A poco più di un anno dall’inaugurazione Musica361 fa visita al Fabrique, la nuova location di riferimento a Milano per l’entertainment italiano e internazionale dopo il Forum di Assago, scoprendo alla guida un “giovane veterano” dell’intrattenimento musicale milanese.

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Daniele Orlando, direttore del Fabrique di Milano, in via Fantoli.

Parliamo con Daniele Orlando, giovane professionista che dopo l’esperienza alla direzione del famigerato Rolling Stone di corso XXII marzo e poi ai Magazzini Generali di via Pietrasanta di Milano ha da poco aperto, sempre nel capoluogo lombardo, il Fabrique di via Fantoli: una futuristica struttura della capienza di 3100 posti modulabile su oltre 2000 mq e pensata per ospitare concerti e dj-set ma anche eventi d’arte, moda o cultura, considerata anche la recente fine del Palasharp di Lampugnano, smantellato nell’ambito dei lavori di riqualificazione per Expo 2015.

Il direttore racconta a Musica361 della sua carriera giunta ora a questo suo terzo capitolo legato al mondo dell’intrattenimento musicale.

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Daniele Orlando.

Daniele, a soli 40 anni sei un apprezzato e già “storico” organizzatore di eventi musicali: a cosa lo devi?
Alla mia passione da quando avevo 10 anni: la musica. Tutto comincia in un bar vicino casa a Bresso, dove abitavo: c’era un juke-box e ogni volta che venivano a cambiare i singoli in classifica mi regalavano i 45 giri sostituiti. Mia madre mi comperò poi un impianto per fare il dj: e dal 1989 cominciai a lavorare, ogni domenica pomeriggio, al Carisma in via Santa Maria Segreta angolo Cordusio e, insieme a Claudio Cecchetto, in quella che sarebbe diventata la discoteca Divina in via Molino delle armi. Quando la frequentavo io si chiamava New York City.

In che modo sei arrivato alla guida del Rolling Stone?
Ancora giovanissimo cercavo lavoro nell’area di Milano compresa tra viale Piceno e corso XXII marzo: in quella zona, già dai primi anni ’80, avevano cominciato a nascere locali di tendenza come appunto il Rolling Stone o il Killer Plastic Zero, in viale Umbria. Trovai un ingaggio in quei paraggi, al New Magazine di viale Piceno, un disco-pub. Era molto moderno per l’epoca, uno dei pochi nei quali si poteva già ballare sui tavoli dopo una certa ora. Cominciai mettendo dischi ma a poco a poco, trascorrendo molto tempo nel locale, finii per occuparmi anche di altro. Il proprietario, notando il mio interesse, iniziò a spiegarmi come si controllavano gli ordini che arrivavano dalle forniture, in che modo fare le spese o da dove si partiva per organizzare una serata. Nel frattempo continuavo a fare il disc-jokey insieme a Cecchetto, spesso anche al Propaganda o all’Alcatraz – dopo che aprì nel 1997. E quando il mio capo purtroppo venne a mancare, grazie ai soldi messi da parte con questo doppio lavoro riuscii a permettermi di rilevare l’intera attività del New Magazine. La portai avanti fino al 2000: in quell’anno venni a sapere di un posto vacante come direttore al Rolling Stone e fissai un appuntamento col proprietario, Maurizio Salvadori. E andò bene. La mia fortuna fu che a quell’età già ero così come mi vedi, sia professionalmente che esteticamente (ironico): Salvadori era convinto di assumere un 35enne navigato e rampante…e invece avevo appena compiuto 22 anni.

Com’era la situazione in quegli anni quando sei arrivato alla direzione del Rolling Stone, oramai storico locale milanese definito “Il tempio del rock”?
Dagli inizi degli anni ’80 e fino agli anni ’90 era stato un vero locale di riferimento per il rock: ci sono passati Lou Reed, Iggy Pop, Joe Cocker, Bob Geldof, Ramones e Oasis giusto per nominarne alcuni. Quando però arrivai io nel 2000 in realtà di concerti se ne facevano pochi. Li rilanciammo con le nuove band indie, genere che andava tantissimo come musica dal vivo in città: Roy Paci, i Bluebeaters o Modena City Ramblers e sul versante straniero i Muse, Creed e Chris Cornell. Col mio team siamo riusciti a riavvicinare il pubblico ai concerti, grazie soprattutto alla collaborazione con Rock Tv nata da poco. Il contenitore Rolling Stone solo come musica dal vivo risultava inoltre un po’ limitato e così approfittai della fama del locale per lanciare altri eventi. La serata con la discoteca rock cominciava a sapere di nostalgico, così decisi di proporre serate hip-hop o quella con musica di tendenza chiamata “P Gold” (il Pervert d’oro): quello fu il mio primo approccio nei confronti dei successivi dj-set internazionali.

Il mitico Rolling Stone chiude definitivamente nel 2007. Quella chiusura però segna solo la fine di un capitolo della tua carriera che continua ai Magazzini Generali.
Sono uscito dal Rolling Stone il 12 dicembre 2006. In quella stessa settimana casualità volle che ebbi un contatto per rilevare i Magazzini Generali di via Pietrasanta, falliti e chiusi già da un paio di mesi: feci l’offerta al curatore fallimentare e li acquistai facendoli riaprire già nel gennaio del 2007, appena un mese dopo la fine del Rolling Stone. Anche se quando li acquistai i Magazzini Generali non solo erano a pezzi da un punto di vista edilizio ma anche di immagine.

Come hai rilanciato i Magazzini Generali?
Mi ispirò un viaggio ad Ibiza. Nell’estate del 2007 cominciai a frequentare per la prima volta i locali dell’isola spagnola. Venendo dal ristretto mondo del rock al Rolling Stone, la prima cosa che mi colpii fu notare la fama e la crescita artistica di certi dj con relativi costosissimi biglietti d’ingresso in discoteca: “Perché a Milano per entrare in discoteca ci vogliono 8 € mentre qui a Ibiza te ne chiedono 50 e la gente ci va?!” Quella realtà mi stuzzicava…Realizzai presto che l’utile era tutto lì e che anche io in fondo avevo a disposizione quanto mi serviva per giocare quella carta. I Magazzini Generali avevano già avuto un brand famoso e un passato di tendenza con relativi dj-set: pensai semplicemente di portare a Milano quegli stessi artisti che passavano da Ibiza. Il primo che invitai fu un certo David Guetta – che all’epoca aveva mosso i primi passi alla discoteca Pacha: funzionò molto più di quello che pensavo e capii che ci avevo visto giusto! E da allora con questa formula ho lavorato nove anni ai Magazzini Generali.

Fino al 2014 quando inauguri il Fabrique. Quale fu la necessità di acquistare e aprire questa nuova location dato che l’attività ai Magazzini Generali andava bene?
Gli artisti che avevo portato negli anni ai Magazzini Generali avevano rilanciato l’immagine del locale che andava sempre meglio, è vero. Talmente bene però che i Magazzini non riuscivano più a contenere certi numeri di pubblico in quelle serate. Dovevo però continuare a “favorire” i miei artisti ospitati e accompagnarli nella loro crescita, altrimenti chiaramente avrei dovuto farmi da parte. Cercando quindi di evitare ulteriori costosissimi affitti di sale più capienti, come sempre più spesso mi vidi costretto a fare, decisi allora di cercare uno spazio mio. E capitai anche in questo ex capannone in zona Mecenate nel quale ci troviamo ora, diventato, dopo la chiusura della Venus Distribuzione circa 12 anni fa, il Fabrique.

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Daniele Orlando.

C’è per caso un motivo particolare legato alla scelta di questo spazio?
La ex sede della Venus Distribuzione – il più grande distributore di CD in Italia per i punti vendita delle case discografiche multinazionali più note all’epoca come la CGD, BMG, RCA, Columbia e Ricordi – è un luogo inconsapevolmente entrato nella mia vita durante la mia adolescenza. Finita la terza media e prima di diventare disc-jokey venni a cercare lavoro proprio qui dove ci troviamo ora, come magazziniere. E questo dove ci troviamo in particolare era l’ufficio della persona che dopo breve servizio mi licenziò: sì perché, lo ammetto, il lavoro fisico non faceva per me…Quello fu il primo approccio qui in via Fantoli: un vero segno del destino col senno di poi. Appena rimisi piede qui dentro mi ricordai tutto. Non nascondo che, nonostante l’unica cosa salvabile all’interno fossero i fatiscenti muri perimetrali, decisi comunque di scegliere questo spazio anche per un valore affettivo. Restaurai tutto in tempi record: ho cominciato i lavori a maggio 2014 e il 18 settembre di quello stesso anno l’ho inaugurato.

Vedendo lungo: come fu per il Rolling Stone e per i Magazzini, anche il Fabrique ha rappresentato un ulteriore salto di qualità. E con un destino forse anche nel nome: perché “Fabrique”?
Sicuramente c’è un riferimento al fatto che si tratta di una ex fabbrica legata al mondo della musica. C’è poi un motivo di marketing ben preciso: mi sarebbe piaciuto un riferimento alla discoteca Fabric di Londra. Volevo proporre qui quel tipo di sound a tutti gli affezionati che conoscono quel mondo e insieme mantenere anche un riferimento all’elettronica, portandomi una fetta di pubblico dei Magazzini. E in più considerare che questa attività potesse vivere anche di affitti per feste aziendali, presentazioni di multinazionali ed essere insomma sostenuta da tante altre iniziative, senza legarla necessariamente ad un brand musicale. Ecco allora che mi ispirò la lingua francese: qualche mese prima ero stato per la prima volta in vita mia a Parigi e me ne ero innamorato…E così mi venne “Fabrique”: un nome semplice che suona bene, ricco di riferimenti e anche elegante, che piace anche alle aziende. Il tutto arricchito da un logo molto bello…et voilà!.

Un ambiente in effetti curato in ogni dettaglio: palco spazioso, pareti nere, due bar, un pavimento a tre livelli, un impianto audio e luci all’avanguardia. Non a caso il Fabrique ha vinto anche il premio ONstage Award 2015 come Miglior Club d’Italia. Qual è stato il bilancio del primo abbondante anno di attività,
considerando anche il periodo EXPO?
EXPO in sé, pur creando un’aspettativa molto alta, non ha modificato più di tanto le nostre previsioni. Francamente la situazione è stata più rosea delle aspettative: il bilancio è stato molto positivo. Anzi, scongiurando, credo che possa andare ancora meglio!

A cosa devi tanto ottimismo, soprattutto di questi tempi?
Il Fabrique si è confermato il risultato non solo della mia esperienza gestionale ma anche della collaborazione di tutti i soci, promoter o presidenti di società importanti che rappresentano la musica dal vivo in Italia e che mi garantiscono una fetta di mercato. E chiaramente di un team che mi porto dietro da 15 anni: è molto importante per me avere collaboratori tanto affiatati. Tengo comunque a sottolineare che la persona che, più di altri, mi ha sostenuto e incoraggiato in questa avventura è stata mia moglie Fabiola, nota dj di radio 105.

Oltre all’ottimismo trasmesso dal tuo devoto team e dalla tua compagna, una regola d’oro in anni di attività professionale in questo settore?
Ho imparato che l’economia musicale non ti permette di poterti affezionare ad un settore specifico. Bisogna essere trasversali ma con intelligenza, scegliendo bene chi ospitare: è una cosa che mi ha insegnato il Rolling Stone. Se riesci a scegliere solo gli artisti migliori sei ripagato. Mai dare nulla per scontato. Mai sottovalutare niente e nessuno.

Regola alla quale hai mantenuto fede perché dalla sua inaugurazione il calendario del Fabrique ha alternato artisti diversissimi, da Billy Idol ai Club Dogo, dai Massive Attack a Luca Carboni e poi non dimentichiamo Noel Gallagher e Mika. C’è un evento o un concerto che ricordi con maggior soddisfazione?
Sicuramente Noel Gallagher. Mi sono piaciuti però molto anche Interpol e Chet Faker.

Nasci dj e oggi ti occupi di un’attività “a 360°”: come vivi tante responsabilità ancora giovane, pur con tanta esperienza?
Paradossalmente lavorare in questo modo anziché preoccuparmi mi diverte. Se ti occupi di una cosa soltanto o segui un solo filone prima o poi il tuo lavoro finisce lì. E tu con lui. E invece bisogna sempre avere degli stimoli.

Consultate il calendario dei prossimi concerti, dj-set ed eventi su www.fabriquemilano.it.

In tour con i Rolling Stones, a Sanremo con Lucio Dalla e il “metodo Modugno”: in attesa del concerto di Brescia il prossimo 8 maggio, chiacchieriamo con Al Bano, icona della musica italiana scoprendo nuovi interessanti aneddoti.

“Dialogo” con Al Bano
Al Bano Carrisi (© Foto di Romina Carrisi).

Ne ha fatta di strada da Cellino San Marco in oltre cinquanta anni di carriera e i suoi 26 dischi d’oro e 8 di platino. Senza contare i concerti in tutta Italia e nel mondo, dal Giappone alla Russia, dagli Stati Uniti all’America Latina, comprese sette volte davanti a Santo Giovanni Paolo II. Le sue canzoni e i musicarelli fanno oramai parte della storia della musica italiana. Con “Ci sarà”, in coppia con la storica partner Romina Power, ha pure vinto il Festival di Sanremo nel 1984. Qualcos’altro da aggiungere a tanta carriera? Certo…

Cominciamo da ciò per cui è diventato celebre: a che età ha scoperto la sua voce?
Ricordo che ascoltavo mio padre suonare e mia madre che cantava. Lei era soprano e mi ha trasmesso in qualche modo questa passione. Non ricordo esattamente come ma scoprii questo dono quando avevo più o meno 5 anni. E qualcun altro oltre a me se ne accorse, tanto che alla scuola elementare mi chiesero di esibirmi davanti al maestro…ma mi vergognai e scappai (ride).

E dopo qualche anno, inseguendo il sogno di cantante, scappa a Milano. Mentre lavora incide il suo primo disco nel 1965, “La strada”, cover di un brano di Gene Pitney, poi comincia a esibirsi come spalla negli spettacoli di Adriano Celentano. Che periodo ha rappresentato quello col Clan?
Mi sentivo fortunatissimo, cominciavo a respirare un’atmosfera che fino ad allora avevo solo visto in televisione o letto sui giornali. Pensavo: “Quanto durerà?” E per questo vivevo intensamente ogni esperienza, con grande devozione per Adriano Celentano. Allora e adesso.

Nel 1965 Peppino Di Capri fece da spalla ai Beatles nei loro concerti italiani, lei invece nel 1967 partecipò al tour italiano dei Rolling Stones. Cosa ricorda?
Aprivo il concerto degli Stones cantando nella prima parte, poi mi fermavo a vedere i loro show. Mi colpiva rivedere ogni sera le stesse scene, gli stessi momenti con quei fasci di luce o la stessa recita di Jagger che gettava le rose al pubblico…Io venivo dall’esperienza del Clan di Adriano, artisticamente ben più stravagante, con esibizioni sempre imprevedibili ogni sera. Non voglio criticare nessuno, sia ben chiaro: semplicemente mi furono chiare le regole di un certo tipo di showbusiness e le regole di un artista che è al di là delle regole. E questo era Adriano.

Con la canzone “Nel sole”, nel 1967, primo grande successo, anche la critica apprezzò l’estensione della sua voce definendola un “secondo Claudio Villa”. Le fece piacere quel paragone? Come erano i rapporti con Villa?
Certamente. Avevo un’ammirazione totale per Claudio Villa, è stato un grande. Lo ricordo come un gladiatore che difendeva la sua fama dai tanti facinorosi che in qualche modo tentavano di screditarne il valore che aveva e che ha dimostrato. Mi rattrista vedere che si faccia poco per la sua memoria, probabilmente meno di quanto realmente meriti.

Nel 1968 partecipa al Festival di Sanremo con “La siepe”, in coppia con la folk-singer americana Bobbie Gentry, ottenendo il premio speciale della critica “Luigi Tenco”. Come fu quel primo Sanremo tra i big, cosa ricorda?
Ero nervoso ed emozionato, avevo i crampi allo stomaco prima di salire sul palco. Portai un brano interessante ma difficile. Purtroppo, anche se molti entusiasmati all’inizio mi diedero per vincitore, il pezzo non fu capito: e dal successo di “Nel sole” nell’arco di una sera mi ritrovai ad essere di nuovo il “signor nessuno”. Fu una bella lezione.
Quell’edizione la ricordo anche perché conobbi Lucio Dalla. Lo vidi per la prima volta conciato da barbone a chiedere l’elemosina all’entrata dell’Ariston prima della serata. E durante la competizione me lo ritrovai sul palcoscenico: “ma è quello che prima chiedeva l’elemosina…e adesso canta???” Una scena che non dimenticherò mai: era un geniaccio.

Nell’album “A cavallo di due stili” (1970) per la prima volta interpreta brani lirici come l’Ave Maria di Schubert o il Mattino di Leoncavallo accanto ad alcune reinterpretazioni di canzoni della tradizione napoletana quali O’ sole mio o Core ‘ngrato. Che rapporto c’è tra questi due generi nella sua formazione?
Da buon meridionale sentivo spesso cantare canzoni come “O sole mio” e “Core ‘ngrato” come repertorio quotidiano della gente di strada e così mi sono entrate prima nell’orecchio e poi nell’anima. Accanto a queste, in occasione delle feste del Santo patrono, ascoltavo anche le bande che suonavano in paese brani classici, da Puccini a Leoncavallo. Fu possibile grazie alle trasposizioni del grande Maestro Ernesto Abbate, primo a convertire le note dei grandi autori in musica bandistica: così ho conosciuto Nabucco, Turandot e tante altre inevitabilmente confluite nella mia formazione.

Altra tappa imprescindibile è il legame, sentimentale quanto artistico, con Romina Power. Noti i successi come “Dialogo”, “We’ll live it all again” (Noi lo rivivremo di nuovo) negli anni ’70 e poi “Felicità” a Sanremo 1982, forse la vostra canzone più rappresentativa in tutto il mondo. Cosa ricorda della nascita di questa canzone?
Freddy Naggiar, allora produttore della Baby Records, un giorno mi fece sentire questo brano scritto da Cristiano Minellono, Dario Farina e Gino De Stefani. Mi piacque al primo ascolto e subito pensai: “minimo minimo venderà un milione e mezzo di copie”. Mi sono sbagliato…di altri 8 milioni e mezzo! Un successo mondiale, ancora oggi. Ha portato fortuna a chi l’ha scritta, a chi la canta ed evidentemente anche a chi la ascolta. Ogni volta che si attaccano le prime note di questo brano nei concerti vedo la gente che si scatena.

L’ultimo anno di collaborazione stabile con Romina può essere considerato il 1995. Nel1996 si presenta al Festival di Sanremo da solista con “È la mia vita”, un ritorno a interpretazioni melodiche più impegnative. Come si è sentito in quel momento, da solista?
Di fatto solista lo sono sempre stato: anche se le canzoni che cantavamo in coppia risultavano certamente più popolari, nei nostri album abbiamo sempre prediletto anche parti da solisti. Riscuotendo successo nell’uno e nell’altro caso. Certo quando ho inciso “É la mia vita” mi sono venuti i brividi: una canzone stupenda che ha segnato una tappa della mia vita e della mia carriera, come “Nel sole” o “Felicità”. Non a caso è anche il titolo della mia biografia.

Nel 1998 si esibisce in Austria a Bad Ischl con Placido Domingo e José Carreras in un inedito terzetto in cui sostituiva Luciano Pavarotti. Considerate le sue doti canore, non ha mai pensato di dedicarsi solo alla lirica?
Al Bano nasce da una commistione di stili fatta di classica, musica popolare e blues in cui anche la lirica però ha trovato spazio: è un genere che ho sempre apprezzato. Mario Del Monaco mi diceva “la tua è una voce rubata alla lirica”. Ognuno però poi segue la sua strada…Grazie alla mia vocalità tuttavia ho potuto permettermi di collaborare anche con artisti straordinari come Domingo o Paco De Lucia e Monserrat Caballè.

Restando alle grandi collaborazioni nella musica, dopo la nota polemica di plagio durante gli anni ’90 con Michael Jackson, si vociferava di un vostro concerto insieme a favore dei bambini maltrattati nel mondo. Poco dopo Michael Jackson fu colpito dalle accuse di pedofilia e oggi non è più con noi, dunque il concerto non si potrà più fare. Rimpiange quel mancato evento pacificatore?
Certo, sarebbe stato fantastico duettare con lui. Anche per mettere una pietra sopra una vicenda imbarazzante per entrambi, per sua stessa ammissione. Fu strano ma è successo… Mi spiace per i suoi fan che se la presero con me al processo ma credo che lui stesso mi avrebbe fatto causa se mi fossi appropriato, pur accidentalmente, di una sua canzone.

Il 6 luglio 2008 tiene un concerto in onore di Domenico Modugno a San Pietro Vernotico, paese in cui il cantante trascorse infanzia e giovinezza, distante solo 2 chilometri da Cellino San Marco. Ha mai incontrato Modugno?
Eravamo amici. Me lo ricordo quando arrivava in paese, accolto come una divinità. Modugno è stato per me uno di quei personaggi ispiratori. Seguii il suo esempio tanto che presi in considerazione tutto quello che fece per arrivare al successo. Ho studiato il “metodo Modugno” e con quel metodo ho vinto.

Dopo l’ultima esibizione nel 1997 a Rio de Janeiro all’Estádio do Maracanã davanti a Papa Giovanni Paolo II, nell’ ottobre 2013 canta con Romina Power per la prima volta dopo 16 anni in occasione dei tre concerti organizzati in Russia a Mosca. Come è stato cantare di nuovo in coppia dopo tutti quegli anni?
È stato come se fosse passata una spugna: tutto era passato e c’era soltanto quel presente a riproiettarci nel futuro. Anche se da allora non ho più vissuto il nostro rapporto professionale come duo ma più come un incontro di due artisti che “dialogano” cantando su un palcoscenico. Di emozione comunque ce ne era tanta. Ed è un bene che ci sia sempre: se questo mestiere non ti dà più emozione forse è giunta l’ora di mollarlo.

Sono previste altre date con Romina in Europa e in Italia ma anche sue date soliste, come il prossimo concerto a Brescia l’8 maggio. Cosa dobbiamo aspettarci?
Tutti i brani che non possono mancare in un mio concerto. Per il resto non è bello svelare quello che succederà, si toglie il gusto dell’aspettativa… Il mio motto è: venite e non ve ne pentirete!

Tra “tutte quelle che non possono mancare” c’è però una canzone della sua carriera a cui è più legato o che la emoziona in particolare quando la canta?
Tante. Veramente tante, per diversi motivi. “Devo dirti di no”, cover con i Temptation dei tempi del Clan, “Io di Notte” pezzo scritto da me e presentato in una delle puntate di Settevoci, “Nel sole” il primo successo o il sofferto mezzo flop de “La Siepe”, canzone che ho sempre difeso…Mentre canto ognuna delle mie canzoni mi ripassa davanti tutto quello che ho vissuto nel periodo che le incisi, ogni volta con dettagli nuovi.

A proposito di incidere, nuovi progetti discografici?
Sto progettando un nuovo disco, che segnerà una nuova fase. Ultimamente sto lavorando con il Maestro Alterisio Paoletti, stiamo registrando dei provini.

Prossimi impegni: date le sue competenze in fatto vocalità, le piacerebbe essere giudice in un talent?
No. A me personalmente non piace giudicare o sapere che da un mio giudizio possa dipendere il destino di qualcuno.

Una vita artistica come pochi in Italia: canzoni, film, premi, concerti in tutto il mondo mondo, ambasciatore FAO e ONU e persino produttore di vino. Oggi Albano ha ancora un sogno da realizzare?
I sogni sono ancora tanti. Ma non li confesso…altrimenti non si avverano.

Giancarlo Di Muoio, da “Amico mio” al nuovo “Sindaco Pescatore”: «Quello che più conta è che i cantautori abbiano la possibilità di esistere».

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© Giancarlo Di Muoio.

Laurea in pedagogia, specializzazione come musicoterapeuta e una dura gavetta come musicista: Giancarlo Di Muoio, giovane cantautore del Cilento, esordisce nel 2009 col singolo “Amico mio” sul tema dell’immigrazione con Fabio Concato e, nel 2011, incide il singolo “Verso Casa mia”, sul disagio dell’alcolismo giovanile.

La voglia di parlare di temi sociali attuali e delicati che si trova nelle sue canzoni ritorna anche nel recente “Il sindaco pescatore”, alla memoria del Sindaco di Acciaroli (Sa), Angelo Vassallo. Di Muoio ci racconta del suo stile cantautoriale coltivato negli anni, fino ai suoi prossimi progetti.

“Amico mio” e “Verso casa mia” sono canzoni che trattano temi “sociali”. Cosa ti ha spinto a dedicarti ad un tipo di cantautorato socialmente “impegnato”?
Credo tutto sia nato dall’inclinazione naturale che mi ha portato poi a seguire il mio percorso di studi: già al liceo, pur frequentando lo scientifico, prediligevo materie umanistiche. Da quelle umanistiche sono passato a quelle pedagogiche per poi specializzarmi in musicoterapia. E di conseguenza, praticando la musicoterapia sono venuto a contatto con problemi sociali che riguardavano emarginati, alcolisti e tossicodipendenti. A questo si aggiunga che scrivo canzoni da quando ho 11 anni…ed ecco il mio stile.

Sebbene la definizione di “cantautore sociale” in parte ti qualifichi, non vuoi essere considerato però solo un artista che parla di sociale. Come definiresti o vorresti definire allora la tua musica?
A me non piacciono le etichette: mi sento orgogliosamente un “cantautore del sociale” ma non voglio essere ridotto solo a quello. Le tematiche sociali interessano per definizione la vita a 360°: anche una canzone d’amore parla di sociale in fondo. Come è stato pure il mio percorso, fatto di musica e pedagogia ma anche di vita vissuta: una formazione a 360°.

Sei musicista e musicoterapeuta: la musicoterapia rientra, in qualche modo, anche a livello artistico nel tuo cantautorato?
Prima ancora di essere musicoterapeuta ho sperimentato i benefici della musica su di me. Fino a 12 anni, mentre studiavo pianoforte, giocavo anche a calcio: nel 1993 dei cerca-talenti del Napoli, vedendomi giocare in un torneo, mi avrebbero voluto ingaggiare ma, per diversi motivi, non se ne fece niente…Da quella delusione trovai totale conforto nella musica, una vera terapia. In quella come in altre occasioni. Scrivere, suonare, fantasticare è catartico, ti aiuta a distaccarti per un attimo dalla realtà e a riappropriarti delle tue energie più profonde.

Restando al tuo stile, che genere di cantautori o musicisti ispirano o hanno ispirato la tua musica?
Oltre a Concato, due sono stati i miei riferimenti musicali: Battisti e De Andrè. L’uno, più immediato e fresco, è stato il mio primo amore musicale in adolescenza, l’altro più riflessivo ha invece caratterizzato la mia fase adulta. In quel periodo ho conosciuto anche Fernanda Pivano e la letteratura americana di cui sono estimatore.

Oggi possono nascere nuovi Battisti o De Andrè nel panorama musicale italiano?
Ci sono. Il punto è che, anziché nei talent dovremmo andarli a cercare nella cantine o nelle bettole, come si faceva un tempo. Risulta più difficile trovarli forse anche perché il mondo della musica oggi tende a consumare le carriere in fretta. Bisognerebbe invece fare un tipo di investimento sul lungo periodo: Concato ci ha regalato canzoni bellissime ma è diventato famoso dopo il quarto album…

Che mestiere è per te il cantautore?
Un mestiere che dovrebbe conferire un ruolo importante a qualunque musicista che abbia qualcosa da comunicare. Vedo il cantautore come un menestrello gioioso ma con un pizzico di intellettualità.

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© Giancarlo Di Muoio.

Torniamo ai tuoi impegni recenti. Dopo il recente lancio della fiction Rai e Solaris Media intitolata “Il Sindaco pescatore” con Sergio Castellitto, debutterà a breve un nuovo recital teatrale dedicato ad Angelo Vassallo con Ettore Bassi e parallelamente il tuo omonimo progetto musicale. Come è nato questo progetto parallelo con Ettore Bassi, lui con il teatro e tu con la musica? C’è stato un incontro o un’occasione che vi ha ispirato?
Quando Angelo Vassallo è morto, il 5 settembre del 2010, io ero in tour con Concato. Quattro giorni dopo ho scritto la canzone “Il sindaco pescatore” dedicata a questo conterraneo cilentano. Dopo averlo scritto, come faccio di solito coi miei brani, l’ho messo nel cassetto per riprenderlo in un’occasione opportuna. L’occasione è stata il Festival di Sanremo l’anno scorso: anche se purtroppo la selezione sanremese non è andata a buon fine è stata comunque l’opportunità per conoscere Ettore Bassi.
Fu un giornalista a mettermi in contatto con Ettore, scoprendo che tra i suoi prossimi progetti c’era un recital chiamato appunto “Il sindaco pescatore”: e così si è deciso insieme ad Ettore di fare insieme promozione su questo progetto comune, lui parlando del suo monologo, con le musiche di Pino Donaggio, io del mio singolo, entrambi in omaggio alla figura e agli ideali del nostro sindaco pescatore. E poi, perché no, ci scambieremo anche ospitalità a vicenda, nelle rispettive esibizioni: saremo presenti nei teatri, negli spazi culturali e nelle piazze oltre che nelle istituzioni scolastiche.

Un progetto socio-culturale che non si rivolge appunto solo alla gente comune ma anche al mondo dell’Istruzione. Perché, tra tanti esempi, proporre proprio il caso di Angelo Vassallo?
Personalmente perché lo sento vicino in quanto conterraneo: Angelo abita a 10 km di distanza. E dico “abita” perché per me è ancora presente. E poi perché, col suo caso, rientra in quella schiera di personaggi che si sono battuti per la legalità contro ogni forma di omertà. Rappresenta per me un grande esempio, tanto quanto mi colpirono le traumatiche stragi di Falcone e Borsellino nel 1992, a soli 11 anni. Sono figure per me ancora presenti.

A breve vedrà la luce il tuo prossimo disco: cosa dobbiamo aspettarci?
Nella logica di assecondare la frammentarietà contemporanea dell’ascolto, sempre più lontana dalla logica di CD o LP, opterò al momento, molto probabilmente, per un EP. In esso ritroverete cinque brani: “Amico Mio” con Fabio Concato, “Verso Casa Mia” con Luca Abete e naturalmente “Il Sindaco Pescatore”, più altri due inediti.

Venendo, per lo meno da ascoltatore della tradizione dei dischi o dei CD, come ti trovi oggi da musicista a dover “rinunciare” a quella logica musicale?
Sono flessibile: semplicemente l’era dei dischi sta cambiando e sto al passo con i tempi. Quello che più conta è che cantautori e musicisti abbiamo la possibilità di esistere.

Ti vedremo in concerto?
In estate lavorerò principalmente al sud con le feste di piazza, durante le quali presenterò il progetto del “Sindaco pescatore” per poi continuare le tappe in quelle scuole presso le quali lavoro. O nei teatri con Ettore.

Prossimi progetti nel cassetto?
Al momento sto lavorando con un poliambulatorio come musicoterapeuta e con le scuole: sto pensando con alcune maestre, che sono anche musiciste, di registrare un disco l’anno prossimo con canzoni composte e cantate dai bambini e da me arrangiate. È solo un’idea per il momento, però le canzoni dei miei bambini sono già pronte…vedremo.

C’è un artista, cantante o musicista, col quale hai desiderio di collaborare?
Vorrei fare ascoltare alcuni brani a Gaetano Curreri degli Stadio. Anzi rilancio a Gaetano l’invito….

E dopo Concato, con chi vorresti invece duettare o per chi magari scrivere un pezzo?
Rispondo di pancia: Giorgia. La sua voce è pazzesca, adoro le sue interpretazioni.

Se Giancarlo di Muoio non fosse un cantautore a cosa avrebbe voluto legare il suo nome?
Al calcio. Ero e sono ancora una persona timida e il calcio mi ha aiutato molto: giocare rispettando le regole, fare parte di una squadra, condividere momenti in campo o negli spogliatoi mi ha aiutato tantissimo a crescere umanamente. A livello relazionale, di condivisione. A me piace molto condividere.

E noi di Musica361 ti auguriamo di condividere presto nuovi successi col tuo pubblico.

Bene o male ho fatto il musicista. Per tutta la vita“. Con queste parole Giuseppe “Pino” Devita, storico pianista dei Giganti, riassume la sua passione per l’arte delle note.

Giuseppe Pino Devita. Un pianista tra i Giganti
Giuseppe Pino Devita.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’60, il quartiere di Milano compreso tra via Compagnoni e piazza Grandi, era casualmente diventato residenza privilegiata di molti protagonisti della cosiddetta musica leggera del tempo, come Enzo Jannacci, il cantante Renato dei Profeti o l’arrangiatore Vince Tempera. Tra di essi anche il milanesissimo pianista Pino Devita (69 anni), nato alla clinica di via Macedonio Melloni ma di origini calabresi, che cominciò la sua carriera con i Giganti: «Anche i fratelli Sergio e Giacomo Di Martino, fondatori dei Giganti abitavano in zona come me: ho frequentato con loro la scuola di via Mugello».

Ancora adolescenti cominciano suonando insieme: «uno dei posti di ritrovo per le prove era un teatrino nell’oratorio della chiesa del Preziosissimo Sangue o anche una saletta, ricordo, in Santa Maria del Suffragio». È in una di quelle sedute che Devita compone la melodia di “Tema”, quello che sarà uno dei primi successi del gruppo, in seguito riconosciutogli: «purtroppo all’epoca c’erano prestanome che firmavano al posto di altri e io non ero ancora iscritto alla SIAE. Però ci sono testimonianze scritte di colleghi come Gaber che lo provano».

Oggi invece Devita è regolarmente iscritto come autore SIAE, avendo studiato anche composizione in Conservatorio, dopo il diploma di ragioneria. Dopo i trascorsi coi Giganti entra nell’entourage Gaber-Colli, «persino ospite a casa Gaber per qualche mese dopo la perdita di mia madre». Orfano molto giovane comincia prestissimo a lavorare come musicista: «e per fortuna mia si lavorava bene. C’erano tante sagre di paese e quando si andava in tournée in meridione si facevano almeno 20 concerti in due mesi, cosa oggi impensabile».

Giuseppe “Pino” Devita.Si iscrive anche a Scienze politiche ma le note rimangono sempre la vocazione di Devita: negli anni ’70 fonda i Maad, un gruppo rock-jazz sperimentale e, nel frattempo, insegna musica alle scuole medie inferiori per 40 anni, dedicandosi parallelamente anche alla composizione di colonne sonore per film underground e spettacoli, durante gli anni della sperimentazione teatrale. E dalla fine degli anni ’80 comincia a dedicarsi anche alla composizione di brani sperimentali per pianoforte: il suo ultimo disco è Danzes (2013), summa musicale di 50 anni di carriera caratterizzato da numerose collaborazioni. «Sono fiero in particolare del pezzo con la banda di Locate Triulzi in cui suonano i miei ex allievi, con genitori e figli: tre generazioni, dai 12 ai 70 anni. É stato recentemente inserito anche in uno spettacolo su un libro di Aldo Nove».

Come si potrebbe definire il suo genere? «Non sono un musicista allineato e per questo difficilmente catalogabile. Forse mi posso avvicinare allo stile di un Ludovico Einaudi». Pur con la consapevolezza però che «fino a 30 anni fa c’era più interesse per la musica sperimentale, mentre oggi più riluttanza alle proposte di difficile ascolto», la situazione non sembra preoccupare più di tanto lui che, da sempre presente sulla scena italiana, prevede entro il 2016 l’uscita di un altro disco. Perché la cosa che conta di più è che «bene o male ho fatto il musicista. Per tutta la vita».

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