per di più per essere andato fuori tema, non sembra scoraggiare il giovane Giulio: nel 1954, a 18 anni, entra a lavorare in Ricordi, prima con funzione di “computer”, come lui stesso dice, poi controllando le versioni italiane di canzoni straniere. «Ne lessi moltissime e cominciai anche ad inserire alcune correzioni, così pensai di cominciare a scrivere testi; ci presi gusto diventando piuttosto bravo e decisi di dedicarmi solo a quello».

Un giorno nel ’56 propone ad Adriano Celentano uno dei suoi primissimi esperimenti, la canzone Piccolo sole: «Emozionati, entrammo nell’ufficio di mio padre Mariano, allora dirigente in Ricordi, e gliela cantammo. Lui disse qualcosa comeVa bene e poi, rimasto solo con me sbottò: “La canzone fa pena e quello è stonato: ma che volete da me?!”».

Nel frattempo si occupa anche di promozione e occasionalmente di scouting: così racconta l’ironico incontro al Santa Tecla di Milano con un giovanissimo Giorgio Gaber che, dopo l’offerta di Mogol a firmare un contratto in Ricordi, non si presentò credendo si trattasse di uno scherzo o il rapporto con Mina conosciuta ancora col nome di Baby Gate. «Era la mia migliore amica. Trascorrevamo molto tempo insieme all’epoca. La nostra collaborazione durò per anni».

Nel 1959, quando gli pseudonimi erano piuttosto diffusi tra i compositori anche il nostro ne cerca uno nel tentativo di rendersi il più possibile indipendente, dovendo lavorare per diversi editori. Invia una lista di proposte alla SIAE che alla fine approva lo pseudonimo “Mogol”: «Non mi ricordavo nemmeno da dove l’avevo tirato fuori […] ero terrorizzato dall’idea di chiamarmi “Mogol”, suonava come un nome da fumetto. Nonostante tutto accettai di tenermelo, pensando che tanto non sarebbe mai diventato famoso».

E invece non solo vincerà il Sanremo 1961 con Al di là interpretata da Luciano Tajoli ma continuerà a scrivere per tanti altri, anche se speciale rimarrà la mitica collaborazione con Lucio Battisti.

Giulio Rapetti, in arte Mogol
Giulio Rapetti, in arte Mogol (Foto © Olycom).

L’incontro che cambia la sua vita e la canzone italiana avviene nel 1965 quando una collega gli presenta questo giovane musicista che gli fa ascoltare due canzoni. Leggenda vuole che il primo parere sia «Non sono granché», aggiungendo di ripassare qualche giorno più tardi per provare a scrivere insieme qualcosa di meglio. Battisti si ripresenta con una musica inedita e Mogol compone Dolce di giorno. Da allora ha inizio un sodalizio basato su una stima reciproca: «Tra noi si creò un rapporto profondo, riuscivamo a capirci bene, anche perché in qualche modo le nostre erano due mentalità completamente diverse che si integravano alla perfezione».

Più ci si addentra nella lettura e nella stesura dei testi, più si capisce il significato del titolo “Il mio mestiere è vivere la vita”, tratta dall’omonima canzone del 1978: «Attingo sempre alle mie esperienze personali, alla mia vita e ai miei principi. Se devo raccontare qualcosa devo averla vissuta in prima persona o vista vivere da qualcun altro». E si scopre così ad esempio che “le bionde trecce e gli occhi azzurri” della celeberrima Canzone del Sole sono quelli del primo amore, Titti: «Avevo cinque anni, lei sei. Era la bambina dell’appartamento accanto al mio».

Contenuti che hanno sempre più trovato forma secondo una tecnica precisa: «Nel corso degli anni, ho sperimentato una tecnica particolare […] e cioè una costruzione del testo analoga a un montaggio cinematografico che alterna immagini del presente e flashback, immagini di contorno e primi piani. […] nella melodia cerco il testo, le parole nascoste […] l’anima di quella musica per poterla esprimere a parole, perché quando questo accade si crea una sinergia emotiva molto potente».

Ispirazioni sempre più affinate nella composizione, al punto che spesso una canzone vedeva la luce in meno di un’ora come nel caso di Una lacrima sul viso, nata durante un viaggio in macchina insieme a Bobby Solo verso la sala d’incisione. Si capisce anche quanto potesse essere facile così partorire in una settimana un album intero, come è accaduto spesso anche nell’ultimo periodo con Battisti.

In una sezione Mogol coglie l’occasione anche per rispondere alle accuse di presunto fascismo quando a cavallo degli anni Sessanta e Settanta schierarsi politicamente veniva considerato un dovere e la musica non faceva eccezione: «Ci etichettarono come fascisti. E tutto perché non scrivevo canzoni come Contessa o testi che parlavano di falce e martello. Non so di preciso come nacque la cosa ma alcuni episodi vennero utilizzati in malafede per corroborare quest’idea […]. Per questo motivo consigliai a Lucio di non esibirsi più».

Si parla di Battisti ma c’è spazio anche per Luigi Tenco, Mario Lavezzi, Riccardo Cocciante, Mango e Gianni Morandi o star internazionali come Bob Dylan e David Bowie: «La mia carriera è fatta di sodalizi importanti e di lunga durata come quelli con Lucio e Gianni Bella, e di collaborazioni più saltuarie, addirittura a volte il tempo di una sola canzone come accadde con Rino Gaetano (Resta vile maschio, dove vai)».

E ancora accenni alla nascita dell’etichetta “Numero Uno”, alla Nazionale Italiana Cantanti, fino alla Fondazione CET, la sua scuola di formazione per musicisti, autori e cantanti.

Riflettendo sulla condizione della cultura popolare in Italia in preda ad un marketing che sempre meno spazio lascia alla creatività Mogol spiega: «Siamo passati da un discorso musicale legato alla qualità ad uno orientato esclusivamente al profitto e questo nuoce gravemente alla musica. […] Pensai che avrei potuto fare qualcosa […] e mi venne un’idea: avrei costruito una scuola in cui accogliere e formare autori, compositori e interpreti».

Da allora ancora oggi, a 80 anni, come scrive Mimun nella prefazione, Mogol “ha mille sogni e pensa solo al futuro”. E continua la sua battaglia per il diritto alla creatività artistica: «Nonostante il CET sia diventato la scuola per creativi e interpreti più importante d’Europa, se sarà ancora consentito alle radio e agli spettacoli televisivi di produrre dischi, firmando contratti editoriali e discografici e preferendo la notorietà alla qualità, temo che la cultura popolare sarà fortemente compromessa. Non vorrei fosse così ma probabilmente il futuro è alle nostre spalle».

Così si conclude un libro che, tra poesia e testimonianza, rappresenta una bella occasione per conoscere meglio non solo l’autore Mogol ma anche l’uomo Giulio Rapetti.

In attesa di rivederli in Italia a novembre, Musica361 ha intervistato i frontmen dei Lacuna Coil, Cristina Scabbia e Andrea Ferro, durante una tappa del tour dell’ultimo album Delirium.

Lacuna Coil, intervista a Cristina Scabbia e Andrea Ferro
Cristina Scabbia e Andrea Ferro dei Lacuna Coil.

Dopo l’uscita di Delirium lo scorso 27 maggio, i Lacuna Coil hanno intrapreso il tour mondiale che li ha portati in estate anche nel nostro Paese, il loro paese. Una delle (poche) icone italiane del metal mondiale degli ultimi 20 anni si racconta a Musica 361.

Un disco autoprodotto, un cambio di formazione con la partecipazione di special guests come Mark Vollelunga e Myles Kennedy e una sonorità più hard rispetto agli album precedenti: che tappa rappresenta Delirium nella vostra carriera?
Cristina: Un album di cambiamento sicuramente. Metaforicamente però non lo definirei il capitolo successivo nella discografia dei Lacuna Coil ma un libro completamente nuovo: in parte per i cambi di formazione che si sono verificati negli ultimi due anni, in parte per una ripresa di elementi nella nostra musica che richiamano sonorità degli inizi di carriera, addirittura dei nostri primi demo.

Andrea: La tematica di questo nuovo “libro” è la follia intesa tanto come malattia mentale nell’accezione clinica quanto come follia quotidiana: non ci riferiamo solo agli episodi di follia di questo momento storico nel mondo ma anche alle piccole follie della gente comune, alle quali ormai non si fa più caso. L’idea di base è stata la creazione di un manicomio immaginario, il “Lacuna Coil Sanatorium”, nel quale ogni paziente dalla sua stanza racconta diverse storie, tutte legate alla tematica della follia, filo conduttore delle canzoni. In questo senso si può parlare di un “concept”, anche se non lo è propriamente.

Come è nata la canzone Delirium, che poi ha segnato la nascita di questo album?
Andrea: Solitamente, come per altre canzoni, nasce prima la musica che scrive il nostro bassista Marco Coti-Zelati: passa a me e a Cristina demo con versioni grezze sulle quali lavoriamo separatamente per trovare linee vocali ed arrangiamenti che poi insieme discutiamo, elaboriamo o a volte cambiamo completamente.

Cristina: Per Delirium in particolare stavamo cercando una parola che si prestasse ad essere utilizzata ossessivamente all’interno della melodia, una parola evocativa che avesse la forza di trascinare il ritornello. Appena individuata la parola “delirium” è venuto naturale sviluppare e declinare questa tematica a tutte le altre canzoni. E così è stato anche per la copertina, le foto del book o il nostro vestiario: e abbiamo deciso di intitolare così il disco.

Recentemente è stato pubblicato anche il video di Delirium: come lo avete realizzato?
Cristina: si tratta di un video composto da immagini girate in due luoghi e momenti completamente diversi. Il regista ha girato in Germania tutte le scene con la protagonista che interpreta il testo di Delirium, nei vari set tra il bosco e le stanze del manicomio. Ci sono chiari riferimenti ai film horror italiani anni ’80 ma anche a certi horror psicologici di matrice coreana o giapponese, con un pizzico di splatter. Insieme a queste immagini sono state montate quelle girate da noi stessi in tour in America con una telecamera GoPro. È stato un esperimento che comunque non ci è costato molto: ci ha intrigato l’idea di realizzare questo video quasi a caso, senza sapere bene cosa sarebbe venuto fuori ma siamo rimasti soddisfatti.

Andrea: Volevamo qualcosa che non fosse il solito video un po’ patinato e a sé ma che, al contrario, fosse in accordo a un album duro e sporco, qualcosa di cult che non dovesse poi necessariamente essere passato in tv.

A proposito di tv, radio e media: c’è un campo o un settore nel quale oggi vedete più che in altri veramente il delirio?
Andrea: In questo periodo siamo circondati dalla follia, non è difficile riscontrarla in qualunque ambito. Basta guardare un telegiornale: dal terrorismo organizzato agli squilibrati, passando per le dichiarazioni di certi politici…

Cristina: Senza contare la dipendenza dalla tecnologia e l’atteggiamento di giudicare tutto e tutti senza filtri sui social, soprattutto da parte di chi non conosce veramente fino in fondo certe questioni. Esistono personaggi veramente folli nella quotidianità ma comunque accettati e tante situazioni intollerabili reputate “normali”. Tanti e altri esempi di questo tipo hanno dato ispirazione all’album, prevalentemente comunque basato sulla vera malattia mentale, patologie come la depressione o problemi comportamentali legati ad un profondo senso di inadeguatezza. Ricevendo tutti i giorni mail dai fans ci siamo resi conto che è un argomento molto diffuso ma stigmatizzato, che si tende a nascondere.

Restiamo ai fans: come è l’accoglienza del pubblico italiano rispetto a quello americano o internazionale in genere?
Cristina: In parte è strano essere considerati un gruppo internazionale da tanti italiani che non sanno che siamo connazionali e magari ci scrivono su facebook in inglese. D’altra parte il 98% della nostra attività è all’estero: è paradossale pensare che per noi, band italiana, l’Italia sia un mercato quasi da scoprire. Abbiamo alle spalle una storia particolare, unica: non siamo certo il classico gruppo da classifica o da ospitate televisive ma ovunque andiamo c’è sempre qualcuno che ci riconosce. C’è un seguito sotterraneo: il nostro genere non è certo quello che va di più in Italia, però troviamo sempre un gran numero di fans e di estimatori che quasi non ci saremmo mai aspettati.

Andrea: L’Italia è un mercato in crescita costante e ce lo sta dimostrando soprattutto la partecipazione del pubblico ai concerti. Questo significa che la nostra fama cresce: noi stessi restiamo sempre più sorpresi dell’ottima reazione ovunque, non solo a Milano o in Lombardia, dove ce lo aspettiamo di più perché in qualche modo è casa nostra, ma ad esempio anche in Veneto, Toscana o Liguria.

Pur avendo cominciato e avuto, di fatto, più successo all’estero, artisticamente però vi sentite più italiani o internazionali?
Cristina: Per il genere che facciamo e per il gusto musicale sicuramente siamo internazionali. Le stesse influenze musicali che avevamo quando abbiamo iniziato, per non parlare delle attuali, sono decisamente orientate verso la musica internazionale.

Andrea: Non è snobbismo ma una questione di stimoli: abbiamo gusti musicali che facciamo fatica a trovare in Italia.

Qual è oggi la situazione del genere metal in Italia?
Andrea: Secondo me in crescita: vedo tanti nuovi gruppi che stanno nascendo in ambito rock metal, alcuni che cominciano anche a fare tour in giro per il mondo come i Fleshgod Apocalypse di Perugia, che già abbiamo incontrato in diversi festival in America. Non mancano i gruppi però non c’è più di tanto un’attenzione nazionale a questo tipo di musica, a parte forse il nostro caso che rimane isolato.

Cristina: In Italia il metal è proprio un mondo a parte: esiste uno zoccolo duro ma sempre underground. È sempre bello sentire un certo tipo di fan fedele nel tempo, capace di seguirti a prescindere da quello che fai, non solo quando esce il disco nuovo. Non è così per chi segue altri generi musicali in cui certi artisti vengono seguiti finché hanno un singolo di successo o restano sull’onda per poi sparire e dare magari spazio al nuovo arrivato da un talent o al protetto di turno.

Il fatto che una delle caratteristiche del genere metal sia la sua essenza underground non ne rappresenta anche una qualità? Nel momento in cui questo genere dovesse, poniamo il caso, commercializzarsi non corrisponderebbe ad una perdita di valore?
Andrea: Il metal non si presta più di tanto alla commercializzazione, a meno che non si parli di grandissimi nomi a livello mondiale come Iron Maiden o AC/DC che hanno fatto la storia della musica o più recentemente System of a Down e Linkin’ Park, che hanno superato le barriere del metal e del rock.

Cristina: Non credo che il metal si commercializzerà mai: prima che un genere musicale è uno stile di vita, non ci si improvvisa metallaro. Senza contare luoghi comuni come l’equazione metal uguale rumore: insomma non credo che abbia le caratteristiche per diventare un genere di massa. A meno che non lo decida qualcuno, per altri motivi.

Curiosità: oltre al vinile Delirium è stato stampato anche in musicassetta. Un modo per arrivare agli affezionati del vintage o un pur debole ma significativo segnale per resistere al totale tentativo di strapotere di Spotify e altre piattaforme?
Cristina: Vogliamo considerare la musicassetta solo un pezzo per collezionisti: come buona parte del nostro pubblico noi siamo cresciuti con le musicassette. Il nostro primo demo spedito ad una casa discografica fu su cassetta (sorride)

Andrea: La cassetta è una chicca! (sorride) Il vinile invece rappresenta una nuova forte tendenza in aumento: in America l’anno scorso, dopo il download digitale al primo posto, i vinili hanno addirittura superato, anche se di poco, le vendite di CD. Però rimane ancora un elemento per collezionisti: è il gusto di avere qualcosa che non sia più così comune. Noi stessi scarichiamo poche canzoni dalla rete perché abbiamo il blocco mentale generazionale di comprare qualcosa che però non puoi effettivamente possedere.

Insomma una volta si ereditavano i dischi… e domani?

DELIRIUM

Debutta il 27 settembre al teatro Tieffe Menotti di Milano Mi amerò lo stesso, spettacolo autobiografico della cantautrice romana in veste di attrice. Paola Turci racconta a Musica361 della genesi di questo monologo e dei prossimi progetti.

A Parigi nel 2013, Paola Turci scrive la sua autobiografia dal titolo Mi amerò lo stesso. Poi torna in Italia, realizza l’album antologico Io sono insieme a Federico Dragogna dei Ministri e nel giugno 2015 ha inizio l’ “Io sono in tour” che vede le ultime tappe nei teatri italiani nel gennaio 2016.

E proprio in un teatro, il Tieffe Menotti di Milano, da un’idea del direttore e regista Emilio Russo, prende forma una nuova avventura artistica ispirata dalla biografia della cantante.

Paola-Turci-debutta-a-teatro
Paola Turci il 27 settembre debutta al Teatro Tieffe Menotti di Milano con lo spettacolo “Mi amerò lo stesso”.

Già nel 2006 hai portato in scena il progetto Cielo-voce danzante e corpo sonoro, con un repertorio dal vivo fatto di tue canzoni e reinterpretazioni di altri autori, supportate dalla gestualità coreografica del ballerino Giorgio Rossi. Stavolta invece nel tuo sito ufficiale fai riferimento ad un progetto teatrale, “Mi amerò lo stesso”, «che potrebbe realizzare quel piccolo grande sogno rimasto chiuso a chiave da quel 15 agosto 1993»: il sogno era essere attrice?
Esatto, è quello il sogno che finalmente si realizza. È un desiderio che nasce da quell’indimenticabile periodo passato a Roma a seguire un corso di teatro con Beatrice Bracco: mi innamorai perdutamente del lavoro dell’attore, un po’ come quando sei disposto ad abbandonare tutto per amore. Mi sentivo pronta per diventare un’attrice, adoravo usare la voce, non solo per cantare. Avevo il sostegno della mia insegnante che credeva nelle mie capacità: fui persino in scena tre settimane al Teatro Dell’Orologio a Roma con un atto unico. In quel periodo non pensavo ad altro, continuavo a fare provini su provini: l’ultimo, memorabile, a Cinecittà con Ettore Scola per un film che si chiamava “Mario Maria e Mario” fu 20 giorni prima del fatale incidente dell’agosto 1993. L’incidente ha frantumato quel sogno, proprio come il mio volto. Da allora accantonai quel desiderio. Finché Emilio Russo ha letto la mia biografia, “Mi amerò lo stesso”, nella quale ho raccontato di questa mia passione per il teatro e così mi ha proposto di portare in scena quel testo con me come protagonista.

Quale è stata la tua reazione a questa proposta?
È stata una proposta folle alla quale io, come una pazza, ho detto di sì! (Ride) L’idea di rimettermi a recitare un monologo dopo 23 anni è davvero da pazzi, però abbiamo lavorato al progetto per un anno e presto giudicherete il risultato.

Com’è l’emozione di calcare il palco per recitare anziché cantare stavolta?
L’abitudine al palco, pur cantando, non è la stessa, anzi non c’entra assolutamente niente. Per me è come fosse la prima volta, la prima volta in assoluto. A pochi giorni dal debutto oramai ho chiaro il testo e le scene però mi sento un po’ incosciente e nonostante il lavoro fatto vorrei prepararmi molto ma molto di più, come in quei giorni quando frequentavo il corso di teatro. Dopo oltre 20 anni uno pensa che i conti si chiudano e invece eccomi qua: questa idea mi emoziona tantissimo e mi aiuta a dimenticare l’ansia delle ultime ore.

 Mi amerò lo stesso: a parte il riferimento al tuo brano Ti amerò lo stesso, qual è il messaggio di questo titolo?
“Mi amerò lo stesso” è un modo per dire che chiunque debba prima di tutto avere un amore incondizionato per se stesso, a prescindere da tutto ciò che può accadere nella vita. È la chiave per avere una vita migliore: se noi ci vogliamo bene, sappiamo anche voler bene. È un invito a volersi bene, guardando oltre le apparenze: la scena dello spettacolo è fatta di specchi che riflettono la realtà ma che possono essere interpretati anche come “lo specchio di Alice” che può essere attraversato. Lo specchio può anche riflettere la vita come la vediamo ma, se a volte non ci piacciamo, passarci attraverso e andare oltre può diventare la soluzione.

Lo spettacolo inizia appunto con te che ti guardi allo specchio: così comincia il tuo percorso biografico. Come ricordi il momento in cui ti sei guardata allo specchio per la prima volta e hai deciso di diventare cantautrice per mestiere?
Sono cresciuta guardandomi allo specchio. Spesso da piccola mi chiudevo in bagno e mi specchiavo imbracciando la chitarra: mi serviva più che altro per visualizzare lo strumento e capire come suonare. Non mi guardavo in volto, guardavo me come figura d’insieme e mi piaceva tantissimo: in quei momenti mi sentivo diversa da tutte le altre persone che conoscevo. Poi quando un incidente ti cambia i connotati del volto, ci si comincia a vedere in un modo assolutamente nuovo.

Com’è oggi il tuo rapporto con lo specchio?
Oggi il mio miglior momento allo specchio è quando mi immagino senza guardarmi: quando non mi guardo mi sento bene e sento che posso dare tutto.

“Mi amerò lo stesso” è uno spettacolo per conoscere più l’artista Paola Turci o la donna Paola Turci?
Io mi auguro l’attrice Paola Turci! Lo considero una mia prova d’attrice, lontano dalla mia consueta immagine di cantautrice. Anche se immagino che ci sarà una certa partecipazione da parte di quel pubblico legato alla mia esperienza musicale, stavolta vorrei che gli spettatori vedessero sul palco un’attrice, non la cantante che prova a recitare. Ci sono solo due momenti in cui canto: ho “lottato” molto col regista che avrebbe voluto inserire dei passaggi con chitarra e voce ma io sono stata categorica, “Non voglio cantare, voglio recitare!”

Senza l’incidente pensi che saresti diventata attrice anziché cantante?
Non saprei dire, credo che in qualche modo sarei comunque tornata alla musica, che comunque fa parte di me un po’ come il mio tessuto epidermico dal quale non potrò mai separarmi. C’è una battuta del monologo che dice “È soltanto quando suonavo che smettevo di sentirmi normale ed ero bellissima”: e in effetti attraverso la mia la musica sono riuscita a sentirmi realizzata. La musica rimane un elemento portante della mia vita: non a caso la descrivo come l’incanto di un bambino si trova nel posto più bello che possa immaginare.

Paola-Turci-Mi-amero-lo-stessoSi parla di fasi importanti della tua vita nel monologo, di conseguenza non si può non parlare del tuo repertorio. Secondo te qual è la canzone più rappresentativa della tua carriera per il pubblico e quella invece più significativa per te?
La mia canzone più conosciuta dal pubblico credo sia Bambini: una canzone che porta con sé un contenuto sociale che ancora oggi, dopo 27 anni, sa suscitare emozione e turbamento. Ogni volta che la canto in concerto c’è sempre un bel ritorno: è incredibile come sia ancora tristemente attuale. Piace molto anche Questione di sguardi, decisamente più leggera e forse ancora più conosciuta. Una canzone significativa per me è Stato di calma apparente, la prima che ho scritto: viene da sé capire il motivo per cui la considero importante.

Tra i tuoi prossimi progetti c’è l’intenzione di proporre questo spettacolo in altri teatri italiani e più in generale di dedicarti ad altri progetti di questo tipo o è solo un esperimento?
Non lo considero un semplice esperimento, anzi è il progetto più importante che sto realizzando in questo momento: per ora il debutto è finalizzato all’esperienza in questo teatro. Ho già avuto altre proposte ma voglio prima avere un riscontro concreto di questo lavoro. Se sarà positivo ci penserò, nel caso se ne parlerà comunque a gennaio prossimo: a ottobre la mia priorità sarà concludere il mio prossimo disco.

Hai debuttato al Festival di Sanremo (1986) col cantautorato de L’uomo di ieri, poi la svolta pop rock da Oltre le nuvole (1997), portando avanti queste due anime contaminate: oggi sei artisticamente interessata o orientata verso un genere o un tema in particolare?
Sto lavorando a nuove canzoni senza preoccuparmi del genere o della forma: una canzone può nascere rappata, parlata o sussurrata, con il ritornello solo alla fine o senza. Voglio che la musica prenda la sua naturale forma, che la composizione nasca spontanea, senza dare alcuna direzione. È molto rischioso seguire direzioni precise per poi ritrovarsi tutti a fare le stesse cose. Io comincio sempre sviluppando temi e spunti che mi tocchino o che mi ispirino: seguo una serie di combinazioni interessanti che mi portano alla forma giusta per ogni canzone. Giusta per me si intende.
Davide Rossi, grande musicista, produttore e arrangiatore, col quale sto lavorando mi sta dando nuove e stimolanti chiavi di lettura. E in questo senso il prossimo disco potrebbe essere assolutamente inedito rispetto ai precedenti per me. Anzi voglio che lo sia.

Tra i tuoi prossimi lavori, oltre a un album di inediti anche un nuovo romanzo: puoi anticiparci qualcosa?
Mi piace tantissimo scrivere in prosa e da tempo ho la voglia di raccontare una storia. Dopo aver concluso il disco mi dedicherò anche a quello. Vi aggiornerò…Intanto, in vista del debutto, desidero ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo spettacolo ma in particolare tre persone preziosissime: il direttore del teatro e regista Emilio Russo, l’assistente alla regia Fabio Zulli, che mi ha aiutata a riprendere il training dell’attore e la costumista Pamela Aicardi sempre presente.

Daniele Babbini inaugura una nuova fase della sua carriera proponendo nelle radio “Storie di tutti i giorni“, la cover del grande successo di Riccardo Fogli con cui vinse il Festival di Sanremo nel 1982.

Daniele-Babini-cover-Storie-di-tutti-i-giorni
Daniele Babbini.

Mentre Riccardo Fogli è in tour con i Pooh in questi mesi per celebrare i 50 anni della loro carriera, Daniele Babbini omaggia il successo con cui il cantante livornese vinse Sanremo nel 1982.

Tanti i motivi alla base della scelta di riproporre una nuova versione di questo classico della musica italiana: dall’incredibile attualità di un testo che descrive gli incroci delle storie della gente che ancora oggi cerca di opporsi alla monotonia della quotidianità, alla curiosità di far emergere nuove potenziali sonorità di una canzone pop ma dall’anima rock. E poi ci sono i ricordi di un bambino che sentiva fischiettare tra le mura di casa quella melodia dal papà…

Il cantautore toscano racconta a Musica361 di questa nuova fase all’interno del suo percorso artistico.

Il tuo primo singolo è Oggi però (EMI, 2003). Qual è stato il percorso che ti ha portato a questa prima pubblicazione?
Ho avuto come tanti le mie prime esperienze suonando nelle cosiddette garage band. Il mio primo gruppo si chiamava Dedd, una formazione dark rock ispirata alla new wave inglese e a band come Sisters of Mercy, Depeche Mode, Cure o JoyDivision: si trattava di un gruppo legato dall’amicizia di compagni di classe di liceo ma che a fine anni ’90 aveva già un suo seguito in Toscana, Emilia e Liguria. Pubblicammo anche un EP dal titolo Fotogrammi, di cui io ero autore di musiche e testi. Nasco quindi come chitarrista: e fin da quando ho iniziato a suonare a 16 anni mi resi conto quanto avere in mano uno strumento per creare qualcosa di nuovo e soprattutto di mio fosse proprio un’esigenza. Imbracciavo la chitarra e mi mettevo a suonare accordi e melodie magari non proprio belle, come spesso accade per le prime prove di scrittura, che però sapevano in qualche modo già darmi una certa soddisfazione. All’epoca neanche mi interessava che fossero canzoni belle o brutte, tanto ancora nemmeno immaginavo che quello sarebbe diventato il mio mestiere.

E che futuro immaginavi a 16 anni, come ti vedevi?
Non ricordo come mi vedessi: non sapevo ancora cosa avrei fatto nella vita o probabilmente non ci pensavo. Durante l’adolescenza sempre più sentivo, per diversi motivi, la necessità di dare sfogo alle mie emozioni e avevo capito che l’unica cosa che mi faceva veramente star bene era la musica. Sentivo di avere qualcosa da dire e stavo cercando il modo di farlo. Da tempo scrivevo appunti, pensieri, poesie e canzoni: dopo che i Dedd si sciolsero mi rimasero nel cassetto un po’ di canzoni che decisi con coraggio di proporre ad alcuni produttori come autore. La Emi, l’etichetta dei miei miti, dai Pink Floyd a Vasco Rossi, fu la prima alla quale mandai una mia demo. E la prima che mi rifiutò. Però non ho mollato: alla PMI, etichetta indipendente di Firenze, piacquero i miei pezzi. Anzi, quando mi fecero registrare i provini dei primi due brani con la mia voce guida, mi proposero pure di pubblicarle cantate da me. Il primo singolo fu Aspettando la notte e da lì cominciò tutto: sono passato alla Warner Chappell italiana come autore e quasi immediatamente, ironia della sorte, alla Emi come artista con la quale ho pubblicato Oggi però, che arrivò due volte nella classifica nazionale di vendita dei singoli (F.I.M.I.), venne trasmesso in Francia dal network Trafic Fm e pure distribuito in Germania. È accaduto così: quando sei molto giovane, scrivi per caso un singolo che piace e ha successo in radio, nel giro di pochi mesi firmi con la Warner e con la Emi, perdi di vista ogni altra opportunità e alla fine pensi “forse devo fare proprio questo”. Con tutte le difficoltà del caso perché il mio percorso qualche voltami ha portato anche a fermarmi e a ricominciare.

Ci sono stati dei momenti in cui hai, per così dire, vacillato?
Ho avuto due “pause”. La prima risale a poco dopo la pubblicazione di Oggi però, dal 2005 al 2007: volevo realizzare un disco in un determinato modo e mi sono scontrato con chi invece voleva spingermi a fare altro, così avevo deciso di cambiare produzione. Non mi definisco un alternativo però ho sempre fatto ciò che sentivo giusto: e in quel momento sentivo giusta la decisione di aspettare che avesse termine un contratto in essere per poi ricominciare con qualcun altro. E poi, casi della vita, ho realizzato il primo album ancora in EMI ma con persone e facce nuove. Il secondo momento risale al 2013 invece quando sono stato impegnato nella stesura e nella promozione del mio primo romanzo.

Accanto alla musica, la letteratura rappresenta sicuramente un altro elemento del tuo processo creativo. A cominciare dalla raccolta di poesie “L’ombra dell’anima” (La Versiliana Editrice, 2007), impreziosito dalla prefazione di Rina Centa Strambi e vincitore di premi letterari. In questa prima “opera prima”, seguita poi da altre raccolte, si leggono componimenti sotto forma di appunti, schizzi e stati d’animo del quotidiano impressi su carta.
L’ombra dell’anima” è nata in quel primo periodo di pausa mentre aspettavo che scadesse il contratto: un giorno mettendo ordine a un sacco di mie carte e appunti, mi venne l’idea di scrivere e regalare per Natale un libricino in 30 copie agli amici. Conoscevo personalmente l’allora centenaria attrice Rina Centa e le chiesi se poteva leggere e dare una parere alla qualità dei miei scritti. A mia insaputa mi organizzò un incontro con la sua Casa Editrice, La Versiliana, che poi mi propose di pubblicare il libro. E da quella occasione in poi ci presi gusto e a cadenza di due o tre anni continuai a pubblicare qualcosa, per un totale di quattro raccolte ad oggi.

C’è una raccolta in particolare della quale sei più orgoglioso?
Quella di cui sono più orgoglioso è La poesia delle piccole cose (2012) con la prefazione di Zucchero. In particolare sono legato a questa raccolta perché è legata ad una operazione di beneficienza a cui tengo molto: ho ceduto tutti i diritti all’Ospedale Pediatrico Apuano che percepirà per sempre il prezzo intero di copertina di ogni copia, grazie anche all’editore che ha rinunciato a tutte le royalties.

Un apprezzamento che dimostra ancora una volta la tua attenzione al sociale, come per il caso della canzone Libero Barabba utilizzata, col tuo beneplacito, come titolo della campagna internazionale contro la pena di morte.
Sono stato orgoglioso di aver prestato il titolo di questa canzone per una causa come quella: sono profondamente contrario alla pena di morte. In quel caso però non ho fatto altro che appoggiare quella causa. Al contrario cedere l’incasso de La poesia delle piccole cose ha rappresentato una partecipazione più attiva: io stesso ho vissuto brutti momenti in ospedale a causa di un intervento al cuore e mi ha toccato molto vedere bambini di pochi giorni costretti a subire operazioni delicate. Ho anche personalmente conosciuto i genitori dei bambini ricoverati e gli infermieri dell’ospedale: più di tutto però mi ha commosso il bellissimo regalo che mi hanno fatto i bambini riempiendo tutta la corsia del reparto degenze con disegni e testi delle mie poesie… È quando vedi cose del genere facendo del bene in questo modo che puoi dire veramente a te stesso: “adesso ho fatto veramente qualcosa di importante”. Le radio che passano i tuoi pezzi possono appagare il tuo ego per qualche settimana, i dischi d’oro fanno la polvere e qualche migliaia di copie vendute non cambiano la vita a me ma donare tutto quello che poteva venire da un libro a un ospedale può fare la differenza per altri.

Rispetto a questa doppia anima musicale e letteraria: ti senti più un poeta prestato alla musica o un musicista prestato alla poesia?
Mi sento prima di tutto un comunicatore: quando sento di avere qualcosa da dire lo faccio scegliendo il linguaggio più appropriato, sia per ciò che voglio comunicare, sia per il pubblico al quale voglio rivolgermi. Sostanzialmente però sento un’anima da musicista: spesso scrivo più che altro appunti che non definirei proprio poesie ma che potrebbero essere sviluppati e diventare canzoni…Insomma sono ecosostenibile: tutto ciò che scrivo viene in qualche modo riciclato! (Ride)

Che tipo di cantautore ti definiresti? Qual è la tua anima e i tuoi riferimenti musicali?
Vengo da influenze rock e new wave per cui il mio approccio alla musica è quello. Accanto a quest’anima rock per me sono prioritarie le parole: mi sono fatto le ossa ascoltando i dischi di cantautori italiani che in qualche modo hanno scritto dei capitoli unici, da Battisti e De André passando per Ivan Graziani e Rino Gaetano fino a Tenco, secondo me il primo vero artista che ha dato una svolta alla musica italiana.
Ho uno stile riconoscibile nella stesura dei testi da disco a disco ma musicalmente ho sempre cercato di variare: mi piace che all’interno di uno stesso album ci siano colori diversi e che ogni canzone possa essere diversa dall’altra. Ho usato molto l’elettronica e l’acustica, scritto canzoni più rock o più pop a seconda del periodo, della tematica e della canzone.

Oltre a Gatto Panceri, col quale sei stato in tour e hai scritto Guida Tu e Ipnotica, con chi ti piacerebbe collaborare tra gli artisti del panorama musicale italiano?
Mi piacerebbe collaborare o duettare con un artista genuino come Gianluca Grignani. Artisticamente lo stimo moltissimo perché ha sempre fatto quello che ha voluto, cominciando con un album da 2.000.000 copie come Destinazione Paradiso (1995) e passando successivamente a La Fabbrica di plastica (1996), andando contro ogni logica di mercato: puoi permetterti di fare scelte del genere solo se sei uno vero. E poi qualcuno sostiene che fisicamente ci somigliamo: magari se ci vedono su un palco insieme o sulle copertina di un cd ci distinguono! (Ride). Per il resto finora non posso lamentarmi quanto a collaborazioni: Steve Lyon, produttore tra gli altri di Cure, Depeche Mode e Paul McCartney, ha mixato il mio secondo e terzo album, il mio chitarrista è lo scozzese Steve Blades ,storico membro degli Excalibur e Pippo Pollina, che ho conosciuto alla consegna del premio Lunezia, ha duettato nel mio album La linea gialla (2013). E poi naturalmente per il mio ultimo singolo, Storie di tutti i giorni, c’era un progetto di featuring con Riccardo Fogli: poi la reunion con i Pooh lo ha portato in tour e non è stato più possibile.

Daniele-Babini-Storie-di-tutti-i-giorniPer l’estate 2016 hai pubblicato appunto Storie di tutti i giorni di Riccardo Fogli.Perché proprio questa canzone?
L’estate scorsa ho diviso il palco a Livorno nella rassegna “Spazio d’Autore” con Riccardo, che proprio quella sera aveva cantato Storie di tutti i giorni voce e chitarra. Chiacchierando in camerino considerammo quanto il testo dopo 35 anni fosse ancora straordinariamente attuale e gli confessai pure del legame personale che avevo con quel branoche mi ricordava la mia infanzia. E soprattutto di quanto fosse secondo me una canzone rock già nella sua versione originale, cosa che, probabilmente perché proposta inizialmente al pubblico pop di Sanremo, non emergeva: gli dissi che sarebbe stato bello registrarla con una nuova sonorità. Per tutti questi motivi alla fine mi incoraggiò affettuosamente a rifarla: io avevo già in programma di registrare nuove canzoni per l’Italia quindi ho pensato “perché no”. Questa cover rappresenta per me un punto e a capo: uno spartiacque che ha segnato una mia nuova fase, senza rinnegare nulla.

Rappresenta una nuova fase anche nel senso che è la tua prima cover mai registrata, giusto?
Non ho mai registrato cover, nemmeno ai tempi delle prime garage band. È stato un po’ strano mettermi alla prova come interprete di un brano non scritto da me e a questo punto della mia carriera. Ero un po’ intimorito perché è una canzone famosissima e poi perché i fan di Fogli sono abituati bene: ricantandola nella versione originale mi sono reso conto che Riccardo ha una canna di voce non indifferente! (Ride) É stata una sfida misurarmi con un brano non facile nella sua tonalità originale. Però è anche giusto che la canzone non venisse snaturata, sia come struttura che come tonalità: è stata una soddisfazione essere riuscito a cantarla come l’originale!

Trovandoti invece a cantare i versi di una canzone che descrive la gente dei primi anni ’80, che effetto ti ha fatto pensare alle “storie di tutti i giorni” di oggi?
Avrebbero potuto scrivere questo testo un mese fa e credo che non lo avrebbero cambiato di una virgola. Storie di tutti i giorni parla della gente comune, di quelle persone che non hanno grossi guai ma neppure grossi trionfi, del rischio di perdersi nell’anonimato, del confondersi in vite sempre uguali e abitudinarie, del confondersi nella massa con il rischio di diventare un numero da statistica: ancora oggi viviamo in una società in cui questo rischio è quanto mai attuale. I social network non rappresentano altro che il bisogno di uscire per pochi secondi dall’anonimato ma allo stesso tempo sono una grande maschera per mostrare solo il bello di noi. Quel senso di alienazione che racconta la canzone e che si sentiva 35 anni fa oggi forse è ancora più attuale. Con le dovute differenze epocali: oggi probabilmente accanto ai riferimenti agli incontri tra amici, agli amori fatti di panchine, telefonate, del tempo che corre lungo le lancette degli orologi ci sarebbe anche una strofa che parla delle chat, degli sms e di internet.

Hai dichiarato di essere legato al brano anche perché lo sentivi fischiettare da tuo padre: cosa ti rievoca, personalmente, questa canzone?
Ho perso mio padre quando ancora ero molto giovane: ho scelto di registrare questa canzone anche perché era una delle sue preferite. Tutti immaginano di ereditare dal padre dischi dei Beatles o dei Pink Floyd, da lui ho avuto in eredità invece solo due 45 giri: Storie di tutti i giorni di Riccardo Fogli e Stranamore di Vecchioni, altro pezzo che adoro. Lo ricordo fischiettare questi brani quando si faceva la barba o rientrava dal lavoro. E poi ricordo il 45 giri, quello stesso 45 giri posato sul vecchio giradischi di mio padre che si ritrova anche nella prima immagine del mio videoclip.

A parte il singolo ora stai registrando altro materiale per il tuo prossimo disco?
Sto registrando nuove canzoni che quando raggiungeranno il numero e la forma giusta sicuramente finiranno in un album. In questi giorni sto mixando la versione francese del mio primo singolo in spagnolo, Quererse Y Luego, che dopo l’estate uscirà anche in Francia. Sono in fase di mixaggio anche del nuovo singolo per la Spagna, il mio terzo singolo in lingua spagnola per il mercato iberico e sudamericano.

Prossime date dal vivo invece?
In Italia invece è prevista una data in Liguria il 28 agosto e qualche ospitata. In questi mesi sono stato in tour promozionale in Spagna e il 2 settembre terrò un altro concerto a Barcellona approfittandone per fermarmi qualche giorno e fare un po’ di promozione al nuovo singolo che uscirà a metà settembre.

Che effetto ti fa cantare per un pubblico straniero, sia in italiano o in un’altra lingua?
L’esperienza in Spagna è molto stimolante e spero possa estendersi sempre più anche ad altri paesi. Una canzone che nasce da te e viene poi tradotta fedelmente in un’altra lingua che così arriva a persone di culture diverse, ti regala una doppia soddisfazione facendoti capire che strumento potentissimo sia la musica. È sempre straordinario sentire quanto la musica arrivi a gente di ogni lingua che si lascia rapire dalle note vivendo ogni canzone. In quei momenti è un privilegio essere sul palco a vivere queste emozioni. Sono queste in fondo le stesse motivazioni che mi hanno spinto a fare musica a 16 anni e che ancora oggi, all’alba dei 40, mi accompagnano: mi rinnovano di volta in volta la voglia di fare questo meraviglioso lavoro.

Prossimi progetti, più in generale?
Oltre al disco nuovo sto lavorando anche al nuovo libro, che come tematica avrà la musica: dovrebbe uscire l’anno prossimo. Musica o poesia, finché avrò qualcosa da dire la dirò. In questo periodo sento un’energia e una creatività che, grazie alle esperienze che la vita mi ha a volte regalato e a volte imposto, è sicuramente più matura di quando avevo 16 anni ma per il resto è sempre tutto in divenire: sono sempre il primo ad essere curioso di scoprire cosa farò da grande.

Dall’8 luglio in rotazione in radio, sul web e sui canali musicali il nuovo brano e video dell’artista campano Francesco Serra.

Francesco-Serra-Il-mio-sole-sei-te
Francesco Serra.

Francesco Serra, cantautore di Agropoli (SA) scoperto da Luca Venturi e supportato dall’etichetta milanese On the set, ci regala un nuovo pezzo del suo repertorio in occasione della bella stagione.

Cambieranno i giorni, forse cambierà anche il modo di vivere” dice uno dei versi de Il mio sole sei te: una canzone che, mai come in queste giornate estive, vuole portare un raggio di solare ottimismo nella complicata realtà quotidiana, ammiccando a quella semplice voglia di serenità, ad esempio data dall’appagamento dell’amore di una donna.

Versi immediati sostenuti da una fresca struttura musicale, in cui l’intensa strofa apre al vivace ritornello con naturale leggerezza, ribadita anche dalle immagini di un curato videoclip dalle atmosfere cinematografiche girato a Roma: un vero e proprio cortometraggio in cui le due giovani protagoniste – Laura Garofoli già volto della serie “Boris” e Irene Maiorino attrice delle nuove puntate di “Gomorra” e “Baciati dall’amore” su Canale 5 – trascorrono una giornata all’insegna della voglia di divertirsi, danzando nelle stanze di casa o passeggiando per i suggestivi scorci di Trastevere, per perdersi infine nella malinconica atmosfera del tramonto sul mare di Fregene.

Il mio sole sei te non solo arricchisce una produzione musicale che, dal primo singolo Senza di te adesso (2012) fino al primo album Ognuno qua (2015), continua a crescere ma grazie a un altro video ben confezionato va soprattutto ad aumentare le visualizzazioni del pubblico on-line, contribuendo una volta di più a consolidare la fama mediatica di Serra che, non a caso, si è meritato l’appellativo di “campione del web”.

Voi che dite? Musica361 invita anche voi a curiosare sul canale YouTube, sulla pagina ufficiale di Facebook o nel sito www.francescoserra.com per scoprire di più sulla produzione di questo artista… Enjoy!

Musica361 incontra il pianista di Casale Cremasco (CR) che, dopo gli studi di musica classica in Conservatorio e un’esperienza alla Scala di Milano, è ora pronto a realizzare il suo primo ambizioso progetto musicale.

Andrea-Benelli-pianista
Il pianista Andrea Benelli.

Nella cornice di un’accogliente casa milanese Andrea Benelli ci invita all’ascolto di tre suoi brani inediti, in attesa di essere pubblicati nel suo primo disco in uscita all’inizio del prossimo autunno. E al termine dell’esecuzione veniamo a conoscere i prossimi obiettivi di questo promettente pianista.

Dalla tua biografia si legge che hai ufficialmente imparato a suonare all’età di 6 anni: scelta di famiglia o tua naturale inclinazione?
A 4 anni, quando ancora andavo all’asilo, i miei genitori mi avevano regalato una pianola e, appena rincasavo, mi mettevo a suonare in maniera molto naturale le canzoncine che avevo sentito all’asilo o anche a messa, tipo “Quando nell’ombra cade la sera”. I miei parlarono di questa inclinazione al maestro Manenti, allora direttore della cattedrale di Crema, che consigliò loro «ora lasciatelo pure giocare, poi se volete, quando compirà 6 anni mi occuperò io della sua formazione musicale». E così fu: devo tutto a questo maestro che per primo mi iniziò al pianoforte dandomi le basi musicali, la passione per il solfeggio e un indirizzo molto classico, fino ai 14 anni. Da quelle lezioni nacque poi la curiosità di sperimentare con l’organo: tanto che quando entrai in Conservatorio a Milano mi diplomai prima in organo (2000), poi in pianoforte (2002) e infine in clavicembalo (2003).

Tra i tanti strumenti a tastiera qual è quello che senti, per così dire, più “nelle tue corde”?
Ho studiato buona parte degli strumenti a tastiera dal fortepiano, al clavicordo al clavicembalo. Per un periodo mi ha intrigato quella sonorità quasi orchestrale tipica dell’organo ma, ad oggi credo, che lo strumento che meglio mi permetta di esprimermi sia il pianoforte. Col pianoforte ho la possibilità di dare colore ad ogni minima sfumatura di ogni suono: rappresenta per me una sorta di estensione del mio corpo e delle mie emozioni.

Un’infanzia e un’adolescenza dunque votate da sempre solo alla musica?
Nel mio passato c’è anche il calcio. Calcio e musica sono andati di pari passo nella mia vita fino ai 14 anni. Avevo anche raggiunto un buon livello, giocavo nelle giovanili del Brescia poi però, di fronte all’opportunità di entrare in Conservatorio, ho dovuto scegliere: o calciatore o musicista. Non avrei potuto coltivare parallelamente queste passioni: se avessi avuto un infortunio giocando a calcio ad esempio avrei compromesso la carriera di musicista…Così ho scelto la musica. C’è stata solo una breve parentesi di dubbio, nell’estate a cavallo tra il diploma di pianoforte e di clavicembalo a 22 anni, quando mi venne il desiderio di essere animatore in un villaggio vacanze in Sardegna.  Furono i 3 mesi più belli della mia vita. Amavo e amo tutt’ora il contatto con la gente, è stata un’esperienza impagabile dal punto di vista umano: oltre a soddisfare il mio spirito da performer mi ha permesso di appagare anche il bisogno di essere apprezzato a livello umano prima ancora che come professionista.

E dopo questa parentesi come hai capito che la tua strada era veramente la musica?
Avevo capito che in quel momento ero stato attratto da quel tipo di vita come una droga: ne avevo bisogno. Poi però altrettanto rapidamente ho capito che essere animatore non era quello che volevo veramente fare nella vita. Penso sempre che siamo come predestinati: e così la musica mi ha inevitabilmente richiamato a sé.

Scelta saggia dato che la musica ti ha poi regalato ben più meritate soddisfazioni: fino al 2013 hai collaborato con l’Orchestra, la Filarmonica e i Cameristi del Teatro alla Scala in qualità di organista, pianista e clavicembalista sotto la guida dei più grandi direttori del mondo. C’è un esperienza con un maestro in particolare che ti ha segnato o insegnato di più?
Massimiliano Bullo, uno dei più grandi pianisti diretti da Riccardo Muti, appena entrato in Scala mi ha detto: «Devi essere una spugna: prendi il meglio da chiunque. Anche da chi credi non sia sulla tua stessa lunghezza d’onda: magari non hai nulla da condividere per l’80% ma quel 20% sì». E devo dire che questo consiglio mi è stato decisamente utile: tutti mi hanno effettivamente dato qualcosa. Ricordo ad esempio il direttore d’orchestra Georges Prêtre quanto trasmetteva con autentica espressività dirigendo “Barcarole”, lontano dal mero concetto di tenere il tempo. Rimpiango invece di non aver potuto collaborare col maestro Muti: da lui sono sicuro che avrei imparato tanto. Lo vidi in commissione il giorno dell’esame del concorso di organo e poi non ho più avuto l’occasione di incontrarlo.

L’esperienza con La Scala però finisce e per tua scelta: cosa è successo?
La Scala mi ha dato tanto, è stata una tappa fondamentale e un’occasione d’oro: ho approfondito la mia conoscenza della musica sinfonica e mi sono anche avvicinato all’Opera. Tra i ricordi più belli ho in mente l’esecuzione del mio assolo di Petruška di Stravinskij in mezzo all’orchestra di 60 elementi. Uno dei ricordi più emozionanti probabilmente, ho ripensato in seguito, perché ha rispecchiato la mia ambizione di essere protagonista. In poche parole sentivo stretto quel ruolo di tastierista in mezzo all’orchestra: ho sempre avuto la vocazione di gestire piuttosto che essere gestito. Così me ne sono andato.

E infatti dal 2013 hai intrapreso un nuovo percorso musicale come pianista solista, proponendo lunghe esecuzioni composte da brani tratti da diversi generi musicali, con l’intenzione di coinvolgere il pubblico in un vero ascolto a 360°. Come è nato questo nuovo capitolo della tua carriera?
Mi venne l’idea di creare e proporre dei programmi-zibaldone composti da tanti generi diversi: dal liscio alla musica lirica, dalla sinfonica al pop. Ad esempio aprivo con un brano di Morricone che poi sfumava in un notturno di Chopin, poi “Anima Fragile” di Vasco Rossi, “Nessun dorma” di Puccini, un tango, un liscio, una mazurka e un finale col valzer di Strauss. Un’esibizione di un’oretta assemblata a istinto, costruita a partire dai panni di un ascoltatore che non voglia annoiarsi.

Che esito ha avuto?
Ho proposto il progetto a diversi ristoranti con alcune difficoltà: uno degli ostacoli è sempre stato il costo del noleggio di un pianoforte perché, come ho già detto, non riesco a rendere le giuste sfumature su tastiere elettroniche. Senza contare l’attenzione degli ascoltatori a fine cena…L’ultimo atto è stato ad Abu Dhabi, proponendo questi programmi nelle hall dei grandi hotel: spesso suonavo praticamente per me stesso e forse per un arabo che leggeva il giornale in fondo alla sala. Quando poi veniva nel mio programma il momento di brani come il valzer di Strauss, i responsabili si avvicinavano richiamandomi con un compassionevole “old music! old music!”. A me interessava più di tutto che chi passasse nella hall, mi dicesse: «Questo pianista in pochi minuti mi ha regalato qualcosa di meraviglioso». Però non è successo…ma ho perseverato. E un pomeriggio, improvvisando due o tre accordi per scaldarmi prima di mettermi a comporre un altro di questi programmi, è nato il brano “Sogno d’amore”.

Andrea-Benelli-pianista
Andrea Benelli.

La tua prima composizione?
Uno dei primi è stato “Remember me”, che scrissi ispirandomi a una ragazza, una collega cameriera, conosciuta nel periodo di animazione in Sardegna. Dalla metà del 2014 ho iniziato a comporre brani inediti per pianoforte solo. Quando ne misi da parte più di una dozzina andai a registrarli nell’ottobre 2015 presso la Concert Hall Fazioli a Sacile (PN). Poi ho caricato qualche brano in internet e così ho avuto l’occasione di conoscere Rolando d’Angeli e firmare un contratto discografico con la Don’t Worry Records. Gli ho passato i miei brani e ora sono in attesa della pubblicazione, probabilmente si saprà qualcosa a settembre: il mio primo disco.

Quali sono i riferimenti musicali di queste tue composizioni?
Non lo so neanche io: una volta che registro il brano e lo riascolto mi chiedo sempre come sia stato possibile realizzarlo in quel modo. Nelle mie mani scorre il liscio, Morricone, Clayderman, Allevi, Einaudi, la classica, la lirica, l’orchestra…e da tutto questo nasce qualcosa. A volte penso che ci sia qualcosa o qualcuno che compone per me. Forse l’anima del mio maestro Manenti, compositore di musica sacra, che da lassù mi manda l’ispirazione.

In qualità di compositore qual è il tuo processo creativo?
É tipico mio immaginare. Parto sempre da un’immagine che man mano cerco di interpretare e visualizzo delle sonorità: tutto nasce da atmosfere mie. Quando ho composto “Stronger than before”, dedicata a mio padre, ho pensato a lui. Il brano si chiama così perché si riferisce alla sua vita, tragicamente segnata a 18 anni dalla perdita dell’uso di un braccio per un incidente sul lavoro. Ho cercato di immaginare di sentire quella sofferenza che dapprima l’ha buttato a terra e il coraggio che poi l’ha fatto rialzare: e alla fine del brano si sente proprio la musica che si alza, come ho immaginato lui alzarsi e trovare le forze per formare una famiglia come la nostra, nonostante le difficoltà.

Come definiresti il tuo stile?
Semplicemente il prodotto di ciò che sento: sono un tipo romantico e questo si riflette nella mia musica. O almeno è ciò che vorrei trasmettere però sono gli ascoltatori che devono confermarlo! Mi considero una persona semplice che cerca di esprimere con la musica quello che ha dentro di sé. La marca di questo stile è la semplicità. Non mi interessa dover essere originale a tutti i costi: anche perché penso che al giorno d’oggi la semplicità sia la vera originalità.

“L’originalità è essere semplici”: è questo il messaggio che vuoi mandare con la tua musica?
Bisogna ricordarsi che siamo prima di tutto esseri umani: lasciamo più spesso da parte il cellulare e viviamo di più la vita con le sue emozioni anziché stare a raccontarla. Sia la tristezza, la felicità, la gioia, la sofferenza, l’amore. Sì, mi piacerebbe che la mia musica si potesse riassumere in questo messaggio.

Come si vorrebbe vedere Andrea Benelli tra 5 anni?
Indipendente e realizzato artisticamente ed economicamente. E vorrei poter vedere le persone che mi hanno sostenuto nel raggiungimento di questo obiettivo soddisfatte dei miei risultati. Vorrei vedermi su un palcoscenico a suonare la mia musica, esprimendo me stesso al meglio. Gli album o le canzoni su vari supporti sono sempre in qualche modo “finite” e a me al contrario interessa più di tutto il contatto con la gente e le emozioni che possono nascere da questo contatto.

Riferendosi alla tua formazione classica: secondo te è difficile oggi avvicinare i giovani, soprattutto se non musicisti, all’ascolto e al godimento della musica classica?
Non è facile. Perché la musica classica non è facile. Presuppone un tipo di approccio non immediato: sarebbe opportuno avere fin da piccoli qualcuno accanto capace di avvicinarti ed educarti a questo genere. C’è chi può esser predisposto perché ha un gusto o un orecchio innato, però credo che la classica resti sempre una disciplina per pochi, non per tutti. Se considero composizioni pazzesche di certi autori mi chiedo effettivamente come un ragazzo di 15 anni possa apprezzare una musica simile se non musicista o in qualche modo educato a certi ascolti: penso a me che ho affinato un gusto musicale perché ho studiato. E poi, oltre alla predisposizione resta fondamentale anche la curiosità. In ultimo lo ritengo un godimento individuale, mi risulta difficile pensare di avvicinare collettivamente il pubblico giovane alla classica. Chiaramente comunque qualunque escamotage per riuscire in un’impresa del genere avrebbe il mio rispetto.

In attesa del primo disco di Andrea Benelli o la prossima occasione di vederlo dal vivo, Musica361 vi invita a tenere d’occhio la sua pagina facebook per i prossimi appuntamenti.


Top