CJ Hamilton inaugura la colonna sonora dell’estate 2016 con “Take to flight”
CJ Hamilton: Take to flight è la colonna sonora dell’estate dell’artista italo-americano. Musica361 vi racconta di questo giovane protagonista dell’estate 2016.
Allegria, spensieratezza e un ritmo trascinante che per tre minuti ti travolge e ti fa volare via: questi gli ingredienti di un brano squisitamente estivo a firma di un artista ventenne traboccante di energia, vitalità e ottimismo.
Parliamo di Joshua Consigli, classe 1995, padre italiano e madre newyorkese, in arte CJ Hamilton: una sorta di moderno Peter Pan, come lui stesso ama definirsi con le parole della sua canzone, desideroso di portare in volo, sulle ali dell’entusiasmo, il suo nuovo pubblico. Messaggio ribadito anche dalle immagini del video promozionale di “Take to flight”, in cui compaiono giovani danzanti e giubilanti ispirati dal desiderio di tenersi stretti i propri sogni nonostante le difficoltà della vita.
Un videoclip, lanciato a fine maggio su youtube, che ha certamente contribuito alla diffusione del singolo, superando, solo nei primi 10 giorni, le 25.000 visualizzazioni. Merito probabilmente anche delle coreografie e di uno storyboard progettato dallo stesso CJ Hamilton, il quale ha messo in rilievo una professionalità che, prima ancora della musica, ha rappresentato l’originaria tappa della sua formazione artistica: la danza, studiata dai 4 anni al Bendy Dance Center di Milano con Ben. E. Johnson e Wendy Lynton e poi al The Broadway Dance Centre di New York, portandolo a specializzarsi in tip-tap e pop dance.
E proprio dopo essersi formato come ballerino pare abbia scoperto la passione per la musica a seguito di un incontro fortuito con Derek Wilkie della C2W Music, durante un periodo lavorativo a Barbados con i suoi insegnanti di danza.
Tanta inclinazione non è dunque passata inosservata, anzi è stata incoraggiata: e così dal 2012, cominciando a frequentare l’ambiente musicale degli studi di registrazione, Joshua ha trovato l’ispirazione e la tecnica per la composizione delle sue prime canzoni, tra le quali anche questa “Take to Flight “, prodotta da Paolo Agosta e Mark Cyrus (CRS Music Barbados), accompagnata dal featuring del cantante sanvincentino Papa Winnie, volto noto in Italia tra la fine degli anni ‘80 e i primi ’90.
È insomma dal 2013 che CJ Hamilton si è messo in pista e ha iniziato a scaldare i motori per prendere il volo, esibendosi ed inserendosi in diverse manifestazioni italiane – ospite anche a Napoli alla “Partita del Cuore” tra alcuni DJ italiani e la Nazionale Italiana Cantanti – senza però tralasciare parallelamente una fondamentale preparazione musicale, approfondendo lo studio di pianoforte e mixaggio presso il Massive Arts di Milano.
Oggi, mentre “Take to flight” è già decollato da più di un mese e promette di rimanere in quota per tutta l’estate, CJ Hamilton è al lavoro su nuovi brani. Nell’attesa di ascoltare i prossimi frutti di questo giovane artista per il momento aggiungiamo alla playlist il suo singolo e…“Let’s Fly!”
Primo EP per Joan Thiele
È uscito il primo progetto discografico della cantautrice italiana Joan Thiele, celebrato con un concerto per la festa d’inaugurazione del Market Sound 2016. L’intervista per Musica 361.
Dopo la sua cover di Drake Hotline bling entrata nella viral chart di Spotify e i singoli Save Me e Taxi Driver è stato finalmente pubblicato per la Universal Music lo scorso 10 giugno l’omonimo EP della giovane cantante e chitarrista di Desenzano sul Garda, contenente 6 brani inediti da lei composti e la cover Lost Ones di Lauryn Hill.
In attesa dell’album d’esordio prodotto da Andre Lindal, Anthony Preston, Farhot, Fabrizio Ferraguzzo e gli Etna, registrato tra Milano, Amburgo, New York e Los Angeles e ad oggi ancora in fase di definizione, parliamo con Joan nel suo furgone “Red Bull Tour Bus” dal gusto sixties, poco prima dell’esibizione sul palco del Market Sound.
All’apparenza una ragazza giovane e modesta, in realtà un’artista emergente già con una nomination agli Italian Mtv Awards 2016 nella categoria Best New Artist. Quindi tenetela d’occhio…
All’anagrafe il tuo nome completo è Alessandra Joan Thiele: perché hai scelto come nome d’arte solo Joan Thiele?
Sono fanatica degli anni ’60 e mi piaceva l’idea di avere un nome che potesse ricordare quello di molti altri musicisti di una generazione di cui sono superfan. Tutti con la “J”: Jimmi Page, Joan Baez, Janis Joplin…
La folgorazione per la musica è arrivata appunto con Beatles e Led Zeppelin. C’è una canzone in particolare che ti ha folgorato?
Fino ai 10 anni mia madre mi faceva sentire in continuazione Michelle dei Beatles. Invece la prima canzone che ho consciamente adorato è stata The Rain song dei Led Zeppelin: con quel brano ho capito di essere totalmente innamorata di una certa sonorità. E da lì ho scoperto molti altri artisti come Joni Mitchell o Crosby Still Nash&Young, che hanno poi rappresentato un riferimento importante. Però non ho limitato i miei ascolti solo a band o artisti folk-rock anglo-americani anni ’60, nel tempo mi sono fatta influenzare anche dalla musica contemporanea: pop, elettronica, dub, reggae e altri generi che hanno contribuito a creare il mio stile.
Come definiresti il tuo stile?
Sento sicuramente una base pop ma contaminata: potrei definirlo “pop contaminato”.
Madre italiana e padre svizzero ma di origini sudamericane: infanzia a Cartagena in Colombia poi l’adolescenza a Londra. Abiti a Desenzano e dici che ti senti italiana però canti in inglese: perché?
Penso che la musica sia universale, a prescindere che si canti in italiano, cinese o russo. Ciò che arriva dalla musica è più importante della lingua in cui si canta. L’inglese è semplicemente il mezzo di comunicazione che ho scelto: ho ascoltato molta musica anglofona e mi è venuto naturale comporre in questa lingua.
Scriverai e canterai mai in italiano?
Non lo escludo, non è un taboo! (Ride) Mi sento a mio agio a cantare in inglese ma non è una scelta esclusiva. In questa fase della mia carriera va così. Per lo meno da quando ho cominciato a scrivere al liceo.
Finito il liceo avevi già deciso che avresti fatto la cantante?
…al punto che credo avrei mollato persino il liceo per farlo! Quando ne parlai ai miei mi fecero capire che se quello era il mio desiderio avrei potuto realizzarlo, a patto di impegnarmici seriamente. E oggi li ringrazio per avermelo permesso: con quella approvazione è cominciata la gavetta in giro per tutta Italia insieme alla mia band. E oggi sono qui.
L’anno scorso hai aperto il concerto di Bombino, che a sua volta ha aperto L’Estathè Market Sound 2015. E oggi sei tu ad aprire il Market Sound: che effetto ti fa?
Bello e piuttosto emozionante. Un anno fa non me lo sarei nemmeno immaginato: ero semplicemente sul palco a suonare e divertirmi. Oggi invece la pubblicazione del mio primo EP e il concerto al Market Sound in questa data segnano veramente una crescita.
Qualche tempo fa hai dichiarato in un’intervista che non saresti stata per sempre “eterea”, con il tuo stile chitarra e voce. Oggi al tuo primo EP come ti senti?
La dimensione acustica rimane ancora oggi importante sia dal vivo che quando compongo ma col tempo ho sempre più dato libero sfogo alla curiosità e alla voglia di sperimentare. Nei miei primi pezzi suonavo prevalentemente chitarra e voce, oggi sono arrivata ad incidere Save me e Taxi driver con tutt’altra sonorità: ho capito quanto faccia veramente la differenza e sia prezioso essere accompagnati in un lavoro di produzione. Molti producers hanno contribuito a migliorare i miei brani, come DJ faraone che ha dato spessore a You & I con un arrangiamento di piano e archi a cui non avrei pensato. Ho lavorato molto però anche con Chris Tabron e il suo tocco si sentirà nell’album.
Uno dei brani di punta dell’EP è il tuo singolo Save me cioè “salvami”. A chi chiedi di essere salvata?
A me stessa. Il messaggio però è rivolto a tutti: la canzone si riferisce ad una richiesta di aiuto che ognuno pone a se stesso. Spesso gli unici che possono veramente salvarci da alcune situazioni siamo solo noi.
Save me come altri brani dell’EP sono per caso legati ad un tema conduttore nel disco?
Raccontano tutti diversi stati d’animo e diversi momenti: c’è un po’ di passato, un po’ di ciò che è adesso, un po’ di me, un po’ di altri… Non ho pensato di dare un vero senso al disco, sono più fotografie di attimi. Le canzoni nascono in maniera così naturale che spesso solo in seguito si riesce a dare una definizione e una coordinata a quella creazione: non sai dire perché in quel momento scrivi e canti in quel modo ma è così che succede.
Nell’EP anche una cover di Lauryn Hill, Lost Ones: perché hai incluso proprio questo brano?
Anzitutto perché amo molto Lauryn Hill. E poi perché era una canzone che suonavo spesso dal vivo con la mia band, gli Etna. Dopo decine di esecuzioni abbiamo ottenuto questo arrangiamento: ci è piaciuto al punto da sentire la canzone nostra e quindi abbiamo deciso di registrarla e includerla.
Hai definito il tuo album “un arcobaleno”. La tua musica che colore ha?
È la mia musica un arcobaleno: è l’insieme di diversi colori, sfumature ed emozioni contaminate. Contaminate di colori diversi come un arcobaleno. E come tutti noi che non siamo fatti di un solo colore.
L’ultimo brano che stai scrivendo a cosa si ispira?
(Pensa) Coraggio e silenzio.
La data di oggi segna una tappa importante per te: cosa hai imparato da questo mestiere fino ad oggi?
Che si possono avere risultati solo con impegno e vera perseveranza.
E continuando con perseveranza come si vede Joan Thiele tra 10 anni?
Domanda complessa. Vivo la vita momento per momento, come nelle mie canzoni. Richiedimelo tra 10 anni…(sorride).
Se vi siete persi l’esibizione del 10 giugno al Market Sound e volete ascoltare Joan Thiele dal vivo ecco le date del tour estivo confermate:
21 giugno – Rockinroma (Roma)
9 luglio – I Days (Monza)
14 luglio – Mantova
16 luglio – Goa Boa (Genova)
17 luglio – Padova
21 luglio – Fiesole
23 luglio – Siren Fest (Vasto)
31 luglio – Locus Festival (Locorotondo, Bari)
16 agosto – Val Badia Jazz (La Villa)
3 settembre – Home Fest (Treviso)
30 settembre – Barcolana (Trieste).
Lalla Francia: «Ci vuole armonia per fare musica»
Musica361 intervista Lalla Francia, una signora della musica italiana che non ha bisogno di presentazioni. E che oggi corona la sua straordinaria carriera alla direzione della Accademia09 di Milano.
Equipe 84, Fiorella Mannoia, Al Bano e Romina Power, Jovanotti, Eros Ramazzotti, Fiordaliso, Pupo, Francesco De Gregori, Francesco Salvi, Giorgio Faletti, Biagio Antonacci, Toto Cutugno, Articolo 31, Fabio Concato, J-Ax, Umberto Tozzi, Ricchi e Poveri, Matia Bazar, Enzo Jannacci, Gianni Togni, Massimo Bubola. Sono solo alcuni dei nomi degli artisti con i quali ha collaborato Lalla Francia, eccellente cantante e leggendaria corista presente nei dischi dei più importanti interpreti e cantautori della storia della musica leggera italiana, nonché vocal coach di grande esperienza. Dal 2009 è docente e direttrice dell’Accademia09 di Milano.
Prima tappa al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano studiando violino e pianoforte. Volontà sua o di famiglia?
Vengo da una famiglia in cui tutti sono sempre stati ben più che semplici appassionati di musica: a cominciare da mia nonna, corista all’Opera di Firenze. Mio padre, cameriere ad Anghiari, cantava benissimo, spesso lo chiamavano per fare le serenate. Anche mia madre aveva una bella voce: i ricordi più belli da piccola sono di lei che faceva i mestieri cantando alla finestra con tutto il quartiere che si radunava ad ascoltarla. Mia sorella Eloisa è pure lei musicista, ha studiato pianoforte e lirica e insegna. Quando mia sorella ed io abbiamo deciso di studiare seriamente musica i miei si dimostrarono subito favorevoli senza pensare che quella sarebbe diventata una professione. Io avrei persino voluto frequentare il liceo ma fu per prima la mia insegnante di violino che si oppose, perché pensava che mi avrebbe distratto: diceva che ero nata per fare la musicista.
Seconda tappa: a 15 anni con la sorella Eloisa fonda il gruppo Le Particelle, che pubblica un solo album. Cosa ricorda di quella prima esperienza discografica?
Ah sì…(sorride). Il disco si chiamava Azimuth 1. Si trattava di un gruppo nato semplicemente dall’amicizia comune tra colleghi: tutti noi lavoravamo con Paola Orlandi, sorella di Nora, che aveva fondato un coro qui a Milano. C’era il batterista Andy Surdi, Donato Renzetti, oggi uno dei più grandi direttori d’orchestra/opera, gli autori e compositori Maurizio Fabrizio e Salvatore Popi Fabrizio e Sergio Menegale. Il produttore discografico della CGD ci aveva sentito cantare nei dischi degli altri e ritenendoci un gruppo vocale meraviglioso ci propose questa operazione. Così realizzammo questo disco nel quale avevamo riproposto in italiano cover di pezzi famosissimi, ad esempio di Simon&Garfunkel. Anche la copertina era particolare, ognuno di noi era travestito eccentricamente: io ad esempio avevo un tutù da ballerina. La foto fu realizzata da Cesare Montalbetti, in arte Cesare Monti, nonché fratello di Petruccio dei Dik-Dik, per decenni il fotografo per eccellenza di tutte le copertine dei dischi di musica leggera italiana. Si trattò comunque di un gruppo senza alcuna velleità: erano tempi in cui c’era la possibilità di sperimentare e ci fu permesso di assecondare questa voglia.
Siamo sempre al 1971: viene chiamata dalla famosissima Nora Orlandi per partecipare al Festival di Sanremo nel gruppo dei 4+4. Come ricorda della prima volta a Sanremo soprattutto data la giovane età?
Se ripenso alla mia prima volta a Sanremo oggi mi viene da ridere: il patron del Festival, Gianni Ravera, era preoccupatissimo perché ero minorenne. Tanto che i miei genitori andarono a firmare in Questura a Milano per avere il permesso per esibirmi. Ricordo che mi alzavo il mattino presto e cominciavo a truccarmi: mi mettevo ciglia finte, il rossetto e disegnavo la riga nera intorno agli occhi per sembrare più adulta. Quell’edizione era al salone delle feste del Casinò, con l’orchestra in buca e il coro sul palco insieme agli artisti. Ho ricordi bellissimi: ho cantato per la prima volta dal vivo con Lucio Dalla, Little Tony, Patty Pravo, Josè Feliciano, Domenico Modugno, Adriano Celentano e Nicola di Bari e Nada che hanno vinto con Il cuore è uno zingaro. Era un evento veramente importante per la musica. Quando ancora era veramente il festival della musica e non un evento televisivo come oggi. Non c’era ancora spazio per i comici o altro, l’attenzione era tutta per gli interpreti, i musicisti, gli autori e gli arrangiatori: il festival della musica appunto.
Da quella prima edizione di Sanremo poi ne sono seguite tante altre. Una che ricorda in particolare?
Nel 1984 ero a Sanremo con Albano e Romina, e gli ospiti erano i Queen. Arrivarono ciascuno con un aereo diverso per evitare che il gruppo potesse estinguersi completamente in caso di incidente. Quando entrarono in teatro io mi trovavo dietro le quinte perché subito dopo toccava a noi. E quando Freddie Mercury e gli altri passarono, i bodyguard schiacciarono contro le pareti qualsiasi cosa potessero schiacciare per agevolare il loro passaggio. Freddie, coi suoi pantaloni bianchi e a petto nudo, era bello come Gesù: appena saliti sul palco ci fu un boato in sala. E in più ricordo che Brian May, il chitarrista dei Queen, “mi batteva i pezzi”…
C’era simpatia?
Mi faceva il filo. Dopo l’esibizione mi fermai a parlare col pianista Michael Logan, il padre dell’attrice Veronica Logan. Stavamo parlando in camerino e spunta ad un certo punto questo tizio allampanato, magro magro e con questo capoccione di capelli: Brian May. Aveva capito che Mike era inglese e si inserì nella nostra conversazione. Mike allora mi dice: Brian vorrebbe conoscerti. E io “Nice to meet you”… Lo rincontrai altre volte durante il Festival, mi lasciò persino il bigliettino da visita, perché all’epoca non esistevano ancora i cellulari. Ma non lo chiamai mai. Sarei potuta diventare la signora May, chissà! Però a me non piaceva e non successe nulla…
Dai primi anni ’70 ha inizio la sua sterminata carriera di corista in sala d’incisione: c’è qualche artista con il quale ha mantenuto anche un rapporto d’amicizia oltreché professionale?
Ho ottimi rapporti con Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia e Fausto Leali: con loro è rimasta proprio un’amicizia. Ho comunque un bel ricordo di quasi tutti quelli con cui ho lavorato e penso che sia stato reciproco. Probabilmente perché per me ha sempre contato prima di tutto essere professionalmente ineccepibile. Quando lavoro mi dedico completamente ad un artista e diventa inevitabile entrare in sintonia. Non è necessario poi che nasca per forza un rapporto, però mentre stai lavorando ci vuole empatia. E soprattutto ci vuole armonia per fare musica.
Dotata soprattutto nell’armonizzazione è riuscita a ritagliarsi uno spazio anche come corista solista al di fuori del quartetto. Mai pensato di diventare una cantante in proprio?
L’unica soddisfazione come solista è stata cantare standard jazz quando misi insieme un quartetto vocale a Milano che si chiamava “Looking up & Fly down”. Eravamo 6 musicisti strumentisti e 4 cantanti, facevamo il repertorio dei Manhattan Transfer. E poi ognuno di noi faceva un pezzo da solista. In formazione avevamo Riccardo Fioravanti, Danilo Riccardi, Michael Rosen, Luca Colombo, Lele Melotti alla batteria, Sandro De Bellis alle percussioni. Con quel gruppo ho potuto cantare Round Midnight o The man I love, è stato bello. Però a parte quell’esperienza a me non è mai interessato più di tanto avere un ruolo da popstar o rockstar. Mi sarebbe piaciuto fare jazz però sono consapevole che prima di tutto il mio lavoro è sempre stato quello di “sporcarsi le mani con la musica”: ho sempre dovuto prima di tutto pensare a sostentarmi facendo questo mestiere oltreché divertirmi.
Importanti le collaborazioni anche con grandi artisti internazionali soprattutto al Pavarotti&Friends: ricordi di Pavarotti o di quelle edizioni?
Il maestro era un uomo dolcissimo, un grande signore e artista. L’ho conosciuto nelle ultime tre edizioni del Pavarotti&Friends. Insieme a Sting, Eric Clapton, James Brown, i Queen e soprattutto Bono che ha cantato un Ave Maria con un testo scritto da lui contro la guerra: ho pianto in diretta tutte le mie lacrime. Anzi piangevano anche i sassi: ci fu un livello di commozione sul palco che non mi dimenticherò mai. Poi ricordo George Benson che mi ha baciato la mano… e per tre giorni non me la sono lavata! E l’ultimo anno le chiacchiere e le vodke con Ian Gillian dei Deep Purple nella hall dell’Hotel Fini di Modena. È il bello di questo mestiere: non è che si può sempre lavorare!
C’è ancora qualcuno con cui sogni di collaborare a livello nazionale o internazionale?
Mi sarebbe piaciuto con Stevie Wonder. Mi piace molto la sua anima: sono anche andata a veder un suo concerto, è capace di trasmetterti emozioni pazzesche. Mi è mancato poi di ascoltare dal vivo, non parliamo di collaborare, Ella Fitzgerald per me la più grande in assoluto: lei è “la voce” al femminile, esattamente come poteva essere Frank Sinatra al maschile. Ha una musicalità infinita, un genio: vocalmente, musicalmente, armonicamente, nel gusto, nell’intonazione, nella presenza, nell’uso del microfono, nell’intelligenza nell’interagire con i musicisti. Tutte caratteristiche che ne fanno un genio.
Una canzone a cui sei particolarmente legata nella tua vita, in generale?
Ho da sempre nel cuore Woman di John Lennon. Credo che sia una bellissima canzone molto poetica ma non sdolcinata, una dedica d’amore autentica che anche a me avrebbe fatto piacere ricevere nella vita. Se un mio amante musicista mi avesse scritto una canzone così sarei stata beata.
In un’intervista hai dichiarato che oramai non riusciresti a vivere ancora la vita del periodo delle tourneè. Non rimpiangi nulla di quella vita?
Mi mancano le risate che si facevano, quell’atmosfera come essere in famiglia. Mi manca lo spogliatoio insieme ai colleghi, l’andare a mangiare tutti insieme. E poi tutto quello che ti arriva dal pubblico quando sali sul palco, un pugno nello stomaco. L’ho rivissuto quando sono stata all’Arena di Verona con De Gregori nel 2015: abbiamo avuto un calore e un’ovazione che avrei preso il microfono e mi sarei buttata in mezzo alla folla. Quello mi manca molto. Forse l’unica cosa che mi manca. Però ho detto basta.
Ultima tappa (televisiva), dal 1997 al 2006, con Demo Morselli e la Demo Band a Buona Domenica, Maurizio Costanzo Show e a Tutte le Mattine. Poi cosa è successo?
Dopo quel periodo ho avuto un momento di rifiuto totale di tutto il circo mediatico. Poi nel 2006 ho partecipato ad un evento molto bello con i Nomadi per i 50 anni della loro carriera con la Omnia Symphony Orchestra diretta da Bruno Santori, con la quale abbiamo registrato anche un CD e DVD live. E devo dire che con quell’esperienza mi sono sentita di nuovo “nella musica”. Però ho cominciato a sentire che c’era qualcosa da cui dovevo disintossicarmi. Per cui quando mi chiamarono per fare uno stage in una nuova scuola di musica la ST di Cologno Monzese accettai, proprio per fare qualcosa di diverso: ed è stato invece l’inizio di una nuova fase della mia carriera oggi dedicata all’insegnamento.
Dal 2009 è direttrice e vocal coach all’Accademia 09: come si è trovata dal palco all’insegnamento?
Ho scoperto una tenerezza che non credevo di avere: a volte ti trovi davanti allievi indifesi o consapevoli di avere “qualcosa di sbagliato” e tutto questo stimola in me la voglia di trasmettere esperienza e toccare i tasti giusti, aiutandoli a superare le proprie fragilità e sostenendoli molto anche a livello umano, oltreché professionale. Ho scoperto di avere una pazienza quasi infinita!
Quello che mi piace soprattutto dell’insegnamento in questa scuola è il lavoro che si fa con passione in ogni disciplina. E chiaramente con professionalità: ho portato con me ad esempio Stefano Pulga, Mario Natale, Emilio Foglio e Alberto Centoifanti, professionisti motivati ad insegnare, che non abbandonano la scuola perché vanno in tournée. Io per prima da quando insegno ho rinunciato a Sanremo e all’ultima tournée di Dalla e De Gregori, perché avevo saggi ed esami finali. L’insegnamento è una professione, non un tappabuchi.
Restando al suo ruolo di insegnante: cosa è cambiato nel mondo del vocal coach da quando ha iniziato a oggi?
Quello che purtroppo noto ultimamente è che è diventato un mestiere che molti non meritano di esercitare. Mi riferisco a quei musicisti che si improvvisano rendendosi conto che è forse più facile insegnare canto che non chitarra, oppure pianoforte. Un musicista può dare dei rudimenti ma, nello specifico, è come se io mi mettessi ad insegnare pianoforte: lo so strimpellare per il mio lavoro ma non ho la tecnica per insegnare. Senza contare quelli che si riempiono la bocca perché vanno a vedere su internet le lezioni di canto… Più di tante tecniche come voicecraft o belting comunque l’unica valida per imparare a cantare è la base della lirica. E poi esercitarsi continuamente per l’intonazione, le scale, gli arpeggi e la respirazione, fondamentale.
Un consiglio ad un giovane che vuole avvicinarsi professionalmente a questo settore?
La cosa migliore oltre a formarsi bene è essere curiosi, capire bene cosa c’è dietro ogni aspetto della professione, individuare cosa piace e perché “veramente” piace.
Oggi si può ancora vivere di sola musica?
Per me sì. Non bisogna mitizzare il passato: i decenni passati hanno avuto pregi e difetti, questi tempi offrono altre occasioni che non avevamo noi, e non parlo dei talent. Oggi ad esempio c’è il web: se hai qualcosa da dire ne hai la possibilità. Una volta dovevi sperare che qualcuno ti desse credito e poi metterti in mano a professionisti: alcuni facevano bene e altri male. Per certi versi è quasi meglio adesso… Resta il fatto che se vuoi qualcosa devi andartela a prendere, senza aspettare che ti arrivi. Intanto esercitarsi 24 ore su 24 come un atleta. E poi concentrarsi su tutto quello che vuol dire “fare musica”: provare, scrivere pezzi, crearsi un canale sul web…
Prossimi progetti professionali oltre all’insegnamento?
Sto lavorando come coach e corista per un’artista nuova. E sono sempre aperta a collaborazioni con altri. Adesso però l’insegnamento è soprattutto la mia professione e vorrei coinvolgere il più possibile i miei ragazzi in tutto ciò che mi viene proposto. Per la mia gloria ho già dato. E avuto.
Un ringraziamento particolare a Tommaso per la realizzazione di questa intervista.
Punk for Business: «Questo sarà il primo vero Market Sound»
Dal 4 giugno al 7 agosto ai Mercati Generali di Milano avrà luogo la seconda edizione del Market Sound 2016, evento organizzato dall’agenzia Punk for business.
Parliamo con Tomaso Cavanna, presidente e amministratore delegato, insieme ai suoi due executive producers Massimo Babini e Simona Muti.
Ricordate a Milano nel 2013 il concerto dei Kasabianin piazza del Duomo per Bacardi o il Vertical Stage per Samsung con gli artisti che suonavano dai balconi di un palazzo in corso Europa? Sono solo alcuni esempi dei singolari eventi musicali organizzati dalla Punk for Business, agenzia che esprime già nel nome la voglia di rompere gli schemi.
Si tratta degli stessi “punk” milanesi che hanno sovvertito le regole anche l’anno scorso durante i mesi di Expo con l’Estathè Market Sound allestendo un festival di seimesi in una locationinedita ricavata da un’area riqualificata all’interno dei Mercati Generali di via Lombroso coniugando musica, streetfoodeintrattenimento. Risultato? 400.000 presenze, più di 200 artisti, 30 appuntamenti a ingresso gratuito e tanti tornei sportivi.
A testimonianza di quanto a Tomaso e compagni piaccia indubbiamente osare, eccoci a pochi giorni dalla sfida della seconda edizione.
Alla vigilia della seconda edizione del Market Sound si sente tanta adrenalina. Probabilmente anche per la recente esperienza del “Wired Next Fest” ai Giardini Montanelli di Milano, altro importante evento realizzato con il contributo della tua agenzia. Ennesima prova dell’affermazione della Punk for Business come una delle nuove realtà di riferimento per eventi musicali in Italia?
Spero di sì. Vincere anche l’appalto per Wired ha certamente rappresentato un altro riconoscimento e motivo di orgoglio per la mia agenzia. È stato bellissimo soprattutto realizzare un concerto unico nella storia dei Subsonica per celebrare i loro 20 anni di carriera alla presenza di tutti gli artisti che hanno collaborato con loro, dai Bluvertigo a Cristina Donà. Samuel e compagni avevano già annunciato l’anno scorso che avrebbero realizzato qualcosa del genere ma francamente non speravo di riuscire ad occuparmene io…(sorride soddisfatto) Stiamo ambiziosamente cercando di affermarci sempre più, non solo in Italia ma anche a livello internazionale: il mio sogno sarebbe un giorno di non avere competitor nel settore brand entertainment events. E adesso la prossima tappa sarà la seconda edizione del Market Sound!
Il Market Sound è una vostra creatura concepita nell’anno di Expo in una location inedita e precedentemente semi-abbandonata: intanto come è nato questo progetto e proprio in questa location?
Per una congiunzione astrale. La Punk for Business ha partecipato e vinto ad un bando di Sogemi e del Comune di Milano per la gestione di un’area all’interno dei Mercati Generali di via Lombroso: noi ce ne siamo interessati perché reputavamo quello spazio molto vendibile proprio nell’anno di Expo e in tema di food. Sempre in quel periodo il nostro addetto preposto della ricerca di bandi ci segnalò anche una gara di Ferrero: il brief era di presentare un evento stile Festivalbar con tantissimi artisti concentrati in un’unica giornata al Sud Italia. La mia socia presentò inizialmente una prima proposta esattamente in linea col brief per tre città del sud. Poi a me venne l’idea di presentare in gara una seconda ipotesi proponendo, per lo stesso budget, non un giorno ma sei mesi, non al Sud ma Milano, non un concerto ma almeno 80, vale a dire uno su due in 160 giorni di apertura location. Abbiamo vinto anche questa gara e sfruttando le opportunità offerte da queste due vittorie, quella del brand Ferrero e quella del bando comunale, è nato il Market Sound. Una scommessa…
Vinta! Il bilancio della prima edizione del Market Sound è stato molto positiva con più di 400.000 persone in 6 mesi: il segreto del successo?
La cura di ogni particolare. In questo mestiere non ci si può permettere di essere approssimativi: l’evento è specchio di un brand che ti sta affidando la sua immagine a livello pubblico. E lavorare con multinazionali enormi come Samsung, Becks o Ferrero è sempre un’impresa molto importante e delicata. L’operazione per il gruppo Ferrero è stata certo vincente però, ricordo sempre, possibile grazie anche al sostegno dello stesso brand. Cosa che vale per tutti i nostri eventi.
C’è un momento legato alla prima edizione di Market Sound di cui sei più orgoglioso?
Il fatto che in conclusione del festival i Subsonica abbiano spontaneamente deciso di chiudere il loro tour fissando la loro ultima tappa con una festa al Market: è stato un bel segno di riconoscimento da parte di una delle nostre top band italiane.
E di questa edizione invece cosa è più motivo di vanto?
Mi ha riempito d’orgoglio, a seguito della prima edizione, veder molti artisti scegliere il Market tra le tante altre location milanesi. Ad esempio si è presentato da me in ufficio Manuel Agnelli degli Afterhours in persona, insieme al suo violoncellista Rodrigo D’Erasmo, a spiegarmi che l’anno scorso aveva visitato il Market e che gli era piaciuto al punto da volersi esibire qui. Ancora più incredibile poi è aver riscontrato questa attenzione non solo da parte di artisti italiani ma anche internazionali come i Tame Impala, band vincitrice dei Brit Awards, o Neil Young che abbiamo tentato di avere fino all’ultimo nel 2015 e che quest’anno ci ha ricontattato per confermare la sua presenza. Considera che il Market Sound è solo alla seconda edizione, voglio dire non è il Coachella Festival!
Questa seconda edizione sarà indubbiamente più ricca riguardo al contenuto artistico: cosa è cambiato rispetto alla prima?
Più esperienza e tempismo. Nel 2015 purtroppo a causa di ritardi burocratici abbiamo cominciato a contattare gli artisti solo da febbraio, per questo siamo partiti un po’ “zoppi”: per avere big internazionali in cartellone come Neil Young o i Chemical Brothers full band bisogna muoversi con minimo un anno di anticipo. E quest’anno partendo col booking tra novembre e dicembre appena terminato il Market 2015, siamo riusciti ad avere oltre a Vinicio Capossela, Clementino e Fabio Treves anche Bad Religion e Offspring. Sul nostro sito c’è comunque solo una parte degli artisti già confermati: ci saranno ancora tante sorprese. In un certo senso comunque questa sarà la prima vera edizione del Market Sound.
Oltre a Offspring e Bad Religion parteciperanno molti altri gruppi della scena punk tra cui Good Riddance, Lagwagon e Pennywise: un mini festival punk che in qualche modo segna un legame con una agenzia che si chiama non a caso Punk for Business?
Non è farina del mio sacco, potrebbe più probabilmente trattarsi di un’idea dei promoter italiani: forse hanno visto bene dal punto di vista del marketing che un’agenzia che si chiama Punk For Business portasse ad un festival gruppi punk, perché no. Chiederò ai punkrockers che verranno cosa ne pensano!
Punk festival a parte il Market Sound mira a diventare un appuntamento fisso a Milano?
Assolutamente, l’ambizione è quella: se arrivo a 90 anni spero di vedere ancora il Market Sound! La Punk for Business ha fatto un investimento su otto anni però credo che si potrà cominciare a stilare un primo vero bilancio non prima dei prossimi quattro. Non bisogna essere ingordi: è importante rendersi conto in che luogo stiamo lavorando e soprattutto che mi sto occupando di un lavoro che non è esattamente il mio. Anche se aver lavorato 12 anni in Sony e Universal mi ha aiutato a dare ossigeno alla creatività, sono ben conscio di non avere ancora tanta esperienza in questo settore e che debba ancora imparare con molta umiltà. Il brand della mia agenzia è orientato su eventi per aziende: rispetto al nostro core business il Market Sound è un format. Non voglio però che diventi un evento standardizzato ma che possa dare sempre il massimo: dovrà essere sempre più accattivante e migliorare sempre più, con l’obbiettivo e la promessa di avere una novità diversa ogni anno. E spero di poterci riuscire sempre meglio anche grazie all’entrata di nuovi soci che fanno il nostro stesso lavoro e che ci permetteranno di sostenere ancora questo sogno.
Il Market Sound e gli eventi musicali della Punk for Business hanno la caratteristica di essere sempre originali se non quasi inediti: in che modo cerchi nuove idee?
Non sono un promoter musicale, faccio eventi: per quello che riguarda il mio mondo tutto è ispirazione, contaminazione, stimolo. Mi piace andare a vedere di tutto per capire come migliorare i miei eventi: prender ispirazione equivale a rigenerarsi. Succhio come una spugna da concerti, mostre e persino dalla Biennale d’arte. Un padiglione d’arte può essere un’enorme fonte di ispirazione. Come possono esserlo le location di Piano City, un concerto dei Muse o il museo di archeologia di Otranto: magari vedi qualcosa che hanno fatto 2000 anni fa e la declini ai giorni nostri…
Non sarai un promoter musicale ma più che mai come in questi anni ti stai occupando di musica: come vedi la situazione relativa alla cultura musicale nel nostro paese?
Dico solo che basta andare in Francia o in Inghilterra per capire quanto sia tutelata e vissuta la musica e poi rendersi conto di quanto possiamo essere indietro in Italia. Se ne può aver conto già dalle ore in cui viene insegnata alla scuola inferiore: tot ore in Inghilterra, tot ore in Francia…e da noi in Italia una sola col flauto dolce! Una delle idee che avevo avuto per sensibilizzare la questione in questo senso era di creare insieme ad un po’ di agenzie musical oriented in Italia il flash mob più grande al mondo. Tutti a suonare il Bolero con il flauto dolce delle medie e gli striscioni: “per favore, la musica non è solo il flauto!”
Prima parlando degli ospiti di punta di questa edizione hai citato Neil Young, protagonista anche del famoso Coachella Festival insieme ai padri della musica rock inglese e americana: ti piacerebbe realizzare un evento simile con i padri della musica leggera italiana?
Sarebbe un evento bellissimo ma che vedo ancora difficile da realizzare: in Italia non siamo ancora pronti.
E se invece per ipotesi potessi realizzarlo chi contatteresti per primo?
Senza ombra di dubbio Adriano Celentano, personaggio dal quale non si può prescindere per quanto riguarda la storia della musica italiana: è stato un precursore, forse il primo a cambiare veramente il modo di suonare in Italia. E poi da lì comincerei a mettere insieme tanti altri, chissà (pensa)…
L’Estathè Market Sound 2015 è stato definito “Il festival dei record”. Dato che l’obbiettivo è sempre migliorarsi, con questa seconda edizione volete battere “Il festival dei record”?
Bella domanda (sorride)…Più che un altro record da battere ho un sogno: che tutto possa continuare a proseguire in questa maniera. È già da quattro anni, quando abbiamo realizzato il primo evento nel maggio 2012 a Venezia, che mi sembra di vivere un sogno. Abbiamo cominciato in due e oggi siamo più di 20. Da allora la salita: per una agenzia neonata come la nostra i primi due anni sono sempre i più travagliati in assoluto, a cominciare dalla diffidenza delle banche. Adesso invece ci aspettiamo un po’ di discesa: la nostra credibilità aziendale e finanziaria sta crescendo sempre di più, senza contare che grazie al Market Sound diamo da lavorare a 1500 persone. In un certo senso in questo momento è quasi come vivere una rinascita: tutto sta andando così bene che spero continui in questa direzione.
Per tutte le date e info relative a concerti, eventi e intrattenimento: www.marketsound.it.
Eman, e così sia
E poi ti domandano: ma quello che scrivi, è frutto d’immagini o fa parte di te? Come spiegare che quello che provi, s’imprime sui fogli e si spiega da sé (Eman, “Amen”).
Lo scorso 19 febbraio è uscito in tutti i negozi di dischi e in digital store “Amen”, il primo album di Eman, al secolo Emanuele Aceto, originale cantautore catanzarese dallo stile unico.
Frutto della grande occasione offertagli dalla Sony Music nel 2014 con un contratto discografico, “Amen” è composto da 10 brani inediti e 2 bonus track, che mettono in luce, oltre ad una crudezza interpretativa, un talento nella composizione di testi che sanno spaziare da messaggi di carattere sociale e provocatorio a momenti più ironici.
Un disco che inaugura ufficialmente il percorso discografico di un giovane artista di questi tempi che, preferendo evitare la scorciatoia dei talent, ha conquistato ogni tappa della sua carriera grazie ad una sudata gavetta, soprattutto in una terra musicalmente difficile come la Calabria.
Emanuele Aceto, classe 1983: data la tua ancora giovane età, quando hai deciso che saresti diventato un musicista di mestiere?
Probabilmente quando ho notato la reazione (positiva) del pubblico la prima volta che ho avuto l’opportunità di esibirmi: forse in quel momento ho cominciato a pensare che la musica avrebbe potuto far parte della mia vita in maniera importante. La musica di fatto ha sempre avuto una parte importante nella mia vita, però c’è voluto un po’ di tempo prima che potesse diventare un vero lavoro: ho dovuto fare delle scelte. Anzi credo che chiunque voglia fare questo mestiere debba fare delle scelte oculate…
A cominciare dalla scelta del nome immagino. Hai dichiarato sulla tua pagina facebook ufficiale: “Quando dovetti scegliere il nome d’arte la scelta ricadde su Eman semplicemente perché era il diminutivo di Emanuele e per costruzione da destra a sinistra si poteva leggere “name” (nome): pensai che fosse perfetto. Da allora sono passati anni e questo nome, che nel tempo è diventato grosso come un macigno, ha rischiato più volta di spezzarmi la schiena […]. Lungo la strada ho pensato innumerevoli volte di lasciarlo cadere, di cedere alla stanchezza […]. Perché?
Il problema stava probabilmente nell’avere un sogno tanto grande ma essere nato artisticamente in una piccola realtà calabra. Sentivo che “Eman”, che in principio mi sembrava un nome azzeccato per la realtà in cui vivevo, col passare del tempo stava assumendo su di sé troppa responsabilità per una carriera da professionista. Quando si sceglie questo mestiere bisogna fare i conti con tanti aspetti, non solo con la musica: per questo dal momento in cui ho scelto di mettermi in gioco in maniera seria ho pensato più volte di abbandonare Eman ed essere solo Emanuele. Poi ho scoperto che Eman, in lingua ebraica, significa fede: forse un segno che mi ha reso ancora più chiaro quanto invece fosse importante quel nome per me che inseguivo un sogno così grande provenendo dalla periferia. Allora ho capito che in qualche modo Eman ed Emanuele non avrebbero potuto fare a meno l’uno dell’altro perché sono la stessa identica persona. E mai come oggi sento quanto questo sia vero.
Qual è il valore aggiunto di essere un cantautore calabrese? Cosa porti della tua cultura nella tua musica?
Tantissimo. A cominciare da una voglia di riscatto nel tentativo di dimostrare che la mia terra non è legata solo ad alcune immagini o stereotipi, che il vero calabrese è anche quello che lavora duro, che si oppone alla mentalità mafiosa ed è capace di integrarsi e dare il meglio. E poi di ritornare ancora nella sua terra a dare il meglio. Quello che più mi porto dentro della Calabria è la fame: intendo dire di “essere affamato” di una politica sana, di un’etica giusta, di una società civile e non barbara, come a volte purtroppo vedo…E poi naturalmente mi porto dentro il sole.
Una “fame” e un’energia che si rispecchia nella tua musica. Hanno provato a definire la tua musica come un insieme di pop, rap, raggae e dark contaminato all’elettro-rock, generi a loro volta amalgamati con musica d’autore contemporanea e d’ispirazione internazionale. Tu, più sinteticamente, come la definiresti?
(ride)…sì effettivamente detta così sembra più complicata di quello che è! Forse neanch’io riuscirei a dare un nome o una definizione…Il punto è che ho ascoltato un po’ di tutto nella mia vita e ancora oggi i miei ascolti sono onnivori. Non mi sono mai arreso ad un solo genere: il mio stile è nato in maniera molto spontanea da diverse ispirazioni poi fuse in metriche tutte mie, come fanno i rapper. Anche se, nonostante il mio modo di creare metriche sia più o meno simile alla scuola rap, non mi sento un rapper a tutti gli effetti, c’è molta più melodia nei miei pezzi. Quanto al discorso del genere in cui categorizzare la musica, penso comunque che nel 2016 avere dei limiti sia veramente un limite. Grazie al web oggi si può ascoltare più o meno tutto ed essere influenzati da qualsiasi tipo di musica a livello spazio-temporale: mai come in questi tempi la musica è veramente “worldwide”. Credo che se oggi per ipotesi nascesse un gruppo come i Led Zeppelin, pur eccezionale, probabilmente non riuscirebbe ad avere il successo che hanno i Muse. Intendo dire che è importante storicizzare non per fossilizzarsi ma per segnare nuove tappe, andare avanti e fare meglio: fare musica implica evolversi senza escludere certamente il passato ma neanche il futuro.
Ti ritrovi per caso in un filone di una tradizione musicale italiana o anche internazionale? A chi ti senti più vicino o meglio chi sono i tuoi simili, artisticamente parlando?
Domanda seria! Non ci ho mai pensato…Sebbene mi senta sicuramente in parte cantautore, a volte ho quasi vergogna a definirmi in tal modo, perché mi sembra di assumere indebitamente un titolo che per me vale solo per alcuni grandi. Anche se nella musica italiana c’è spazio per nuovi cantautori non più giovanissimi come ad esempio Cesare Cremonini, non riesco ancora a vedere lui o me nel novero di altri veterani. Quindi non ho bene idea di come definirmi: forse neoautore? Per me è ancora poco decifrabile: lascio a te e ai tuoi colleghi questo compito!
Dovessi allora farti conoscere ad un amico: c’è una tua canzone che meglio ti rappresenta?
Potresti fargli ascoltare “Insane”. In quella canzone ci sono un po’ tutte le mie caratteristiche: un bel testo, una musica ad effetto flow e la rabbia di questa generazione…Sì, direi “Insane”.
Nel tuo genere di cantautorato il testo è indubbiamente importante: il tuo processo creativo parte quindi dalla scrittura?
Mi faccio ispirare da una musica o un demo che solitamente mi passa SKG, il mio produttore, o Daniele che è il mio chitarrista. Mi lascio stimolare da una sonorità, magari fatta anche solo da due accordi, e a partire da quella musica immagino una melodia. Poi, da ascoltatore, immagino che cosa potrei sentir cantare su quella musica: è la musica stessa a dirmi sempre di cosa dovrebbe parlare quella musica. Per definire il testo invece mi rifaccio a concetti magari già scritti sotto forma di appunti che metto poi in metrica.
Dopo la fatica della gavetta finalmente il primo disco ufficiale per la Sony Music, “Amen”, che è anche il brano di punta: perché questo titolo?
Amen significa “così sia”: in questo caso però non è da intendersi in senso religioso o teosofico ma rispecchia la volontà di dire “eccomi, sono Eman, questo sono io”. In più c’è il gioco con il mio nome perché Amen è anche l’anagramma di Eman…
I due singoli che nei mesi scorsi hanno anticipato la tua nuova pubblicazione sono stati la solare e reggaeggiante “Giorno e notte” e la più intensa e profonda “Amen”, entrambe firmate da te insieme a Mattia Masciari. C’ è un filo conduttore nel disco?
Il compito di questo mestiere credo sia saper arrivare a tutti: io parlo non solo di ciò che vivo dentro di me ma anche di ciò che la gente vive tutti i giorni intorno a me, nella quotidianità. E “Amen” è proprio questo: un viaggio assolutamente introspettivo ma universalmente umano tra amore, rabbia e politica. Tematiche da me lette forse non sempre nel modo più corretto quanto piuttosto intimo e meno scontato. D’altra parte affrontare un tematica non significa di per sé essere solo oggettivamente “sul pezzo” ma anche portare all’attenzione del pubblico particolari che non sono sempre così evidenti o intuibili…O per lo meno questo è ciò a cui punto.
Ora sei in tour per la promozione di “Amen”: dove possiamo venire a vederti?
Ora che arriva l’estate si torna un po’ al Sud. É in quelle tappe che vi consiglio di più di venire ad ascoltarmi, soprattutto in Calabria: così di giorno vi godete la mia terra e la sera il mio live!
Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo live, oltre ai brani di “Amen”?
Proporrò tutte le canzoni di “Amen” e poi altre, sia di produzione mia che di altri cantautori ma un po’ rivisitate…Nel mio live inoltre ci sarà una componente teatrale con un attore e monologhi che accompagneranno il pubblico in alcuni momenti della scaletta. Un live che a sua volta, come ho definito anche il disco, è un viaggio…Venite a vedere!
C’è un artista col quale ora vorresti collaborare o avere un featuring in un tuo pezzo?
Mi piacerebbe molto lavorare con Salmo. O anche con Cesare Cremonini che ho citato prima, o Vinicio Capossela. Poi a volte immagino (sorride)…no ma poi mi dico “Non ti immaginare troppo!” Anzi chiedo a te: tu con chi mi vedresti collaborare?
Domanda interessante sulla quale riflettere…La giro ai lettori di Musica 361: voi chi vedreste duettare o collaborare con Eman?
Scrivete le vostre proposte a: redazione@musica361.it
AMEN
Gaetano Liguori a Piano City: «Un altro capitolo della mia vita jazz»
In occasione dell’edizione 2016 di “Piano City” a Milano, Musica361 ha incontrato uno dei suoi protagonisti più rappresentativi, il pianista jazz Gaetano Liguori.
Napoletano di origine ma milanese d’adozione, Gaetano Liguori è uno dei più noti pianisti jazz, il primo italiano a suonare in India, Thailandia, Singapore e Malesia.
Il mestiere l’ha geneticamente ereditato in famiglia dal padre, pure lui musicista, e dalla zio Gegè Di Giacomo, storico batterista di Renato Carosone: «Ho imparato a suonare la batteria a 8 anni…poi ho scoperto che il pianoforte poteva darmi una gamma espressiva maggiore».
Una vita dedicata alla passione per la musica e all’insegnamento in Conservatorio, all’impegno politico e ai viaggi di solidarietà: una carriera ben sintetizzata nel docu-film “Gaetano Liguori – Una storia Jazz” (2015), che sarà proiettato questa sera presso l’auditorium della Camera del Lavoro in occasione del suo compleanno (ingresso libero).
Come è nata l’idea di questo documentario realizzato da Valerio Finessi?
Due anni fa ho pubblicato la mia biografia “Confesso che ho suonato” (2014, Skira). Rievocando tanti aneddoti mi è venuta la voglia di dare un supporto visivo alla mia storia, attraverso le immagini di testimonianze e luoghi indimenticabili che hanno rappresentato tappe fondamentali della mia vita.
Ho messo a disposizione, per la documentazione dei primi anni, i miei filmini privati super 8mm – in cui si vede piazzale Corvetto che con i suoi campi di pecore e pastori negli anni ’60 sembrava la steppa – montati insieme a filmati di repertorio del periodo in cui studiavo pianoforte in Conservatorio o della passione politica in Università, fino a momenti più recenti, ad esempio mentre suono in piazza San Fedele per un’edizione di Piano City.
È un viaggio attraverso i miei luoghi milanesi, intervallato da interviste a personaggi che raccontano come hanno incontrato e “vissuto” Gaetano Liguori: da Franco Fayenz, il primo giornalista che mi ha scoperto, al mio bassista del Trio Idea Roberto Delpiano, passando per Gianni Barbacetto che ha condiviso con me i tempi della Statale. Quindi un documentario in cui si parla di me…ma non parlo solo io! E naturalmente la colonna sonora è la mia musica.
Per questo il sottotitolo è “Una storia jazz?”
Non solo ma anche perché l’andamento stesso della mia vita, proprio come nel jazz, è stato caratterizzato dall’alternanza di certezze e momenti di improvvisazione… (sorride).
Restando ai “suoi” luoghi, perché proprio la scelta dell’auditorium della Camera del Lavoro come sede della proiezione del documentario?
Perché anche la Camera del Lavoro appartiene alla mia storia: ricordo che venivo qui nel 1966-67 a vedere Dario Fo. Ed è molto emozionante pensare che oggi, quasi 50 anni dopo, mi ritrovi a festeggiare il mio compleanno in uno spazio diventato in qualche modo “mitico”.
Un altro capitolo importante della sua carriera è Piano City. Un appuntamento milanese al quale ha sempre partecipato e quest’anno alla quinta edizione: come ricorda l’esordio di questa manifestazione cinque anni fa?
Piano City è un evento che ha risposto ad una scelta per parte mia abbracciata già 40 anni fa, quella cioè di portare la musica fuori dal circuito ordinario: io sono stato tra i primi negli anni ’70 a suonare ad esempio in metropolitana o in piazza Duomo a Ferragosto.
Già all’epoca avevo desiderio, insieme ad altri colleghi, di creare circuiti alternativi cercando nuovi spazi per esibirmi in mezzo alla gente: ho fatto concerti nelle piazze, nelle scuole, nelle università, nei circoli arci, nei kral e persino negli ospedali.
Poi nel 2012 Stefano Boeri, allora assessore, mi parlò di Piano City, un tipo di manifestazione che si allineava a quest’idea di circuito alternativo e che già stava prendendo piede in altre città europee. La prima edizione ebbe luogo alla caserma di via Mascheroni: una maratona musicale di trenta pianisti al chiuso…era dicembre e c’era un freddo polare!
Dopo quella prima edizione però Piano City ha sempre più contribuito ad invitare i cittadini a partecipare ad un nuovo tipo di ascolto e socialità: i pianoforti hanno invaso cortili, stazioni, tram, barche, musei, parchi e scuole, trasformando la città in un unico grande palcoscenico a cielo aperto.
Gli altri quattro appuntamenti si sono tenuti nei luoghi più inaspettati: io ho suonato un anno alla chiesa di San Fedele, un altro anno al teatro Litta, e nelle ultime edizioni al Piano Center di via Palestro 16, dove anche quest’anno mi esibirò, il prossimo sabato pomeriggio.
Il concerto sarà intitolato “Un pianoforte per i Giusti” sostenuto dall’associazione “Il Giardino dei Giusti” a cui io ho aderito già da anni, e per la quale ho inciso anche un album.
Cosa ascolteremo?
Riprenderò i pezzi dell’ultimo concerto che ho fatto a Milano a Palazzo Marino lo scorso 6 marzo, durante la “Giornata dei Giusti”: si tratta appunto dei brani del mio primo disco di solo piano registrato nella Sala Verdi del Conservatorio l’estate scorsa.
Insieme ai brani per i Giusti ne eseguirò anche altri miei storici come “Il comandante” e “La tarantella”. E poi un omaggio a due grandi musicisti, lontani nel tempo ma vicini nella creatività: farò un’improvvisazione sul “Don Giovanni” di Wolfang Amadeus Mozart e su “Hey Joe”, resa celebre da Jimi Hendrix.
Lei è stato anche direttore artistico di alcune manifestazioni musicali: tra i protagonisti di Piano City ci consiglia in particolare qualche nuovo collega, magari da scoprire?
Ci sono indubbiamente tanti giovani promettenti pianisti che meritano di essere ascoltati. Personalmente però resto sempre affezionato a esponenti della vecchia guardia, come Patrizio Fariselli o Roberto Cacciapaglia. Anche perché è un po’ “inquietante” pensare che dalla prima edizione cinque anni fa se ne siano già andati alcuni colleghi come Giorgio Gaslini: in pochi anni mi sono ritrovato ad essere io uno dei più anziani…
Prossimi concerti invece?
Il 2 giugno rappresenterò il jazz ad un altro appuntamento milanese a cui tengo molto: suonerò sulla barca in Darsena col Trio Idea per la Festa del Naviglio, insieme a l’Orchestra dei Popoli.
Prossimi progetti?
Sto finendo di scrivere un nuovo libro che presenterò a BookCity a novembre sull’altra mia grande passione dopo la musica: il cinema western. Si intitolerà: “Non sparate sul pianista – Viaggio nel cinema western”, Skira editore.
Sono sempre stato affascinato da quei film in cui erano in primo piano lealtà, amicizia, impegni presi e parole d’onore…tutti valori magari un po’ romanzati ma nei quali credevo e credo ancora. E non a caso anche uno dei miei dischi si intitola proprio “Noi credevamo…e crediamo ancora” (2011).
Per quanto riguarda la musica invece, sta componendo o lavorando a qualcosa?
È appena uscito un disco a marzo quindi per ora mi risparmio…A settembre invece verrà pubblicata una ristampa su vinile e CD del mio “Collective Orchestra” (1977), storico album al quale hanno preso parte Massimo Urbani, Guido Mazzon e tutti i giovani più talentuosi dell’epoca.
E poi?
…e poi l’anno prossimo andrò in pensione e mi riposerò un po’ (ride)! Senza perdere però la voglia di fare questo mestiere. Il messaggio che spero di aver più trasmesso in questi anni di insegnamento al Conservatorio, o attraverso libri, dischi e interviste è che noi musicisti facciamo il più bel mestiere del mondo…e ci pagano pure!
Live for a dream: il sogno di Pino Scotto
Pino Scotto è tornato con Live for a dream, il nuovo album. In questa intervista, il celebre ex-frontman dei Vanadium si racconta.
Nell’intervista a Musica361 ci parla della nascita del disco, della lunga amicizia con Lemmy Kilmister dei Motorhead recentemente scomparso, del Rainbow Project, dei ricordi più significativi della sua carriera a Milano, dei suoi sogni e del futuro del rock’n’roll. Anzi della musica.
A due anni di distanza da Vuoti Di Memoria (2014), è stato pubblicato il 1° aprile in digital download, sulle principali piattaforme streaming e nei negozi tradizionali Live for a dream (Nadir Music su licenza Valery Records): 16 brani live registrati in studio insieme a tanti colleghi per ripercorrere l’intera carriera musicale dell’artista, dai suoi esordi con i Pulsar, passando per i Vanadium, i Progetto Sinergia e i Fire Trails fino ai lavori da solista.
Anzitutto: cosa è successo dall’ultimo Vuoti di memoria (2014)?
Dopo aver pubblicato Vuoti di memoria, album di cover in cui avevo stravolto completamente pezzi di cantanti italiani come Battiato, Celentano e Tenco – addirittura avevo riarrangiato in chiave rock É arrivata la bufera di Renato Rascel, in coppia con Drupi – sono stato in tour per un anno e mezzo: circa 140 date in giro per l’Italia. Ho fatto tappa anche all’estero, accompagnato dal chitarrista dei Motorhead e Ozzy Osbourne e dal bassista di Eric Clapton: proprio in quel periodo, non so come, mi è venuta la voglia di riprendere dal vivo i vecchi brani che ho scritto con i Vanadium e non solo. Quando sono tornato a casa dal tour, un pomeriggio ho radunato sul divano tutti i CD e gli LP che avevo registrato da quando ho cominciato a scrivere e suonare, e ho fatto un “viaggio nella memoria” Da lì è cominciato Livefor a dream…
Con quale criterio hai composto la tracklist del disco?
Riprendendo in mano ogni album mi è istintivamente caduta la scelta su una canzone: e ogni volta mi sono immaginato anche con chi mi avrebbe fatto piacere suonare quel brano. Ho coinvolto La Strana Officina, i Sadist, Stef Burns che è il chitarrista di Vasco, l’armonicista blues Fabio Treves, i Ritmo Tribale che dopo 13 anni si sono riformati per me, e tanti altri. Nella tracklist poi ho ripubblicato tutte quelle canzoni in ordine cronologico. Avrei dovuto incidere due CD per inserire tutte quelle che avrei voluto registrare, ma purtroppo non è stato possibile.
Possiamo allora considerare questo disco il “Volume 1” di un doppio?
Magari, chissà… Non penso però perché io le cose le faccio una volta sola: “Paganini non replica!” (ride).
In Live for a dream hai ospitato tantissimi colleghi del panorama italiano e internazionale. A proposito di sogni, c’è ancora qualcuno con cui sogni di collaborare?
A uno l’ho chiesto ma non è potuto venire: Jimi Hendrix (sorride). E poi un altro, Glenn Hughes bassista e cantante inglese, soprannominato “The Voice of Rock”, è noto per uno stile vocale che unisce elementi rock, soul e rhythm’n’blues, che lo accomuna ai grandi vocalist neri e ha militato in gruppi storici come i Trapeze, i Deep Purple e i Black Sabbath, un grande. Andate a sentirlo!
Scorrendo la tracklist, nella tua trentennale carriera hai scritto e cantato in inglese, ad esempio con i Vanadium, e in altri momenti in italiano, da solista: questa scelta ha risposto ad esigenze commerciali o artistiche?
La mia esigenza è sempre stata quella di fare quello che volevo fare nella mia vita. Non so se ho sbagliato o ho fatto bene ma quello che conta è che sono sempre state tutte scelte dettate dal cuore e… dalle palle! E per mantenere questa libertà mi sono fatto 35 anni in fabbrica, a scaricare camion.
Live for a dream, “Dal vivo per un sogno”: “qual è questo sogno?
La mia musica. A prescindere dal fatto che sia bravo o meno, questo è il mio sogno e non me lo deve toccare nessuno. Sono una persona che se rispetti, ti rispetta il doppio. Però se non mi rispetti mi inca**o: per questo ho spesso litigato con chi mi ha giudicato senza poterselo permettere o peggio ha cercato di “manipolarmi” quando sono stato invitato a qualche manifestazione canora. Non bisogna tradirsi o farsi manipolare. E non puoi immaginare che pena mi fanno quei ragazzi che vedo giudicare a questi reality o talent: li prendono e li vestono, gli dicono quando devono piangere, quando ridere o cantare, e poi li eliminano… Fatevi rispettare! Stanno distruggendo l’arte e i sogni delle nuove generazioni.
Parliamo dei tuoi due inediti contenuti nel disco. Il primo è Don’t touch the kids in cui ritorna il tema degli abusi sui minori a continua testimonianza del tuo sostegno al Rainbow Project, progetto nato nel 2011 insieme alla Dott.ssa Caterina Vetro, per contribuire a migliorare le condizioni di vita di bambini estremamente svantaggiati: orfani ed abusati in Belize, bambini schiavizzati nella discarica di Coban in Guatemala o a forte rischio di prostituzione minorile e mendicanza in Cambogia.
È un brano a difesa dei continui abusi sui bambini. In Guatemala li fanno lavorare in mezzo all’immondizia per un dollaro al giorno a rischio di contrarre l’epatite e altre malattie, nel Belize ho scoperto che i genitori li vendono per strada… Come dico sul palco e a Database, il mio programma su Rock Tv, non ho pietà per questa gente. E lo ribadisco anche nel bridge del testo di Don’t touch the kids: so che voi pedofili siete malati, vi capisco poverini… Venite da me che ho la cura: due P38 cariche! Nessuna pietà per chi abusa dei minori: i bambini non si toccano.
L’altro brano invece è The eagle scream, scritto il giorno stesso della morte di Lemmy Kilmister, anima dei Motorhead e tuo grande amico dal 1985. Nella canzone lo immagini salire al cielo come un’aquila. Quando hai conosciuto Lemmy?
(sorride)…Due mesi prima di conoscerlo andai con i Vanadium in Inghilterra nel 1985. Ai tempi vendevamo moltissimo in Italia e l’etichetta ci mandò a registrare nel Surrey a Londra con Lou Austin, ingegnere del suono che aveva lavorato anche su Fireball dei Deep Purple, in questo studio magnifico che si chiamava Rich Farm. C’erano piscine e cavalli e tre gnocche che ci servivano e cucinavano per noi! E il guardiano di quello studio era il fratello di Lemmy: di notte fumavamo, giocavamo a biliardo, chiacchieravamo di musica suonando blues, io con l’armonica e lui con la chitarra. Diventammo amici e finito di registrare il disco, neanche il tempo di tornare a Milano e venni a sapere che eravamo in tour con i Motorhead! Prima data al Palasport di Bologna: lì incontrai il mio mito, Lemmy. Gli portai i saluti di suo fratello e bevemmo qualcosa: lui Jack Daniels con Coca Cola e ghiaccio mentre io… mi attaccai direttamente alla bottiglia del Jack (ride)! E da quel momento cominciò a chiamarmi “fottuto napoletano” – io sono originario di Monte di Procida, vicino Napoli.
Che tipo era Lemmy lontano dal palco?
Era una persona schietta, pulita, libera: ha vissuto 70 anni come ha voluto e ha suonato la musica come voleva. E alla fine purtroppo ne ha veramente pagato lo scotto… Ricordo che una volta intervistò Lemmy, credo il Melody Maker, e gli chiesero: “L’anno più bello che ti ricordi della tua carriera?” Lui rispose: “il 1969”. “Perché?” “Perché non mi ricordo un ca**o!” (ride). Abbiamo suonato insieme tante volte e tante volte sono andato a trovarlo a Londra e a Los Angeles. C’era un bel rapporto: anche se lui era inglese e io italiano parlavamo la stessa lingua. Grande Lemmy. Mi manca.
Il pezzo per Lemmy te l’ha ispirato questa circostanza. Solitamente invece come scrivi una canzone, da cosa ti fai ispirare?
Parte sempre tutto da un’emozione: ogni volta che sto leggendo un libro o guardando un film può essere che mi scatti qualcosa… e allora prendo un foglietto e scrivo. Ho una busta piena di questi bigliettini a casa. E quando devo scrivere un testo poi vado a “fare la pesca” e metto insieme, compongo proprio.
Live for a dream include anche un documentario realizzato dal regista Daniele Farina in cui vai a ripescare, anche in questo caso, i luoghi storici della tua carriera in giro per Milano. Raccontaci qualcosa…
È un documentario bellissimo più che sulla mia carriera su questo mio hobby – perché come dico sempre mi ritengo più un operaio prestato alla musica. Parlo dell’incisione del primo 45 giri con i Pulsar, di come diventai frontman dei Vanadium e della nostra storica sala prove, la Lampa in viale Corsica. Quando andavamo a suonare la sera c’era questa “signora della notte” che batteva e tutte le volte che passavamo di là ci diceva “non vi preoccupate che le macchine ve le curo io!”. Ricordo Gegè Reitano, fratello di Mino, che fece suonare noi Vanadium agli inizi in una scuola a Monza dove lui lavorava e poi ci portò in studio a incidere il primo disco. E poi Massimo Legnani conosciuto una sera per caso al Magia, un locale dietro corso Vercelli: fu grazie lui che, appena uscito il primo album dei Vanadium, conoscemmo Maurizio Salvadori della Trident Agency, che si innamorò di noi. E da lì partì il tour con Alvin Lee, chitarrista dei Ten Years After, uno dei protagonisti del festival di Woodstock: facemmo con lui 11 date. E poi racconto del pezzo “Leonka”, ispirato a quella sera in cui morirono Fausto e Iaio al Leoncavallo e del Progetto Sinergia insieme a Gigi Schiavone chitarrista di Ruggeri e il bassista Fabrizio Palermo dei Clan Destino. E tanto altro…
Il Live for a dream tour è partito dalla Sicilia a fine aprile e a giugno toccherà anche la Lombardia a Magenta (Milano). Cosa dobbiamo aspettarci da questo live?
Quasi tutti i brani del disco, dai Vanadium ai Fire Trails. E alla fine chiudiamo con una cover di Vuoti di memoria, che ho cantato insieme a Blaze Bayley degli Iron Maiden e un omaggio a Lemmy: Love me forever.
Oltre a Database, che va in onda in diretta sul canale televisivo satellitare Rock TV, ti faccio una proposta per un nuovo programma. Non ami i talent ma ti chiedo: vorresti far parte della giuria di un tuo talent, con delle tue regole?
Un po’ di tempo fa me lo proposero – non faccio nomi – e dissi: “Non voglio sentire cover come fanno negli altri talent, voglio gruppi che portano brani loro, poi valutati da me e da una giuria che voglio scegliere io”. Mi hanno risposto che così non ci avrebbe guardato nessuno… E invece secondo me sarebbe stata una bella idea: l’avrei fatto soprattutto per dare spazio a tanti ragazzi che veramente meriterebbero una chance. E invece non l’avranno mai perché vogliono solo quelli che fanno il karaoke. Il punto è che cantando pur bene le canzoni di un altro con una bella voce, non arrivi da nessuna parte. E poi sempre ‘ste canzoncine amorose…
Sei noto per i tuoi giudizi al vetriolo sulla musica italiana: ma veramente non ti piace nessuno?
Rispetto gente come Enrico Ruggeri che scrive testi bellissimi e mi piacciono band come Modena City Ramblers o Sud Sound System che mettono anche un po’ di impegno sociale nella loro musica.
Come vedi il futuro della musica in genere, italiana e straniera?
Non riesco a vedere un futuro. Intanto vedo arrivare tanto fumo dai talent, in più non si vendono più dischi e quei pochi che si ascoltano ormai la gente se li scarica; di conseguenza le etichette non hanno più soldi da investire. E anche all’estero, quando usciranno di scena band cult tipo Metallica, AC/DC o Iron Maiden, rimarranno solo tribute band perché sono 20 anni che non ci sono più gruppi per un ricambio generazionale.
Il rock allora è destinato a morire, non c’è speranza?
Se vuoi quantificare la questione in termini di denaro e vendite di dischi allora il rock’n’roll è morto, sicuramente. Finché però ci sarà gente che scriverà e canterà con cuore e impegno il rock non morirà mai. E quella non è una questione di numeri o di successo. Come dico sempre “SucCesso” è quando ho finito di mangiare e sto con la sigaretta sulla tazza (ride)! L’unico modo per ravvivare la scena, al punto in cui siamo arrivati adesso, sarebbe fare tabula rasa e tornare al blues, riscrivere la storia del rock’n’roll da capo, tracciando un’altra strada, una nuova via. Ci sono band americane come Rival Sons e Black Stone Cherry che ci stanno provando. E possiamo farlo anche noi italiani, seguendo l’esempio di molte band storiche, che già esistevano ai tempi dei Vanadium, come la Strana officina, i Sadist e i Labirinth, tra l’altro sempre più chiamate a collaborare anche con artisti stranieri: però dobbiamo essere ancora più competitivi!
Cosa significa per te “essere rock’n’roll” ancora oggi?
La stessa cosa che mi ha risposto il Dalai Lama quando gli ho chiesto: “Maestro, chi è Dio?” E lui: “Dio sei tu e sono io: essere Dio significa vivere nella compassione e nel rispetto, questo è il messaggio di Dio”. E questo per me vale anche per la musica: finché vivi nel rispetto della musica, non ti vendi e non la fai diventare merce per guadagnare, quello è vivere secondo i dettami del rock’n’roll. E non parlo solo del rock, vale per tutta la musica: mi fanno paura quelli che pensano che la musica sia solo l’heavy metal il jazz o il blues. Bisogna ascoltare tutto: perché tutta la vera musica, nell’aria, è impagabile e immensa.
Paolo Limiti: semplicemente un creativo
Paolo Limiti, l’intervista a Musica361 di un grande personaggio che si definisce semplicemente un creativo: “Se non hai creatività non hai mestiere”.
Non basterebbe un’intervista sola per parlare di Paolo Limiti: paroliere, autore, conduttore e produttore televisivo italiano dagli anni ’60 ad oggi. O semplicemente un creativo come a lui piace definirsi. Ci vorrebbero ore, giorni per ascoltare tutti gli aneddoti che spaziano dalla musica leggera alla lirica, passando per le trasmissioni televisive e radiofoniche di successo. E non solo…
Gli inizi di uno dei parolieri più prolifici e ammirati della tradizione italiana: Paolo, quando e come hai cominciato a scrivere?
Scrivere testi o poesie per me è sempre stato istintivo. Devo premettere che respiravo già una certa aria in famiglia: mio nonno era poeta, vinse anche parecchi premi di poesia e conosceva molte lingue. Mia madre, diplomata in pianoforte, teneva concerti ma aveva anch’essa l’istinto per la scrittura: un giorno conobbe Scerbanenco che la incoraggiò a scrivere racconti. E da quel momento anche lei scrisse libri e vinse premi di poesia. Uno di questi addirittura in Rai quando ero ancora molto piccolo. In casa dunque esisteva già questo filone letterario e io allo stesso modo continuai. In particolare, quando avevo sette anni, diedero alle elementari un classico tema del tipo “Raccontate cosa avete fatto la domenica” e io scrissi un racconto sull’incontro tra me e un tacchino, perché quella domenica mi avevano portato in campagna. Il mio tema fu talmente apprezzato che il preside della scuola chiese se poteva comunicarlo al Provveditorato degli studi come esempio di come i ragazzi potevano scrivere. Il primo segnale probabilmente è stato quello, la strada si è aperta da lì. Poi crescendo ho cominciato a scrivere testi per canzoni.
Come paroliere debuttò grazie alla cantante Jula de Palma, di cui era un ammiratore. Come avvenne?
Ero ancora uno studente, avrò avuto 19 anni: lei mi piaceva moltissimo e le avevo scritto una lettera lusingandola, allegando tre testi di canzoni in inglese. Io sono bilingue, ho imparato l’inglese da piccolo, e le scrissi dei testi in inglese, sapendo che era solita cantare anche in inglese e francese. Lei mi rispose che i miei testi erano bellissimi, ma soprattutto che le avrebbe fatto piacere conoscermi. Così quando andai a Roma in gita con la scuola passai a trovarla e quella volta fu lei che mi fece una sorpresa. Mi chiese prima di scriverle qualcos’altro in italiano e poi mi invitò “a sentire come si scrivevano bene le canzoni”: aveva inciso la mia “Mille ragazzi fa” (1964).
Dopo Jula De Palma seconda tappa fondamentale come paroliere è “La voce del silenzio” con Mogol per l’edizione del Festival di Sanremo del 1968. Del Monaco la cantò abbinato alla statunitense Dionne Warwick. Come avvenne la collaborazione con Mogol?
Non abbiamo proprio collaborato. Andò così: dopo aver composto la musica di questo brano non si riusciva a trovare un bel testo. Giusta Spotti, moglie di Elio Isola, autore della musica, mi chiese “Paolo, ci stanno provando in tanti, perché non ci provi anche tu?” Scrissi allora “La voce del silenzio” e gliela mandai. Giusta mi telefonò dicendo che il testo era piaciuto. Mi richiamò dopo una settimana avvisandomi che avrebbe voluto mandare la canzone a Sanremo. Io ero ancora uno sconosciuto però, così decisero di accoppiarmi al nome di Mogol, che aggiunse giusto qualcosa al testo perché la struttura era già completa.
Ebbe altri contatti con Mogol dopo quella collaborazione?
Non ci furono altre occasioni. Semplicemente qualche tempo dopo lui avrebbe dovuto scrivere per un complesso che aveva appena sfondato con un singolo. Questo complesso aveva bisogno di una seconda hit, così fui chiamato perché scrivessi io il testo: “Mogol ha detto di chiamare lei perché le deve restituire un favore.” Fu molto gentile.
Una curiosità sul mestiere di paroliere: esiste una tecnica precisa? Da cosa si fa ispirare per la stesura di un brano?
Non saprei dire, non c’è una regola. In genere mi lascio trasportare da quello che mi viene in mente in certi momenti. A volte scrivo un testo da una melodia, a volte dalle parole stesse nasce una melodia: “Buonasera dottore” nacque prima come testo e poi Shel Shapiro ci fece la musica. A volte immagino qualcosa e penso “questa potrebbe essere una canzone”: allora scrivo la struttura di una canzone che richiama quello che mi è venuto in mente. Prima di tutto creo, qualsiasi sia l’ispirazione, tutto il resto viene dopo.
Molti sono stati gli interpreti che hanno cantato “La voce del silenzio” da Loretta Goggi a Massimo Ranieri, da Francesco Renga a Renato Zero. Chi diede però grande notorietà al brano fu Mina. E pur scrivendo per tantissimi, da Ornella VanoniaPeppino Di Capri, da Iva Zanicchi, ad Al Bano e Romina Power, la collaborazione più importante resta quella con Mina. Quando incontrò Mina la prima volta?
Nel 1968 lavoravo ancora come copywriter in una delle più grandi agenzie pubblicitarie d’Europa. Ero responsabile della sezione “executive cinema e tv”, facevo anche regie per dei caroselli. Tra le campagne pubblicitarie di cui mi occupavo mi diedero anche la Barilla e Mina era la testimonial. La incontrai a Roma agli studi della Titanus ma “non ci acchiappammo” subito…Io volevo che facesse un gesto mentre passava su un tapis roulant in mezzo alle confezioni di pasta e lei: “E perché di grazia dovrei fare questa cosa?” “Perché subliminalmente dovrebbe suggerire di portare gli spaghetti in tavola” risposi io. “E perché lei si fa crescere la barba?” mi rispose…Ci fu questo battibecco. Poi per un problema con la produzione decisi di rifare tutto. Con suo disappunto: “Ma io non posso, sto girando una trasmissione per il sabato sera!” “É un problema suo signora, non mio!” le risposi. Mi inseguirono tutto il giorno lei ed Elio Gigante, il suo agente. Poi risolvemmo la questione e l’indomani Mina mi chiamò e mi disse: “Paolo, perché non viene a trovarmi?”. Così nacque un’amicizia.
Bugiardo e incosciente, Sacumdì Sacumdà, Ballata d’autunno, Un’ombra ed Eccomi per citare le più famose. La canzone che ha scritto per Mina che più ha nel cuore?
Forse “Bugiardo incosciente” (1969). O forse ce ne sono altre che mi piacciono di più ma in questo momento non me le ricordo. É come se a te chiedessero adesso quale articolo ti è venuto meglio (sorride).
L’ultima collaborazione con Mina risale al 2011 con “Questa canzone”, giusto?
In realtà si tratta di un mio vecchio brano che Mina ha recentemente interpretato in maniera mozzafiato: veramente una Mina che non si sentiva da decenni. L’ho scritta nel 1970 e lei l’ha ripescata solo qualche anno fa in un cassetto. Nemmeno sapeva che fosse mia, tanto che quando la trovò fece un lancio chiedendo: “cerco l’autore di questa canzone”. Mi chiamò poi Mario Nobile che aveva fatto la musica insieme a me e mi disse “Hai sentito? Mina ha inciso la nostra canzone!” È una storia molto bella, il testo dice “Canto per te questa canzone, per tormentarti ancora un po’, tornare lì per un momento che non puoi dire no, farai finta di niente ma dentro tremerai…[…] quando tu la sentirai saprai che è per te questa canzone, per farti capire che non è mai finita”. Ecco anche questa potrebbe essere un’altra delle canzoni che amo di più!
“Il dubbio” e “Per Niente al mondo” (1969) cantate rispettivamente da I Nuovi Angeli e Wess, Chriss and the Stroke sono due canzoni scritte in coppia con Felice Piccarreda definibili delle cover dei Beatles, da “Carry that way” e “Golden Slumbers” (Abbey Road, 1969). Negli anni ’60 andava tanto questo fenomeno delle cover o revival in Italia. Come mai?
Nei primi anni ’60, quando già nel mondo il rock’n’roll si muoveva dal 1953, noi in Italia eravamo rimasti alla musica della tradizione della bella vocalità anni ’40. Il rock’n’roll comunque a poco a poco invase anche l’Italia con la relativa esplosione dei 45 giri e conseguente vendita di mangiadischi, usati sulle spiagge e nelle feste. Con l’avvento dei mangiadischi e dei più economici 45 giri si aprii un nuovo mercato: fu l’inizio della grande industria discografica. In RadioRai nacque una trasmissione che si chiamava “Il discobolo”, rubrica del sabato che faceva sentire in anteprima le nuove hit. Insomma ci fu una concomitanza di eventi che lanciò l’industria discografica. E questa industria pensò: “Se i dischi americani hanno successo in Italia, allora incidiamoli anche in italiano: se solo coi dischi americani vendiamo 100, con i testi in italiano venderemo almeno 150!” Si parlava allora con l’editore della canzone spiegando chi l’avrebbe cantata e a seguito alla liberatoria veniva fatto fare un testo in italiano poi regolarmente depositato in SIAE.
Sempre negli anni ’60 esisteva una trasmissione tv che si chiamava “Settevoci”. E oggi i talent: cosa è cambiato nella scoperta dei talenti?
Evolve tutto nel mondo e non fa eccezione la musica. I talent non sono altro che rielaborazioni dei concorsi per dilettanti che si facevano una volta, anche in radio. Nel 1950-51 esisteva un programma alla radio chiamato “Il microfono è vostro”: come si capisce era una specie di corrida, c’era chi cantava, chi recitava poesie o faceva ridere con le imitazioni. Il pubblico votava applaudendo e si stabiliva un vincitore. Vedo i talent di oggi come un’evoluzione nel tempo e un perfezionamento di quelle trasmissioni.
Nel 1968, per intuizione di Luciano Rispoli, iniziò la collaborazione con la Rai come autore e regista. Parliamo di questo passaggio in tv: rispetto alla sua esperienza di paroliere cosa rappresentò per lei e come lo colloca nella sua carriera?
Ho cominciato in tv con Marcello Marchesi, che inaugurò la fascia del mezzogiorno della domenica di Raiuno. Mi propose un programma con Don Lurio, Tony Renis, Gisella Pagano e Dalidà…Anche con i programmi tv ho sempre scelto d’istinto, senza fare l’errore però di accettare tutto: il dio oro non è stato il motore della mia vita, prima c’era sempre posto per quello che mi piaceva, poi il resto. Ho partecipato solo a certe proposte, resistendo ad altre pressioni. É importante dire di no, perché se fai tutto ti squalifichi. Sono stato fortunato perché non ho mai avuto bisogno di fare altro, e sono soddisfatto della mia carriera perché non ho mai avuto tonfi. Non troverai un programma che non abbia avuto successo.
Numerose le trasmissioni e gli speciali musicali. Tra le ultime ha ideato il “Premio Etta Limiti” (2013) concorso per voci liriche trasmesso su Raidue e su Raiworld.
Tutto risale a quando mi chiamarono per presentare un premio lirico al Teatro Fraschini di Pavia, con star della lirica mondiale. Prima di andare in scena quella sera, leggendo il programma, intuii che la scaletta sarebbe potuta essere più accattivante se composta da arie più famose, tipo “Che gelida manina”, quindi rivolta ad un pubblico più popolare, che avrebbe potuto interessarsi all’evento pur senza essere mai stato all’opera in vita sua. Volevo uno spettacolo che andasse alle masse, non per addetti ai lavori. E in seguito a quell’esperienza concepii il premio Etta Limiti che continua a darmi belle soddisfazioni: e oggi sto preparando la quarta edizione. Tantissimi gli artisti che vogliono partecipare a questo concorso lirico e di qualità la giuria composta tra gli altri dal sovrintendente dell’opera di Roma e il sovrintendente della Scala: sono loro che selezionano i cantanti che arrivano in finale. Ho prodotto, pagato e pubblicizzato personalmente questo evento, sapendo di andare a parlare di un settore che pochissimi seguono in proporzione ad altri tipi di programmi. Però ho voluto farlo, ci credo.
Simone Cristicchi nella sua canzone Vorrei cantare come Biagio Antonacci ironizza sul tono nostalgico delle sue trasmissioni: «Per quanto sia nostalgico non sono stato mai da Paolo Limiti». Lei si riconosce in questa fama di nostalgico?
Non mi riconosco nello spirito del “oh che bello sarebbe tornare indietro”. Anzi dico sempre che i “bei tempi andati” non esistono, ci sono solo “i tempi andati”. E della rievocazione dei tempi andati nelle mie trasmissioni c’era solo il 40%; il 60% era fatto di eventi e personaggi contemporanei. Non capisco perché tutti siano rimasti colpiti da Nilla Pizzi e non dalle Dixie Chicks che ho proposto dieci anni prima che diventassero famose: ho contribuito io per primo a lanciare il loro singolo “Goodbye Earl”. Il punto era che il mercato si stava omologando ai giovani escludendo tutto il resto: il malinteso fondamentale credo stia lì. Nella mia trasmissione ho semplicemente messo artisti di talento di generazioni diverse volendo dimostrare che il talento è sempre esistito ed esisterà sempre. Questa presunta quanto sbandierata operazione nostalgia comunque non mi ha mai dato problemi sotto il profilo degli ascolti, sempre ottimi. Anzi ho avuto la mia vendetta o rivincita quando ho poi visto in questi anni programmi come “Io canto”. E mi sono chiesto: perché adesso fanno cantare ai bambini il mio repertorio, le “canzoni dei vecchi”? (ironico).
Amante delle sette note da sempre: ha mai avuto il desiderio di cantare?
No, strano ma no. Canto una canzone se mi piace, ma niente di più.
Lei ha scritto per tanti interpreti in passato: per chi vorrebbe scrivere una canzone oggi?
Mi piacciono molto le vocalità di Arisa, Renga e Mengoni. Tutte voci magnifiche. Ma seguo anche altri talenti all’estero.
Paroliere, autore, regista, conduttore: dovesse definire il suo mestiere o una professionalità in particolare in tutti questi anni?
Creativo. Nel creativo rientra il regista, il produttore, l’autore, il conduttore: se non hai creatività non hai mestiere.
Audi-o-Rama & Locus Festival: “i futuri” di una musica #untaggable
“Aggiungendo una “o” il mondo Audi entra in connessione a quello della musica. E poi c’è Rama ad indicare una visione espansa del mondo che ci circonda. Così è nato Audi-o-rama, nuovo progetto della casa automobilistica interessata ad esplorare il futuro della musica e a supportare festival all’avanguardia
Audi ha partecipato per il terzo anno alla Design Week di Milano: presso l’AUDI CITY LAB, laboratorio d’incontro tra innovative thinkers e spazio espositivo avanguardistico ai piedi della Torre Velasca, è stata presentata lo scorso 15 aprile l’edizione 2016 del progetto Audi-o-Rama e un imperdibile festival legato alla musica d’avanguardia.
Ospite emblematico dello spazio Audi City Lab la nuova Audi Q2, presentata in anteprima nazionale e simbolicamente associata al concetto di untaggability: «È un prodotto sintesi di comportamenti e contenuti di prodotto differenti quindi untaggable, inclassificabile», spiega Massimo Faraò (direttore marketing di Audi Italia). «Un concetto che intendiamo cavalcare e sviluppare ispirandoci ad elementi comuni a design e musica, come già abbiamo fatto con Audi-o-Rama».
A spiegare meglio questo legame tra untaggability del design Audi e musica prosegue Fabio De Luca, Project editor di “Audi-o-Rama”, evento a porte chiuse sponsorizzato dalla casa automobilistica tedesca: di fatto si è trattato di «un lungo week end di quattro giorni lo scorso novembre in un albergo a Verbier, nella Svizzera francese, nel quale abbiamo radunato, in una sorta di simposio greco-romano, tante personalità legate al mondo musicale. Tutti liberamente chiamati ad approfondire e discutere diverse tematiche: abbiamo realizzato interviste ad artisti che nei decenni passati hanno “indicato la strada” come Laurie Anderson o Giorgio Moroder, fino alle esperienze dei più giovani tastemakers tra innovatori, giornalisti, bloggers, produttori, managers, dj e pionieri del sound, a cui è stato chiesto poi di sintetizzare in 15 parole chiave i “futuri” della musica».
Giovanni Perosino, Responsabile Marketing Audi AG ha confessato che: «Quello che ci ha interessato di più in questo caso, rispetto alle quotidiane proposte di sponsor, è stato il concetto del simposio greco, questa dimensione in cui si parla di argomenti rilevanti intorno alla musica cercando di capire o intuire in che modo nuove soluzioni possano trovare forma. Ci è sembrato poi oltremodo affascinante un contesto nel quale discutere liberamente, senza alcun tipo di vincolo commerciale».
Non è la prima volta Audi si fa mecenate nei confronti della musica, come per il Salzburg Fest, ma se in quel caso si trattava di musica del passato, ora l’azienda sposa la causa per quella del futuro: «La musica è sinonimo di rinnovamento ed evoluzione, temi da sempre parte anche dell’identità Audi, che hanno trovato in qualche modo spontanea sintesi in un progetto internazionale che non mira a non solo a esplorare gli orizzonti musicali ma a dare spazio e voce anche a innovazione e tecnologia».
Corrispondenza che si riscontra anche nel motto Audi “Vorsprung durch Technik” – “All’avanguardia della tecnica”: «Anticipare quello che sta per succedere ti dà una chiara direzione. Essere avanti nella musica significa creare un simposio per discutere in maniera più “social” sul futuro, rispecchia un’applicazione del nostro motto».
L’industria dell’automobile e quella della musica hanno più punti in comune di quanto si pensi – non solo perché guidare e ascoltare musica sono entrambe esperienze “immersive”, che coinvolgono tutti i sensi – ed entrambe sono inoltre protagoniste di un momento epocale: come nel campo automobilistico è evidente un tenace duello tra il mondo della Silicon Valley, delle app, delle società che producono software, servizi e algoritmi in competizione con l’industria hardware e metalmeccanica, così in quello musicale oggi i player di radio o canali musicali si misurano con i vari Soundcloud e Spotify, soggetti untangible ma ugualmente competitivi. Di chi sarà il futuro?
L’esperienza di Audi-o-Rama però non si è limitata solo a questo incontro eccezionale. Intanto, a testimonianza dell’evento, è stato aperto un canale YouTube che riporta le lunghe interviste integrali ai 5 “Big Talk”, da Moroder alla Anderson, e poi è stato pubblicato un libro a cura di Riccardo Pietrantonio, direttore di 515 agency che ha pensato di immortalare conversazioni e momenti particolari per scrivere un “Manifesto of the future(s) of music”. Due le sezioni del libro, pensate per diversi modi di fruizione: una parte fotografica con i ritratti, l’altra con il racconto di Fabio Paleari intervallato dalle mappe grafiche di Bastiaan Arler. Il libro verrà stampato in 1001 copie in edizione numerata e limitata e non sarà venduto ma distribuito nel mondo della musica o messo in consultazione».
E se Audi-o-Rama sembra aver quanto meno abbozzato il futuro della musica che dire invece del futuro di Audi-o-Rama? L’idea è di farne un appuntamento biennale, sempre possibilmente in Svizzera quale simbolo di neutralità, al di sopra delle scene internazionali. Tra un’edizione ufficiale e l’altra però ci sarebbe l’intenzione di declinare, nell’anno “vuoto”, un altro appuntamento. A cominciare da quest’anno: dal 15 al 18 luglio infatti si terrà nel nostro paese un’edizione speciale dal titolo Audi-O-Rama Music Hub Italia un incontro di artisti di fama mondiale e tastemaker italiani chiamati a confrontarsi sui prossimi scenari della musica italiana, nell’esclusiva struttura di Borgo Egnazia, con l’obiettivo di produrre contenuti inediti. Il tutto a pochi chilometri da Locorotondo (Savelletri di Fasano, BR), dove in concomitanza avrà luogo il Locus Festival, (15 luglio – 7 agosto), uno dei festival più all’avanguardia dal 2005.
Personaggio “cerniera” tra Audi-o-Rama e il Locus Festival è Luca De Gennaro: «La chiave per interpretare la bellezza di un festival musicale è intanto la location e il Locus festival, come dice il nome, deriva la sua personalità dalla località che lo ospita. Tanto più se la località è in Puglia, una delle regioni più belle d’Italia». Oltre alla dimensione locale il festival però non rinnega anche la forte personalità musicale: «Gli organizzatori del Locus sono appassionati di black Music ma guarderanno molto anche al mondo dell’elettronica: le iniziative musicali verranno gestite da chi fa della musica stessa parte centrale della propria vita, di chi ha voglia di raccontare la storia della musica e analizzare le ragioni per cui domani sarà diversa».
Vincenzo Bellini, organizzatore del Locus Festival per “Bass culture”, agenzia pugliese insieme a Turnè Srl, in collaborazione col comune di Locorotondo e il sostegno della Regione Puglia, per ora conferma solo alcuni nomi (Kamasi Washington, Dj Premier & The badder, Floating Points) perché il cartellone verrà definito nei prossimi mesi. «Abbiamo dedicato questa edizione del festival – ufficialmente la dodicesima ma la seconda sponsorizzata dal marchio con i quattro anelli – a Sun Ra, musicista dall’approccio “afrofuturista” al jazz. Il tema del festival sarà “Space is the place”: «“Audi” ha un richiamo latino all’ascolto e “locus” significa luogo: tutta Locorotondo – “città circolare”, rappresentazione del cerchio cosmico – in quei giorni si trasformerà in un palco a cielo aperto, animata da tante attività. Vogliamo sonorizzare alcune delle vie più caratteristiche e persino le terrazze con dj set. Connettendo poi musica e design, con le inedite performance e installazioni luminose curate dal digital storyteller Felice Limosani, enfatizzeremo la creatività di un festival che possa rappresentare per la Puglia un volano per l’immagine turistica e culturale. Coglieremo l’occasione per essere promotori di un vero turismo esperienziale, considerate anche le iniziative della tradizione enogastronomica nel territorio».
“ALT”: ritorna Renato Zero
Renato Zero, il ritorno con “Alt” dopo oltre tre anni dall’ultimo disco e l’annuncio di due tappe speciali del suo tour all’Arena di Verona (1 e 2 giugno).
Dopo oltre tre anni dall’ultimo disco è stato finalmente pubblicato lo scorso 8 aprile “Alt”, attesissimo album di inediti del libero e provocatorio “cantattore” e chansonnier romano. A celebrare questo ritorno due tappe speciali il prossimo 1 e 2 giugno all’Arena di Verona, dalla quale il re dei sorcini manca da ben 18 anni (1998).
“Tempo di tornare dalla gente mia”: con questo verso tratto dal suo brano Il ritorno (1993) ad ottobre 2015 Renato Zero aveva preannunciato su Facebook la fine di un lungo silenzio discografico. Poi l’inedita “Gli anni miei raccontano” cantata all’ultimo Sanremo e il singolo “Chiedi”, lanciato lo scorso 2 marzo.
E ora finalmente il nuovo disco: un ritorno ai grandi temi sociali e alle battaglie civili rispetto alle liriche più riflessive del doppio progetto “Amo”. Nei 14 brani inediti si parla di fede, violenza, giovani e lavoro, dell’amore in tutte le sue declinazioni, del destino dell’arte, dell’ecologia, delle politiche d’accoglienza e dei nuclei affettivi.
«Non mi arrendo»: così ha esordito l’artista aprendo la conferenza stampa tra gli applausi dei giornalisti.
«La scuola non può essere abbandonata mentre stiamo per laurearci. E voglio laurearmi con i voti che merito. E con quelli che la musica merita. Non chiamatela più leggera questa musica, per cortesia. Faccio appello a tutti coloro che vogliono difendere questa zona sana della nostra società: salvatela cercando di dialogare con internet, con tutti questi arcipelaghi che stanno disperdendo le nostre forze, la nostra semina». Parole altrimenti usate per polemizzare contro quei «sorcini un po’ sprovveduti» che hanno messo in rete il suo disco gratuitamente prima dell’uscita ufficiale «senza probabilmente conoscere la fatica di un lavoro che meriterebbe un po’ di rispetto in più e proprio da loro. Non faccio le rapine di mestiere, faccio l’artista e i dischi me li pago investendo di tasca mia».
Realizzare un disco non è come ascoltarlo evidentemente, «si può anche perdere un’estate, stando al pianoforte anziché in crociera». Anche perché «il giorno che un artista indossa le pantofole e scopre un sederino forse ha smesso di dire qualcosa al mondo. E questo disco invece vuole rivolgersi a quelli che non vogliono stare in panchina, rassegnati al tempo o all’ISIS, perché oramai diventate questioni ovvie. La sofferenza stessa può essere un’alleata eccezionale, senza per forza imputarle un significato negativo: è madre della saggezza, della sopportazione, della rivoluzione. Ci sono sempre personaggi e situazioni alle quali dedicare il nostro preziosissimo tempo».
E personaggi e situazioni del quotidiano hanno appunto ispirato quest’ultima produzione: «Io canto di quel che vivo e del tempo in cui vivo: chi non vive, non scrive. Questi tempi mi hanno sollecitato un intervento quasi obbligatorio. Mi piace non stare zitto come non ho mai fatto e poter stimolare gli intelletti della gente, soprattutto quelli di coloro che hanno una vocina più esile, che non hanno raccomandazioni o parentele comode. Personalmente ho sentito la necessità di incidere questo disco, un po’ forse anche per consolare, per un rispetto verso gli altri. Non vedo molti esempi che ci confortino e in un momento come questo non ci si può non interessare degli altri».
Diverse le tematiche sociali che guardano soprattutto alle nuove generazioni con coraggio, spirito identitario e irriducibile speranza. Come il brano “Il cielo è degli angeli”, scritta a seguito di una “epidemia di separazioni”, dedicata a «quelle coppie di “angeli” che non si buttano egoisticamente alle spalle un trascorso amoroso, condizione penalizzante soprattutto in presenza di figli, ma tentano di ristabilire un contatto umano senza sbattersi la porta in faccia». Come è controproducente sbattersi le porte in faccia oggi nel mondo del lavoro: in “Chiedi” ribadisce il suo disprezzo «verso chiunque si metta di mezzo all’attuazione di un programma di sviluppo, siano pure sindacalisti». Dai motti laici ad una preghiera dai toni cristiani, “Gesù”: «Dio potrebbe anche essere un’entità lontana che non ha tempo di far trovare un’occupazione ad un giovane di 20 anni. Gesù invece siamo noi. E oggi sento l’assenza di molti Gesù, come già ce ne furono tanti altri nel nostro paese, ad esempio quelli massacrati dalla Mafia. É necessario che Gesù ritorni a casa ma questo deve dipendere anche dalla nostra volontà: non si può sempre aspettare la manna».
Un album che, raccontando del sentirsi al mondo in queste ore, si differenzia dunque da tutti i precedenti, più “profetici”: «Insolito per me che sono più abituato alle veggenze. Forse perché ora, andando avanti con gli anni, inevitabilmente immagino meno, mi si stringe il campo visivo».
Canzoni come «un atto d’amore, una forma alta di coinvolgere gli altri in un sentire, nell’appropriarsi di un momento magico, sia esso più leggero o più profondo» e caratterizzate da uno stile inconfondibile ma «non omogeneizzato», tappa discografica che Zero tiene orgogliosamente a condividere con tutti i suoi collaboratori: «Ringrazio pubblicamente Danilo Madonia per il capolavoro nell’arrangiare il mio disco, così come Vincenzo Incenzo, Maurizio Fabrizio, Phil Palmer e tutti gli altri tecnici e professionisti storici che hanno accompagnato il mio percorso, permettendomi di sentirmi un vero musicista».
In tema di ringraziamenti, tra gli altri, viene però fatto notare che sulle note di copertina si omaggia Mimì Bertè e non Loredana: «Insieme a Mimì ho vissuto momenti artistici intensi, tante volte lei si sedeva al pianoforte e io cantavo…Poi fui “strappato” a Mimì da Loredana perché evidentemente ad un certo punto lei ha sentito più bisogno di essere condivisa. Però non intendo rinnegare nessuno, voglio bene a tutti coloro che hanno fatto parte della mia crescita. E persino a certi signori dalla battuta facile, che quando incontro abbraccio comunque».
Battutacce, anche peggio di quando il nostro si sentiva dire “sei uno zero” agli inizi di carriera, talvolta pure accompagnate da calci e pugni di militari o camionisti: «Una volta negli anni ’70 mentre facevo l’autostop un tizio si è fermato, è sceso dalla macchina, m’ha dato uno sganassone facendomi volare la parrucca, poi è rimontato in auto e se ne è andato. Però episodi come questo non mi hanno fermato». E restando al tema dell’intolleranza, citando il brano “Vi assolverete mai”, aggiunge che «quello che mi stupisce di più oggi è che, mentre una volta ricevevo insulti da soggetti dai 40 anni in su, adesso sono i ragazzini a lanciare certe invettive in rete». E continua: «Oggi internet è molto presente ma bisogna avere il coraggio di uscire da questi network, strumenti che vanno presi con le pinze. Sarebbe opportuno un controllo più consistente anche da parte della famiglia. Per garantire solidità, collaborazione e complicità è necessaria una famiglia. Qualunque essa sia: l’unico giudizio valido è il modo e la qualità di amare, non i sessi. Io ho adottato un figlio perché non voglio stare da solo, perché mai deve essere un problema? Quello che conta è un rapporto disciplinato dal rispetto reciproco, considerando pure la complicità di coloro che ci circondano. La salute stessa dipende da chi hai vicino: a parte il macchinario o la nuova formula magica della farmacologia, se non c’è l’intervento umano di chi ti sorregge e ti incentiva è più complicato star bene. Dentro questa rete invece non vedo complicità ma spesso solitudine, talmente tanta che poi degenera in depravazione».
Pronto ad affrontare le sfide della vita e consapevole che la promozione più autentica di un musicista rimanga l’esibizione dal vivo, ribadisce ancora la voglia di mettersi in gioco: «Sono felice di essere ancora in pista, la sorte mi ha premiato», dice gaudente invitando i giornalisti in prima fila a tastare la solidità delle sue gambe, segno di buona costituzione. «Mi sento abbastanza bene, tremo un pochino come a Sanremo perché ho perso l’abitudine di esibirmi su un palcoscenico davanti a tanta gente insieme, però vedrò di recuperare: è una sfida con me stesso. La mia testa ora è all’Arena di Verona: ho un conto aperto con l’Arena, mi deve tre malleoli…e quindi vado a reclamare il conto! A parte i malleoli la scelta di Verona vuole essere un omaggio ad una terra che mi ha dato tantissimo professionalmente, che mi ha sostenuto tanto. Come l’Emilia Romagna, la Toscana e il Piemonte, tutte regioni che hanno creduto in me. É bello ricordarsi anche di chi è stato premonitore, e per primo mi ha offerto questa opportunità».
Schiva poi le domande sulle elezioni a Roma, come quella sulle trivellazioni, già espressa «quando mi schierai con Lucio Dalla a difesa delle Tremiti», ma inevitabile una considerazione sul mondo della discografia, di cui peraltro parla ne “In questo misero show”: «L’ultimo che decide il valore del supporto musicale è sempre il pubblico. Negli anni ’70 forse c’era più pressione a raccontare meglio la realtà che si viveva in questo paese perché il pubblico era più esigente. Sapendo poi che veniva continuamente “viziato” da artisti come Jimi Hendrix, Otis Redding, Uriah Heep, Led Zeppelin, Rolling Stones, Beatles e Pink Floyd, senza contare in Italia Battisti, Dalla, De Andrè o la PFM, la concorrenza era tale che non si poteva fare a meno di competere, altrimenti eri fuori. Oggi forse lo standard per qualche verso si è sensibilmente abbassato…Però non riesco ad imputare la colpa agli artisti. Forse la domanda vera è: c’è un disegno più alto di noi che ci vuole ignoranti perché non si veda esattamente quello che desideriamo dalla vita e da noi stessi? Riflettiamoci».
In tema di grandi nomi del passato inevitabilmente gli si chiede un commento sulla recente scomparsa di David Bowie, di cui Zero è stato considerato la versione italiana, al che l’artista interrompe ironico: «…No, considerate lui il Renato Zero inglese!» Poi sorride “guardando il cielo” a braccia aperte e lo saluta: «Ciao David…Se non si scherza fra noi…»
Consapevole dell’importanza del ruolo pubblico quanto della stampa, in conclusione Zero si rivolge empaticamente ai giornalisti: «Questo disco guarda a questi tempi senza bleffare, non mente. Chiedo comunque a voi il massimo della critica: in parte vi temo ma dall’altra vi esorto ad un ascolto autentico. La mia professione desidera in qualche modo essere perquisita: voi fate il vostro lavoro e io il mio. E questa sinergia fa di Renato Zero una garanzia per tutti».
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