Maggio 1968: Jimi Hendrix sbarca in Italia per pochi concerti e qualche mese più tardi, a settembre, pubblica “Electric Ladyland”. Oggi, a 50 anni di distanza e in occasione della ristampa del disco, lo storico del pop-rock Enzo Gentile traccia una cronaca argomentata su una fase del chitarrista di colore che ha rivoluzionato la musica contemporanea.

Jimi Hendrix, continua la sua storia su Rai 5
Jimi Hendrix dal vivo

Non è la prima volta che Enzo Gentile affronta il caso Hendrix, anzi dal 1990 si sono susseguite diverse pubblicazioni ma nessuna aveva mai analizzato in maniera così dettagliata l’unico soggiorno italiano del geniale chitarrista di Seattle: «Mi è piaciuta l’idea di aver messo nel microscopio come un entomologo quella settimana italiana, inquadrando e contestualizzando esclusivamente quel momento. Naturalmente potendo usufruire anche del prezioso archivio di Roberto Crema che gestisce il sito Jimi Hendrix Italia e tiene da anni rapporti con numerosi collezionisti».

Come è stata vissuta dal pubblico nostrano la prima e unica esperienza italiana di Hendrix quando venne nel nostro paese nel maggio del ’68, mentre si ascoltavano in classifica canzoni come Zum zum zum, Luglio col bene che ti voglio e La bambola? «Mise piede in Italia il 23 maggio 1968 e se si considera che solo pochi mesi dopo si assisterà al primo allunaggio, in un certo senso si può dire che, all’inverso e con un anno di anticipo, sia sbarcato all’aeroporto di Malpensa “un alieno” o come fu definito “Il diavolo nero, il negro che suona la chitarra con i denti”, tanto più se pensiamo ad un’Italia ancora massivamente intrattenuta dai musicarelli, o da manifestazioni come il Festival di Sanremo, Canzonissima o il Cantagiro. A suffragare quella atmosfera extraterrestre giocavano anche alcuni titoli e testi delle canzoni di Hendrix, contrassegnati da elementi fantascientifici di cui era appassionato, a loro volta enfatizzati dal sound di un altro emisfero, anzi di un altro mondo. Non a caso la foto di Hendrix che scende dalle scale dell’aereo a Malpensa, scatto utilizzato per la copertina del libro, ben illustra questo fenomeno come in parte percepito dalle cronache del tempo».

Enzo Gentile, “Electric Ladyland” e la “Italian Experience” di Jimi Hendrix
Copertina del libro “Hendrix.The Italian Experience 1968” di Enzo Gentile e Roberto Crema (Jacabook, 2018)

I media di allora come accolsero l’evento “Hendrix”?
«Si consideri che il pubblico complessivo di tutti i concerti si aggirò intorno alle 3000 persone: se allora erano poche, oggi veramente un’inezia. D’altra parte quel pubblico era fatto di amici, conoscenti e compagni di scuola radunatisi col passaparola, non esistevano radio e tv private e tanto meno social e i giornalisti quasi non se ne accorsero. Un po’ perché non esisteva una stampa specializzata, i quotidiani avevano pagine dedicate allo spettacolo, alla televisione, al cinema e alla lirica ma non certo al pop rock in senso lato. Non furono pubblicati servizi specifici sul tour a parte rari casi (che presentiamo nel libro) e non abbiamo precise recensioni dedicate ai concerti, uscì solo qualche articolo di costume e alcuni reportage con i giovani che si accalcano per vedere questo chitarrista dai capelli afro.

Molte di più le fotografie di privati e artisti che all’epoca poterono più facilmente avvicinarlo – una quantità di materiale che nemmeno io sospettavo – rispetto a ciò che si trova negli archivi della tv di Stato: la RAI non credeva che quel tipo di produzione avesse una risposta significativa di pubblico. Non c’erano molti concerti in Italia in quegli anni e anche quei pochi non venivano seguiti: non mandarono troupe né per i Beatles nel 1965, né per i Rolling Stones nel 1967 e dunque nemmeno per Hendrix nel 1968, pertanto purtroppo, a parte qualche breve brano amatoriale, non abbiamo riprese “alternative”».

Nel libro vengono confermati alcuni aneddoti storici come l’incontro con Maurizio Vandelli a Milano a Villa Bodoni e smentiti altri leggendari come il joint con Patty Pravo. Documentandoti, cosa ti ha sorpreso di più scoprire?
«Ho parlato con molti personaggi che oggi sono grandi professionisti ma che all’epoca ancora erano semplici studenti appassionati di musica, i quali dopo aver visto il concerto di Hendrix decisero fermamente di seguire il suo esempio: Dodi Battaglia, Andrea Mingardi, Eugenio Finardi o Maurizio Solieri, che suonerà con i massimi cantautori italiani e persino un giovanissimo Carlo Verdone, che riporta la sua testimonianza nell’introduzione, tutta gente che davanti ad Hendrix venne come illuminata. Dalle dichiarazioni di tutti coloro che si sono avvicinati ad Hendrix  si delinea un’esperienza pari alla scintilla di un sacro fuoco: esercitò un’ispirazione, un magnetismo e una suggestione potentissima».

Enzo Gentile, “Electric Ladyland” e la “Italian Experience” di Jimi Hendrix 1
“Hendrix.The Italian Experience”© Archivio Roberto Crema – Per gentile concessione di Jaca Book

Data la qualità della sua strumentazione rispetto ad oggi e soli 4 album all’attivo o comunque in vita, in cosa è consistita la sua eredità musicale e qual è il motivo per cui lo ricordiamo ancora a 5 decenni di distanza?
«C’era una potenza che usciva anche da quei miseri amplificatori e da quegli strumenti che non ha paragoni: persino oggi, se vediamo i filmati di quel periodo, ci accorgiamo di come quel trio fosse un esercito sul palco. Senza dimenticare una serie di composizioni, per l’epoca molto avveniristiche eppure assolutamente comprensibili, che non a caso ancora oggi rimangono nella memoria. Stiamo parlando di musica rock con elementi blues e funky, una miscela assolutamente accessibile, eppure dal sapore avveniristico: è un equilibrio che hanno dimostrato di avere veramente pochi. Se riascoltiamo molte di quelle incisioni non sono datate, in quella musica c’è ancora un graffio, un ringhio ancora molto originale: non sembra che siano passati 50 anni».

Tanto che dopo 50 anni celebriamo anche Electric Ladyland, terzo e ultimo album della Jimi Hendrix Experience, pubblicato pochi mesi dopo il tour italiano, nel settembre 1968 e oggi ristampato. Secondo alcuni si tratta del miglior lavoro di Hendrix: che impatto ebbe quando uscì e cosa rappresenta nella sua discografia?
«Si ricorda per lo scandalo della copertina con Hendrix contorniato da ragazze svestite inizialmente censurata e poi pubblicata solo in alcuni mercati ma anche perchè fu uno dei primi album doppi, formato fino ad allora utilizzato solo da Dylan, Zappa e i Cream, mentre quello dei Beatles sarebbe venuto solo a novembre. Era una dimensione non proprio agevole per il mercato ma Hendrix volle coprire 4 facciate di vinile, peraltro nell’anno che segue il 1967 in cui erano già usciti altri due album per un totale di 4 LP in 15 mesi. Ebbe una produzione molto intensa ma mai a scapito della qualità, persino nei casi in cui andò a pescare nel repertorio altrui, reinventando, trasformando e metabolizzando brani secondo la sua chitarra al punto da non potersi nemmeno più definire cover, come All along the watchtower di Dylan, irriconoscibile rispetto all’originale.

Electric Ladyland coglie Hendrix in una fase evolutiva tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69 quando smembra gli Experience e pensa all’embrione di un’altra band – sul palco di Woodstock si presenterà con una formazione di sei elementi che però abbandonerà presto. Rappresenta un anello di congiunzione tra la prima stagione della Jimi Hendrix Experience e qualcosa che poi non avrà tempo di compiersi: dagli appunti che ci ha lasciato si scopre che avrebbe voluto fare un’altra musica, senza più replicare il solito repertorio in concerto, andando persino oltre le stesse improvvisazioni o i materiali più recenti. Si vocifera anche di tanti incontri e collaborazioni che avrebbero dovuto concretizzarsi con altri artisti: sono convinto che, se avesse potuto, da lì a qualche anno avrebbe sicuramente aperto un nuovo fronte nell’area del jazz o della musica più estrema».

Enzo Gentile, “Electric Ladyland” e la “Italian Experience” di Jimi Hendrix 2
La copertina definitiva di “Electric Ladyland” (1968)

La carriera postuma di Hendrix si è sempre posta in bilico tra operazioni commerciali e pubblicazioni d’archivio. Ad uno storico del pop rock chiedo: in che misura quella discografia ha arricchito di fatto la figura di Hendrix e quanto ha rappresentato un semplice sfruttamento d’immagine?
«Molti album come First rays of the new rising sun (1997) e altri non intaccano la sua immagine ma uscirono comunque senza la sua approvazione definitiva. Sapendo quanto un album come Electric Ladyland fosse stato rielaborato e rimuginato, tutto mi fa pensare che la maggior parte delle versioni pubblicate da fonici e ingegneri di fiducia nei dischi successivi, per quanto prodotti di qualità, non fossero idealmente qualcosa di definitivo. Qualsiasi brano può essere utile per allargare la conoscenza dell’artista, anche se di fatto non so quanto avremmo sentito la mancanza di molti di quei dischi: amo moltissimi live che sono stati pubblicati anche se non ritengo che dal punto di vista della storia di Hendrix fossero tutti indispensabili.
Con Hendrix in vita molto probabilmente molti demo e outtakes non sarebbero usciti o comunque lui ne avrebbe preso spunto per farci qualcos’altro, dato che spesso molte registrazioni accantonate venivano poi rielaborate e risistemate su nuovi progetti. Progetti però che avrebbe potuto pianificare solo Hendrix, rispetto a chi, pur con cognizione di causa, abbia solo interpretato ma senza quella chiave autorale che Jimi aveva sempre dimostrato di saper controllare benissimo, anche rispetto allo studio di registrazione. Bisognerebbe sempre pubblicare materiale d’archivio con una certa autocritica, domandandosi ogni volta: “C’è bisogno anche di questo?” Condivido sempre il piacere dell’ascolto e della ricerca, che non sempre però, per forza di cose, deve necessariamente tradursi in un prodotto».

50 anni fa nascevano i Led Zeppelin, una delle band cardine della storia della musica, sancita dal “matrimonio” del chitarrista Jimmy Page e del cantante Robert Plant. Luca Garrò, giornalista e critico musicale, indaga nel suo ultimo libro “Page &Plant” il rapporto e l’alchimia tra i due musicisti dai Led Zeppelin ad oggi.

“Page & Plant”: un matrimonio, dai Led Zeppelin ad oggi
Robert Plant e Jimmy Page dal vivo a Chicago, 1977

50 anni di Led Zeppelin dal loro debutto: cosa rappresenta oggi la band, soprattutto per le nuove generazioni?

«Quando si parla di rock credo che pochissime altre band oltre ai Led Zeppelin abbiano saputo dare una precisa immagine di questa attitudine. Dal 1980 hanno lasciato un vuoto forse pari solo a quello che hanno lasciato i Beatles. Non a caso negli anni ’70 sono stati un faro, così come lo erano stati i Beatles per gli anni ’60: e proprio quando i Led Zeppelin superarono in classifica i Beatles, quell’evento segnò il passaggio di un’epoca, portando di fatto anche un nuovo modello di business. Oggi chi si autoproduce si ispira a modelli raccontati sui libri ma all’epoca era l’esperienza degli Zeppelin fu assolutamente inusuale: Jimmy Page è stato il primo ad essere perfettamente consapevole di tutto ciò che voleva ottenere in studio e dal vivo, dando inizio ad un nuovo tipo di ricerca ancora vivissima per chiunque faccia musica, dai Black Crowes ai Greeta Van Fleet».

Nel libro però non si parla esclusivamente di Led Zeppelin ma più propriamente di Jimmy Page e Robert Plant, rispettivamente chitarrista e cantante. Perché loro due?

«Fino al 1980 la coppia è indissolubilmente legata ai Led Zeppelin anche se, quando tratto quegli anni, la band rimane comunque sullo sfondo. Mi ha interessato indagare piuttosto dalla fine degli anni ’60 ad oggi un rapporto che, come tutti quelli delle più grandi copie compositive del secolo scorso, è prima di tutto umano e solo di conseguenza artistico. Un rapporto appunto che, anche dopo la fine dei Led Zeppelin, non si esaurisce: anzi la parte più gustosa del libro dagli anni ottanta in poi, ad oggi quella meno studiata, trattando argomenti di cui io stesso ho sempre sentito poco parlare, come i contenuti di canzoni non necessariamente hit o il sottovalutato progetto Coverdale-Page. Le grandi biografie sugli Zeppelin aggiungono veramente poco dopo gli anni ’80 perché non sono libri su Page e Plant: la coppia però dal ’90 al ’98 ha dato ancora tantissimo, se non come prima certamente più di quello che solitamente si vuol far passare».

“Page & Plant”: un matrimonio, dai Led Zeppelin ad oggi 1
Robert Plant e Jimmy Page ad Amburgo nel 1973

Come definiresti il loro rapporto?

«“Matrimonio” è il termine utilizzato da entrambi durante diverse interviste. Un matrimonio costituito da una totale simbiosi: erano fusi al punto di esser indistinguibili, come potevano esserlo Lennon e McCartney. Page e Plant sono stati un unico nome per anni: e quando i due erano in simbiosi luci ed ombre erano perfettamente equilibrate nella musica dei Led Zeppelin. Poi questa simbiosi si è rotta inizialmente intorno al 1977, anno in cui la band comincia a tramontare prima ancora della fine ufficiale, proprio perché muta il rapporto tra Page e Plant. Lo si vede anche dalla discografia: Presence (1976) è un disco prevalentemente di Page e John Bonham, In through the out door (1979) più di Plant e John Paul Johnes, si riconoscono le anime. E quando si sciolgono anche quel nome si scinde, come testimoniato anche dalle rispettive carriere: Plant per diversi motivi negherà il mito degli Zeppelin; Page invece continuerà ad inseguire il fantasma della band, continuando a rimaneggiarne la discografia e tentando più volte di riformare il gruppo».

Sei riuscito ad intervistarli in occasione di questa pubblicazione?

«Page è un personaggio molto schivo, ha sempre rilasciato pochissime interviste e sempre con persone fidate. Soprattutto per quanto riguarda argomenti come l’esoterismo che teme possa essere banalizzato a livello di maghi, carte e candele. Ho provato a chiedere un’intervista più volte ma non ho mai avuto risposta. L’ho incontrato invece una volta casualmente sotto casa sua a Londra: quando è uscito dalla porta lo circondava un’aura magica come mi era capitato di avvertire solo con Bowie e pochi altri. Sono personalità che hanno qualcosa che va oltre l’essere star, si percepisce un’energia innata che ti oltrepassa, sensazione ancora più incredibile se pensi alla vita che ha fatto. Abbiamo chiacchierato un po’ di musica, è stato molto disponibile e cordiale: quei 20 minuti che abbiamo passato insieme sarebbero stati sufficienti a scrivere un articolo ma ho preferito tenere quel momento per me. Ho sfiorato Plant molte volte, l’ultima all’arena di Milano quando si è esibito con Ben Harper ma anche in quell’occasione saltò tutto. Ho conosciuto invece Jason Bonham quando è venuto in Italia con i Black Country Communion: mi piacerebbe invitarlo ad una presentazione del mio libro».

Per quanto riguarda i rapporti con l’Italia, dopo il disastroso evento al Vigorelli nel 1971 si scopre qualcosa?

«Quell’evento ha compromesso in maniera molto negativa il loro rapporto con il nostro paese: nel tour del 1980 arrivarono fino in Svizzera ma ci evitarono accuratamente e ancora per anni si sono rifiutati di venire in Italia, anche separatamente. Page fece per primo una comparsa come ospite al Pistoia Blues, mentre nel 1998 al Forum di Assago, l’ultima volta che Page e Plant si sono esibiti insieme, hanno suonare in quello che si può considerare il concerto mancato dei Led Zeppelin in Italia. Da allora solo Plant è quello che è tornato più spesso».

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“Jimmy Page & Robert Plant” di Luca Garrò (Hoepli, 2018)

Quale è stato il tuo lavoro sulle fonti del libro e che tipo di indagine hai svolto?

«La prima domanda è stata: cosa posso aggiungere io alla vicenda di musicisti di cui si parla da 50 anni? Non ho voluto scrivere un libro per i fan dei Led Zeppelin, che in quel senso forse sanno anche più di me, lasciando in secondo piano anche l’aspetto musicale e assecondando invece la mia deformazione professionale per la componente psicologica, indagando i rapporti umani e il perché di determinate azioni che hanno influito sulla vita e la carriera di queste persone.  Ho sempre amato le biografie ma non il gossip, prediligendo piuttosto vizi e follie o lasciando semplicemente parlare i fatti. Ad esempio riporto l’incontro di Page e Plant con William S. Burroughs, scrittore, saggista e pittore statunitense vicino al movimento della Beat Generation: dopo aver visto gli Zeppelin in concerto per la prima volta raccontò a Page quello che aveva visto e sentito, dandone una descrizione così profonda e ficcante che Page rimase sconvolto da quanto fosse riuscito a cogliere dentro la sua musica. Ho indagato questi ed altri episodi di cui ho sentito parlare ma che non ho mai trovato nei libri, intrecciando psicologia e curiosità nel tentativo di eviscerare qualcosa di inedito».

Restiamo alla psicologia: come descriveresti Jimmy Page?

«Per quanto il termine sia stato abusato lo definirei uno dei geni della musica popolare del Novecento, sicuramente dai primi anni ’60 al 1975: in quel periodo credo che nella musica non ci sia stato nessuno di paragonabile. Ho sempre amato il suo coraggio, è stato un innovatore che, proprio per questo motivo, ha sempre rischiato tantissimo. Fin da quando si mise alla ricerca di tre componenti per mettere insieme una band come gli Zeppelin, una visione incredibile che forse solo Hendrix ha avuto. Page è riuscito disseminare la sua anima in ogni assolo di quella musica esoterica, ha creato qualcosa che prima non esisteva e poi ha preso vita, è un atto magico: in questo senso Page è stato uno dei più grandi maghi del secolo scorso».

E Robert Plant?

«Non ti posso dire che anche lui sia un genio ma sicuramente è un puro secondo la filosofia hippie, tutt’oggi si definisce “un vecchio hippie”. È l’epigono di una determinata era che ha avuto il merito di portare nell’epoca moderna, l’eredità di Janis Joplin e della West Coast, del blues e di quella parte acida di San Francisco traghettandola dagli anni ’60 ai ’70: così come la stessa voce di Plant è quella che ha segnato gli anni ’70. Come autore è stato rivoluzionario introducendo tematiche fantasy ed esaltando la musica esoterica di Page: se abbiamo Tolkien nel 70% della musica metal anni ’80 è merito di Plant. A Plant, rispetto a Page, va riconosciuto il merito di aver continuato una ricerca che non è ancora finita. Anche se oggi non può più utilizzare la sua voce come un tempo in realtà non ha perso niente del fascino di 40 anni fa: non era la sola estensione il suo tratto distintivo. Credo potrebbe avere un finale di carriera come è stato per Johnny Cash. A parte icone come Mick Jagger e Freddie Mercury a sé stanti, sono esistiti altri animali da palco che a Plant si sono ispirati ma non certo che hanno fatto scuola come lui. Anzi come loro».

Collezionista d’arte, produttore discografico, autore di canzoni e anche scrittore: l’ultimo fortunato libro di Marco Rettani è quello in coppia a Beppe Carletti, fondatore superstite dei Nomadi, che ripercorre 55 anni di storia del gruppo tra aneddoti, curiosità, luci e ombre.

Io sono Marco Rettani e questo è il mio libro sui Nomadi
Marco Rettani, autore del libro “Questi sono i Nomadi e io sono Beppe Carletti” (Mondadori, 2018)

Arte, musica e letteratura tre professioni che ti qualificano: sapresti dare una classifica di questi interessi alla tua vita, ammesso che sia lecito?

«Sono elementi che fanno parte di un flusso che racconta la stessa storia. Sono figlio di un collezionista d’arte e da quando ho sfiorato l’era della ragione giro per mostre e frequento gallerie: quasi naturalmente, con i primi guadagni di una vita, ho dato inizio al collezionismo. Frequentando artisti è diventato poi naturale occuparsi e scrivere di arte. Quella è stata la matrice: scrivere poi di arte o di storie perché frequenti un ambiente artistico che te le ispira viene da sé: alla fine poi il mondo artistico è molto piccolo e si autofrequenta così come scrivere la biografia di Beppe Carletti dei Nomadi è stato naturale perché siamo prima di tutto molto amici».

Restiamo alla scrittura: in quale delle due dimensioni, autore e scrittore, ti senti di più a tuo agio oggi?

«Sono dimensioni diverse: scrivere un libro non è come scrivere canzoni e viceversa. In una canzone sei chiamato a sintetizzare in poche righe un racconto o una sensazione, con un libro devi essere iperdescrittivo per portare il lettore nel luogo dei fatti. Questo è il motivo per cui se sto scrivendo una storia o una biografia, non riesco a comporre canzoni: se ho la testa sulla stesura di un libro non riesco a dedicarmi ad un brano, devo scrivere in diversi momenti, altrimenti la scrittura “si inquina”. Dove mi trovo meglio? Scrivere strofe o ritornelli che poi senti passare in radio è una soddisfazione immensa e immediata oppure ascoltare una mia canzone cantata da 15.000 persone al Forum di Assago mi commuove ancora, non ci sono ancora abituato. Soddisfazione che non puoi avere invece da un libro, anche se dentro quel libro in realtà c’è molto più di te che in tre versi di canzone».

Riguardo il mestiere dell’autore 2.0 mi chiedo: non è alienante comporre un brano in maniera assolutamente dissociata tra più persone come accade oggi?

«Spesso posso permettermi anche di non farlo, ad esempio quando scrivo con le Deva con le quali c’è un’amicizia e anche uno scambio tale per cui nasca un pezzo da più mani e da una comunanza di pensiero e sentimenti. Sembra difficile da concepire che più usualmente invece esista chi si occupa solo delle strofe e chi dei ritornelli ma la maggior parte delle canzoni moderne sono frutto di queste partnership. D’altra parte non ha senso fare Don Chisciotte ispirandosi continuamente alle varie Generale di De Gregori quando il risultato è che la canzone non vende: occupandomi anche di produzioni discografiche ricordo sempre ai miei artisti, concretamente, che stiamo realizzando anche un prodotto che deve essere venduto».

Prima del libro sui Nomadi sei stato coinvolto nel disco Nomadi dentro (2017). Quale senti sia stato il tuo contributo più importante a questo disco?

«Il contributo più importante lo hanno dato loro a me! Scrivere canzoni contemporanee per le Deva è un conto, scriverle invece per i Nomadi dell’età contemporanea è altro. I Nomadi hanno un DNA che non hanno mai tradito da 55 anni: loro non dicono “Ti amo” ma “Ti porto a vivere”, non parlano di cieli e nuvole ma comunque cantano di sogni e misteri o di concetti tradizionali ma con altre parole. Scrivere con loro significa sedersi faccia a faccia con Beppe Carletti ed entrare in sintonia intuendo di persona come lui vuole che queste canzoni si ascoltino. Non sono testi standard e anche musicalmente non abbandonano mai quei suoni che li hanno accompagnati dagli anni 70, pur alla luce della tecnologia moderna. Sono sempre stati fedeli a se stessi sia negli strumenti che negli arrangiamenti. Beppe suona ancora la fisarmonica come pochi ancora oggi, un elemento che nella memoria collettiva si accomuna alle feste di piazza o alle balere, ambiente dove sono cresciuti i Nomadi. Da quelle balere in poi hanno scritto per loro Guccini, Lavezzi, per non parlare di Alberto Salerno con Io Vagabondo: sicuramente sono loro che hanno dato il contributo a me, più che io a loro (sorride)».

Restiamo ai Nomadi: come è avvenuta la stesura del libro Questi sono i Nomadi e io sono Beppe Carletti?

«Intanto siamo amici, quindi capita spesso di frequentarci e chiacchierare. Ovviamente per scrivere un libro bisogna darsi appuntamenti più disciplinati: comunque sia di fronte ad un piatto di pasta, nel salotto del suo studio a Milano o in compagnia di amici mi ha raccontato una vita disseminata di episodi, queste sono state le fonti del libro».

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Copertina del libro “Questi sono i Nomadi e io sono Beppe Carletti” (Mondadori, 2018)

Nel libro utilizzi l’espediente del ritorno in auto di Carletti dall’ennesimo concerto e la comparsa di Daolio come interlocutore per introdurre l’argomento: perché la scelta di questo espediente letterario rispetto ad una stesura più diretta e verace?

«Il libro non voleva essere una biografia, prodotto che poteva così risultare poco interessante. Mentre se letto come l’esperienza di Carletti che scende dal palco dell’ipotetico 5000esimo concerto nella consapevolezza che il mondo è cambiato e in 5 ore di macchina nel ritorno a Novellara si ritrova travolto dal nuovo mondo, ecco questa può diventare una chiave interessante. Mi piaceva l’idea di Beppe che si “collega” al suo amico Augusto Daolio, morto 26 anni fa quando ancora esistevano autografi e vinili, e al quale dice “qui si fanno i selfie”. In questo modo può ricordare quello che i Nomadi hanno vissuto dal 1992 ma anche quello che è stato il periodo con Daolio. In 55 anni tante sono state le tragedie, i successi, i ritorni, le eclissi: in questo modo il libro si può anche leggere per capitoli che riportano ad episodi, ad esempio la loro tournée americana o il primo Sanremo, passando per i momenti in cui qualcuno ha cercato di far sciogliere il gruppo o citando al contrario coloro che hanno contribuito a che i Nomadi ci siano ancora adesso».

Perché il questo titolo Questi sono i Nomadi e io sono Beppe Carletti?

«Carletti è tra i fondatori del gruppo insieme a Daolio ma dopo di lui il più anziano tra i componenti dei Nomadi oggi è entrato nel gruppo negli anni ‘80. Della formazione originale è rimasto solo Beppe. Una volta vidi Carletti alla fine di un concerto a Lugano presentare ad uno ad uno al pubblico i componenti della band e chiudendo il concerto anziché essere presentato a sua volta lui disse: “Questi sono i Nomadi e io sono Beppe Carletti”. Quell’espressione mi ha colpito molto. Inoltre nel libro si parla anche della vita di Carletti, che a sua volta parla dei vari componenti della “banda” come la chiama lui, una storia che persino gli attuali componenti della band non conoscevano a tutto tondo finora».

Cosa si scopre di Beppe Carletti e dei Nomadi di inedito e cosa aggiunge questo libro alla loro bibliografia?

«Molti libri sono compendi della loro storia ma non esistono libri che raccontano episodi della loro carriera e vita in questa maniera. Di inedito c’è quasi tutto: cosa è successo nella tournée americana quando andavano a fare baldoria per le strade di New York così come alcuni retroscena di altre manifestazioni come Un disco per l’estate o Il Cantagiro, svelando anche perché sono sempre stati un po’ “antipatici” a tutti, riuscendo sempre a sbagliare mossa. Un gruppo che nasce con Donna la prima donna, canzone che li porta alla ribalta seguita da Dio è morto, canzone subito censurata dalla Rai con la quale si danno la zappa sui piedi e la leggenda che Radio Vaticana non la censurasse o Canzone per un’amica (In morte di S.F.) che fu bannata quando, nel periodo del boom, era scomodo parlare di morte sulle autostrade. Un gruppo che oggi sbagliasse questi primi due passi sarebbe già nell’oblio. E invece poi sono tornati con Io Vagabondo, discreto successo nel 1972 ma poi passato nel dimenticatoio al punto da uscire dalle scalette dei loro concerti e poi, dopo la morte di Daolio ripescata col karaoke di Fiorello tornando ad essere dopo 20 anni un classico alla presenza di platee transgenerazionali di padri e figli, cosa ugualmente non scontata».

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Augusto Daolio, fondatore dei Nomadi

 Quale è stato l’aneddoto che non conoscevi e che ti ha emozionato di più?

«Il mio ricordo indelebile legato alla stesura di questo libro è il capitolo in cui Beppe racconta gli ultimi giorni di Daolio: eravamo in un ristorante, 4 persone in tutta la sala, compreso il cameriere che ci serviva e Beppe continuava a piangere commuovendoci tutti. Ha raccontato gli ultimi momenti di Augusto con una eleganza, una finezza e una partecipazione che solo un autentico amico fraterno può avere nonostante siano passati tanti anni. Mi emoziona ancora di più se considero le accuse che gli hanno mosso, cioè essersi appropriato del nome di Augusto dopo la sua morte per operazioni criticabili: al contrario, mi sento di dire che se Daolio oggi è un personaggio leggendario è perché Carletti non l’ha mai fatto scendere dal palco dei Nomadi in ogni esibizione. Mi ha toccato molto il fatto che Beppe abbia sofferto tantissimo queste critiche, persino da parte degli stessi familiari di Augusto. Probabilmente anche perché in un “piccolo mondo” come Novellara in Emilia le critiche pesano probabilmente ancora di più».

Il 2018 è ufficialmente l’anno del grande ritorno della Premiata Forneria Marconi sulla scena musicale: il successo di “Emotional Tattoos”, la recente nomina come migliore prog band dell’anno, un cofanetto per commemorare 48 anni di carriera e un nuovo tour per celebrare l’anniversario della storica esperienza con De André.

PFM, “The Very Best”: 48 anni in studio e presto dal vivo
Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, storici membri della Premiata Forneria Marconi

È davvero l’anno della PFM che non solo già si trova alla posizione n°50 nella Royal Rock Hall of Fame tra i 100 artisti più importanti del mondo ma ha recentemente conquistato anche il prestigioso titolo di “Migliore artista internazionale dell’anno” ai Prog Music Awards UK 2018, il contest internazionale dedicato ai maestri e alle nuove proposte della musica rock. Un premio che contribuisce a confermare il ruolo del prog rock a livello internazionale e l’attualità e la grandezza della band italiana più famosa al mondo, nata nel 1971 e tornata negli scorsi mesi sulle scene con l’album di inediti Emotional Tattoos. E dopo il successo dell’intenso tour mondiale che ha visto impegnata la PFM dal Giappone alle Americhe passando per il Regno Unito e l’Italia, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas hanno confermato la programmazione di un nuovo tour per celebrare il quarantennale dei live Fabrizio De André e PFM in concerto e i vent’anni dalla scomparsa di Faber: il primo appuntamento per rievocare il fortunato sodalizio è previsto per il 12 marzo 2019 a Bologna per poi proseguire sui palchi delle principali città italiane.

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Copertina del disco “Fabrizio De Andrè in concerto, arrangiamenti PFM” (1979)

«Fabrizio si trovava in Sardegna e una sera venne a vederci suonare: dopo il concerto passò a salutarci e nacque questa idea semplicemente chiacchierando – ha ricordato Franz Di Cioccio. Si è fidato di noi: poteva essere una catastrofe o un grande successo. Per questo l’anno prossimo renderemo onore a quello che è invece diventato un evento direi storico per la musica italiana». Prevista per l’occasione una formazione di 9 elementi che vede in squadra anche Michele Ascolese, chitarrista che ha accompagnato per anni De André e Flavio Premoli, tastierista fondatore della PFM e in più, per rinnovare l’abbraccio tra rock e cantautorato, alla scaletta originale saranno aggiunti anche brani tratti da La buona Novella (1970): «Fabrizio era molto legato a quel disco, diceva sempre che non era stato capito perché molti non avevano colto il suo riferimento alla figura di Cristo come il primo vero rivoluzionario». Dopo la prima tournée con De André erano stati pensati altri concerti insieme ma a seguito del rapimento di Faber non ci fu più occasione di riparlarne nel corso degli anni ‘80. E proprio riguardo gli anni ’80 Patrick Djivas svela un’altra chicca: «In quel periodo avevamo considerato anche la proposta di due grandi eventi da stadio, a Roma e Milano, con Lucio Battisti. Abbiamo portato avanti questa ipotesi per un po’ di tempo, ci siamo incontrati diverse volte alla sede della Numero 1 ma poi Lucio si è dedicato sempre più alla musica elettronica, disaffezionandosi al progetto che è sfumato».

PFM, “The Very Best”: 48 anni in studio e presto dal vivo 2
Copertina del cofanetto “PFM – The Very Best 1972 – 2018”

E come se tutto ciò non fosse abbastanza lo scorso 19 ottobre è stato pubblicato TVB – The Very Best, un compendio di 4 CD con musica, storie e immagini inedite per un viaggio nel mondo musicale della PFM, da Storia di un minuto (1971) a Emotional Tattoos (2017): Sandro Neri ha raccolto testimonianze e aneddoti, accompagnando il fruitore in una narrazione tra memorabilia e fotografie abilmente coordinate dal fotografo e critico musicale Guido Harari. I brani scelti testimoniano l’evoluzione e la poliedricità della band che ha fatto del continuo cambiamento la propria bandiera, sempre alla scoperta di un futuro musicale, ancora oggi principale obbiettivo, attraverso itinerari innovativi e ispirazioni raccolte in tutto il mondo, per un totale di oltre 6000 concerti all’attivo: «La tecnologia si è evoluta negli anni ma noi continuiamo ad evitare il supporto di computer dal vivo preferendo ancora l’improvvisazione e il contatto diretto col pubblico. Il senso di questa raccolta è sottolineare il valore della musica come strumento di aggregazione – ha affermato Franz di Cioccio – perché solo quando la ami senza discriminazione di genere ti tatua emotivamente. Come cantiamo anche nel nostro brano La danza degli specchi: la musica è un solo grande continente che possiamo solo scoprire».

E Patrick Djivas ha ribadito: «Il nostro sguardo è sempre puntato all’esplorazione, come nella copertina del nostro ultimo disco, con la voglia di essere contemporanei in tutte le epoche, perché crediamo che l’arte debba nutrirsi di esperimenti, non di consuetudini. Ogni nostro disco è un capitolo mai uguale al precedente perché la PFM ha sempre rappresentato il presente e il futuro, mai il passato. Mi ha sempre colpito l’aforisma di Thomas Edison “Il genio è per l’1% ispirazione e per il 99% traspirazione”: la musica è esattamente questo, motivo per cui non mi interessano le sterili sfide dei meccanismi televisivi dei talent. Non potrei mai essere un giudice, non ha senso “condannare” in termini musicali». Aggiunge Di Cioccio: «Suona quello che sei, non quello che vuoi sembrare: questo è il nostro consiglio e il principio che ci ha sempre guidato, proprio perché non abbiamo mai avuto l’ambizione di essere artisti di successo ma musicisti. Anche perché la parola “successo” altro non è che il participio passato del verbo “succedere”: e con questa nuova raccolta vogliamo solo raccontare “quello che ci è successo”». E riflettendo proprio su quello che è successo Djivas torna a ricordare anche il momento in cui abbandonò gli Area di Demetrio Stratos accettando l’invito di Di Cioccio e compagni: «Volevo essere musicista di mestiere per tutta la vita. Così un giorno, per superare il dubbio riguardo l’eventuale abbandono della band che avevo fondato, mi sono chiesto: quale di questi due complessi potrebbe consentirmi di esercitare questo mestiere per tutta la vita? Ho scelto la PFM e oggi sono qui».

In cantiere attualmente anche un nuovo disco in lavorazione, mentre a febbraio per la terza volta la PFM salirà a bordo della “Cruise to the edge” che partirà da Tampa, insieme alle più grandi prog band mondiali capitanate dagli YES.

La giornalista e musicista emiliana racconta la carriera discografica e personale di una delle coppie emblematiche della musica pop del secolo scorso: un’indagine su Simon & Garfunkel.

“Un ponte su acque agitate”: Simon & Garfunkel dalla penna di Eleonora Bagarotti
Claudio Fucci, direttore della VoloLibero Edizioni con l’ultima pubblicazione: “Simon & Garfunkel – Un ponte su acque agitate” di Eleonora Bagarotti (2018)

Eleonora Bagarotti, giornalista ed esperta musicale: perché un libro su Simon & Garfunkel?

«Anche se non si diventa ricchi scrivendo libri di musica, quello che più mi piace di questo mestiere è soprattutto condividere. E in base alla mia esperienza continuare a seguire un percorso senza steccati: ho semplicemente studiato musica sin da giovane, è diventata una professione a tutti gli effetti e continuo a studiare, iscritta al triennio superiore di percussioni classiche. E proprio presa dai miei studi stavo pensando ad un paio di proposte di altro genere da discutere con l’editore, poi è capitato casualmente che Paul Simon dichiarasse il suo ritiro dalle scene e mi sono dedicata a questo argomento».

Non una semplice biografia o testi commentati ma un vero e proprio saggio. Perché questa scelta?

«Esistono già tante biografie, anche in lingua originale, compresa l’ultima autobiografia di Garfunkel e di libri con testi tradotti ce ne sono fin troppi: in passato ne ho scritti tanti anch’io, quando ancora poteva soddisfare un’esigenza ma oggi con internet trovo queste pubblicazioni, con tutto il rispetto, sempre più “superflue”. Ho deciso invece di scrivere un saggio leggibile e abbordabile proprio per entrare nel merito musicale di certe composizioni pur senza risultare troppo critica o approfondita, perché il target a cui mi è venuto spontaneo rivolgermi è quello di mio figlio. Il mio obbiettivo è svelare alle giovani generazioni qualcosa di nuovo e regalare a chi Simon & Garfunkel già li conosce un momento piacevole, un’occasione per scoprire qualcosa di interessante o semplicemente invogliare i lettori a riascoltare un loro disco con altre orecchie».

Le fonti di questo sintetico saggio?

«Nella mia vita ho intervistato tre volte Paul Simon e due Art Garfunkel e ho creduto opportuno inserire nel libro le rispettive ultime due in ordine di tempo: l’ultima a Simon l’ho fatta a Londra, mentre l’ultimo incontro che ho avuto con Garfunkel è stato in un corridoio degli studi Rai a Milano, quando è recentemente venuto in Italia per delle performance soliste. Le trovo entrambe interessanti perché in quelle occasioni hanno riflettuto sul passato ma parlato anche del presente. La parte restante del libro è costituita da mie considerazioni riguardo ascolti dei loro dischi. Da appassionata di percussioni colgo e sottolineo in certi album, specialmente in quelli di Paul Simon da solista, dettagli e particolari notevoli, come le partiture di Graceland (1986) per marimba, uno degli strumenti che insieme al vibrafono e ai tamburi sto studiando. Si percepisce da queste pagine un trasporto a livello personale pur sempre evitando tecnicismi da addetti ai lavori».

Si scopre qualcosa di nuovo o inedito su questo duo?

«Sono una testimone in carne ed ossa di quegli anni in cui compravo i loro album nel giorno stesso della loro pubblicazione, quando entrambi erano ancora alla ribalta delle cronache, avendo avuto così l’opportunità di entrare “in tempo reale” nel merito di questioni direttamente legate a quanto stavano vivendo anche come uomini. Credo di essere stata una delle poche che abbia scritto della vita personale che accompagna la discografia e le scelte della carriera solista di Garfunkel. E quando mi occupo di certi album di Paul Simon è imprescindibile l’accenno agli anni complicati del rapporto e matrimonio lampo con Carrie Fisher, curiosità che forse non tutti conoscono. Il mio vuole essere un accompagnamento che spero faccia venire voglia di riascoltare le loro canzoni con maggiore attenzione».

“Un ponte su acque agitate”: Simon & Garfunkel dalla penna di Eleonora Bagarotti 1
Copertina del libro: “Simon & Garfunkel – Un ponte su acque agitate” (Vololibero, 2018)

Cosa ha rappresentato questo duo nella storia della musica e nella società dei loro tempi?

«Nella seconda metà degli anni ’60, quando ancora il folk di Bob Dylan era rappresentativo di un intero paese e di un certo tipo di impegno che accompagnava il cambiamento di una società, arriva sulla scena questo duo, trainato dalla creatività di Paul Simon: un nuovo cantautorato molto raffinato che continua a raccontarci l’America, però in maniera poetica e un po’ più disincantata, dalla grande popolarità goduta con Il Laureato in poi fino al concerto della reunion a Central Park nel settembre 1981, pochi mesi dopo la morte di John Lennon, un evento che in qualche modo segna come uno spartiacque la fine di un’epoca. Sono certamente diventati un’icona a loro modo in tutta l’America, anche se credo che un musicista e arrangiatore raffinato come Paul Simon meriti addirittura di essere studiato nelle accademie. Ad esempio Into the blue light (2018) il suo ultimo disco non è per tutti: chi è stato suo fan della prima ora e non ha chiavi di lettura più profonde potrebbe aspettarsi qualcosa di diverso, non è un album mainstream e nemmeno semplice, però certamente emblematico di tutta una sapienza musicale».

 

Dall’America all’Italia: nel tuo libro si cita il concerto del 2004 a Roma. Negli anni ’60, ancora ufficialmente in coppia, invece non vennero mai nel nostro paese. Come mai?

«Non saprei dire ma me lo sono chiesta spesso. A dire di molti colleghi qualcosa non funzionava probabilmente nei promoter o nella comunicazione all’epoca: è risaputo che quando vennero nel nostro paese i Beatles la Rai ritenne che non fosse necessario registrare i loro concerti, gli Who dopo un tour negli anni ’60 sono mancati in Italia per decenni, ci deve essere stata qualche ragione, probabilmente tecnica o legata agli sponsor. La biografia di Garfunkel non si sofferma su questo particolare, proverò a scavare meglio in quella ufficiale di Paul Simon che sto approfondendo in questo periodo. Sono spesso in America ed in Inghilterra per lavoro, quest’anno più che mai e spero di avere l’occasione di rivedere Paul Simon di persona per chiederglielo, magari a qualche conferenza sull’ambiente, tematica a lui cara».

Un aggettivo per Simon e uno per Garfunkel?

«Più che un aggettivo sarebbe appropriato un sostantivo: Paul Simon è un musicista nell’autentico senso della parola! Garfunkel è un interprete con la “I” maiuscola, nell’accezione che questa parola può avere anche nella lirica o nei musical dell’epoca d’oro di Broadway, dove l’interprete non è solo intonato ma uno strumento capace di trasmettere emozioni con un linguaggio suo. Dietro alle sue interpretazioni c’è un universo di analisi e talento unito al tentativo di trasmettere la parola alta di un compositore. Credo che Art Garfunkel sia stato un interprete paragonabile a José Carreras nella lirica, con le debite proporzioni».

Oltre al successo, cosa ha tenuto insieme questo duo nonostante tante separazioni e brevi ritorni negli anni?

«L’amicizia nata sui banchi di scuola: sono amicizie per cui anche se ci si perde di vista non c’è mai un addio, perché ogni volta che ci si risente si riscopre subito l’appartenenza dell’uno all’altro. Forse anche perché entrambi si sono conosciuti prima del successo, svelandosi reciprocamente in quella fase della vita aspetti umani che altri non potrebbero più riuscire a conoscere allo stesso modo e questo fa la differenza. Come mi ha confessato Garfunkel nell’intervista, loro semplicemente amano ancora andare alle partite insieme o chiacchierare come due amici».

Paul Simon ha dichiarato il suo ritiro dalla scene dopo l’ultimo tour: allora è proprio finita?

«Credo di sì: Simon a 77 anni sa ancora trasmettere tanto sul palco, lo abbiamo visto anche ad Hyde Park l’estate scorsa ma oramai ha fatto questa scelta. E comunque, con un velo di critica, purtroppo abbiamo altrettanto visto e applaudito con grande affetto le performance di Garfunkel che, a suo stesso dire, non è più quello di una volta. Garfunkel però tornerà a Londra nel 2019 e ha rinnovato l’appuntamento anche con i fan europei. Che dire? L’età è l’età. Ma tornassero in Italia io correrei sempre, il richiamo del cuore non ha età».

https://eleonorabagarotti.wordpress.com/

WikiPaola, La signora del Rock o semplicemente Paola Maugeri: 50 anni magnificamente portati, una carriera trentennale nel giornalismo musicale e un recente successo editoriale che dal 16 ottobre sarà anche uno spettacolo prodotto dal Teatro Menotti: ladies and gentlemen, “Rock And Resilienza”.

“Rock and Resilienza”: la filosofia rock di Paola Maugeri
Paola Maugeri fotgrafata da Cosimo Buccolieri

Rock And Resilienza, tuo ultimo libro pubblicato da qualche mese è alla sua 5° ristampa e continua ad avere un crescente successo, al punto che il prossimo martedì 16 ottobre debutterà al Menotti un tuo omonimo spettacolo. Da cosa credi dipenda questo successo?

«Forse dal fatto che nel mio libro celebro la musica come la più alta forma d’arte del creato. Torquato Tasso diceva che la musica è l’unica forma d’arte attraverso la quale l’anima torna al cielo e per me non esiste nulla di più evidente. La musica fa battere il cuore, in una parola sa emozionare: credo che questo libro sia amato perché fondamentalmente emoziona, ciò di cui hanno bisogno le persone, soprattutto quelle che amano emozionarsi attraverso la musica».

Dal punto di vista privilegiato del tuo mestiere, che valore senti attribuire socialmente alla musica oggi?

«Una delle scintille da cui è nato questo libro è stato constatare sempre più che la musica ultimamente continua ad essere privata del suo autentico valore proprio perché onnipresente, dai centri commerciali fino alle cabine degli aerei: se di una qualsiasi cosa ce n’è in abbondanza si smette di desiderarla ma soprattutto di rispettarla ed è quello che sempre più socialmente sta accadendo alla musica. Nel momento in cui il prodotto dell’arte di un musicista diventa un codice numerico chiamato file nelle mani di chiunque la musica è finita, perché non è più materica ma inesistente…e come si fa a dare valore a qualcosa che non esiste? Forse perché oggi ci si accontenta di immaginare, non a caso oggi è tutto sexting ma sono convinta che la musica, per essere apprezzata, debba essere ancora toccata. Io tutte le mattine col mio programma radiofonico, il mio libro e adesso con questo spettacolo porto avanti la mia personalissima battaglia nei confronti dell’algoritmo, faccio la mia parte».

“Rock and Resilienza”: la filosofia rock di Paola Maugeri 1
Paola Maugeri, fotografata da Giovanni Gastel per la copertina del libro “Rock and Resilienza”

Come ricordi “la prima volta”, l’evento o la canzone che ti ha aperto la porta al mondo della musica?

«La mia folgorazione si chiama Miles Davis. Fu una sorta di epifania: era il 1978, avevo 9 anni e vivevo a Catania, mio fratello stava guardando un film francese, io sono entrata nella stanza e ho detto “chi è in grado di comporre una musica così bella?” A 9 anni si sogna, che so, di andare sulla luna e io invece da quel momento sognavo di intervistare Miles Davis. “E che mestiere è intervistare Miles Davis?” si chiedevano i Miei sperando che quel pensiero prima o poi svanisse così come era venuto. E invece, anche se Miles Davis non l’ho mai intervistato, occuparmi di musica sublime è diventato proprio il mio mestiere. Dopo Miles è arrivato il rock: la prima volta che ho ascoltato Pale Blue Eyes dei Velvet Underground è stato come se una porta mi si fosse spalancata sull’incredibile».

Nello spettacolo parlerai di alcuni dei 1300 artisti che hai intervistato fino ad ora. Insieme a Miles Davis purtroppo però manca alla tua lista anche un altro dei tuoi miti, John Lennon, che avrebbe compiuto proprio lo scorso martedì 9 ottobre 78 anni. Quale è la domanda che tra tutte avresti voluto porre a Lennon se avessi potuto intervistarlo oggi?

«Credo che gli avrei chiesto se avesse avuto voglia di diventare Ministro della pace. La sua visione del mondo, il suo “sentire” è da sempre illuminante e per me oggi è quanto mai necessaria una figura spirituale intesa nell’accezione più nobile del termine, proprio come la sua. Si tratta di una persona che è stata capace di creare una bellezza come A day in the life, non è qualcosa che si può dare per scontato: quando riesci anche solo a immaginare una canzone del genere vuol dire che hai una capacità di percepire, una visione unica che gli altri non hanno. Uno che in tempo di guerra ha saputo parlare di pace meriterebbe un ruolo come ministro della pace. E poi sarebbe fichissimo vestito di bianco, non te lo vedi? (sorride

Resilienza: “Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”. A parità di chi non riesce a superare momenti difficili, come molte rockstar purtroppo mancate, diresti che si nasce o si diventa resilienti?

«Esistono resilienti di tutta una vita e resilienti di porzioni di vita: per molte persone quel continuo tentare può essere anche controproducente. Quello che conta è essere vivi per poter raccontare quello che si è provato. Nel mio libro porto l’esempio di Scott Weiland, cantante degli Stone Temple Pilots e uomo che ho amato moltissimo: lui ha provato un’infinità di volte a tirarsi fuori dalla dipendenza nella quale era caduto e alla fine ha ceduto. Però era un resiliente perché era un ragazzo di strada riuscito a manifestare il suo talento. Bisogna anche soffermarsi ad analizzare ogni caso senza banalizzare. Patti Smith mi ha detto una volta “siamo tutti resilienti” ed è vero: certo poi bisogna vedere cosa ciascuno riesce a ottenere dalla propria resilienza».

Premesso che avere successo non è un mestiere, oggi la musica rock è percepita dal grande pubblico più come cultura o intrattenimento?

«Assolutamente come intrattenimento, per questo ho ingaggiato la mia personale lotta culturale. Sono convinta che il rock debba diventare cultura, messaggio che sto cercando di diffondere cavalcando lo straordinario successo di “Rock and Resilienza”: si deve continuare a credere che possiamo cambiare il mondo seguendo anche esempi di rockstar che sono state e sono prima di tutto persone, non semidei, che ci hanno dimostrato che è possibile, anzi fondamentale».

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Paola Maugeri al Teatro Menotti con “Rock And Resilienza” in prima nazionale dal 16 ottobre

Come è nata l’idea dello spettacolo al Menotti definito da Emilio Russo “un viaggio interiore”?

«Un amico mi ha fatto conoscere Emilio Russo sostenendo che il mio libro dovesse diventare uno spettacolo, così ci siamo incontrati. Sai quando vai a quegli appuntamenti con la sensazione che la tua proposta sia quasi assurda? Bene, dopo soli 5 minuti Emilio era convinto. Io l’ho guardato e gli ho detto: “Ma non ti ho ancora convinto abbastanza…” Che dire? A volte, come dice Patti Smith, le stelle si allineano e le cose accadono».

In che vesti vedremo Paola Maugeri?

«Insieme a due attori sul palco racconterò, con un tocco di sicilianità e leggerezza, i momenti più divertenti e riflessivi della mia vita, gli incontri che me l’ hanno cambiata e la costante presenza della musica che mi ha sempre accompagnato in ogni circostanza. Il tutto in una maniera assolutamente estranea alla mia consueta comfort zone: niente storytelling, Emilio anzi ha voluto che ricominciassi a suonare il basso e che recitassi. Mi ero iscritta a Parigi nel periodo in cui frequentavo la Sorbona ma avevo 19 anni. E 31 stagioni dopo eccomi all’alba del mio debutto: quando hai dei semi dentro il cuore fioriscono in tempi che non puoi prevedere».

“La vita è l’arte dell’incontro” diceva Vinícius de Moraes. A distanza di anni incontri me che in questa intervista ti chiedo: cosa diresti oggi a quel commissario della scuola di giornalismo che, imprevedibilmente, ti disse “lei non entrerà in questa scuola perché le manca la curiosità”?

«Che mi ha salvato la vita. Ora magari anziché essere qui a parlare con te farei la giornalista in un sindacato o non so cosa sarebbe potuto accadere. Quella comunque era la mia passione, volevo fare la giornalista, poi la vita ti porta altrove: è stato un miracolo».

“La musica mi ha regalato il mestiere più bello del mondo. Mi ha donato un sogno e mi ha permesso prima di inseguirlo e poi di realizzarlo, viaggiando e incontrando i suoi protagonisti”: Paola Maugeri non avrebbe mai potuto essere altro rispetto a ciò che è oggi?

«Per come sono andate le cose direi di no. Avrei potuto insegnare filosofia, quello mi sarebbe piaciuto. Probabilmente perché, a conti fatti, mi interessa l’animo umano. E di fatto alla fine mi sono ritrovata a sondare l’animo umano attraverso una precisa categoria, i musicisti. A 9 anni volevo intervistare Miles Davis, i Miei pensavano che mi sarebbe passata quella strana idea e fortunatamente non è stato così. Ora, dopo averlo scritto in un libro, sono pronta a raccontarvelo anche da un palco. Perchè anche il teatro è resilienza».

Lo scorso 2 ottobre è stato il compleanno di Sting mentre i suoi Police hanno compiuto 40 anni quest’anno: quale occasione migliore per ripercorrere una delle avventure discografiche più significative della cultura pop? Il libro di Giovanni Pollastri è sicuramente un buon pretesto per conoscere dettagliatamente i Police dalle origini ad oggi.

Tutto sui Police: “Many miles away” di Giovanni Pollastri
The Police: Andy Summers, Sting e Stewart Copeland

Era l’ottobre del 1978, quarant’anni fa, quando veniva pubblicato Outlandos D’Amour, primo album di una nuova band emergente inglese che pur atteggiandosi in maniera punkeggiante, secondo la moda del tempo, nascondeva in realtà ad un ascolto più attento gusti e influenze più raffinate, tra punk-rock, reggae e jazz, sintetizzate in un inedito sound di qualità. In Italia i Police divennero forse non popolari ma sicuramente più famosi dal successivo Reggatta de Blanc (1979), trainato da un classico come Message in a bottle: da allora, durante la loro carriera ma anche dopo lo scioglimento, il numero dei loro fan in tutto il mondo, Italia compresa, continua a crescere ogni anno.

Tra coloro che li hanno amati da subito anche il giovane Giovanni Pollastri che dalla fine degli anni ’70 ha collezionato, letto e ascoltato molto, comprese numerose interviste, letteralmente seguendo “ogni respiro” dei tre musicisti inglesi: gestendo la fanzine “Illegal tales” ha avuto la possibilità di essere aggiornato con informazioni dettagliate sui release della Universal potendo così pubblicare appunto nel 2005 Illegal Tales: The Police 1977-2005  e nel 2011 Shape Of My Heart: Sting – testi commentati. Senza contare poi che nel corso degli anni, in qualità di musicista, discografico e consulente musicale, ha avuto persino il privilegio di diventare prima collaboratore e poi amico personale di Sting, Andy Summers e Stewart Copeland. Il tesoro di esperienze maturate con i tre ha permesso a Pollastri di avere a disposizione materiale sufficiente per una nuova biografia sulla band, The Police. Many miles away: il testo, pubblicato lo scorso giugno in occasione del quarantennale, è orientato non solo a ricostruire semplicemente una vicenda biografica ma a valutare soprattutto cosa abbiano lasciato alla storia della musica i Police dal 1977 a oggi.

Tutto sui Police: “Many miles away” di Giovanni Pollastri 1
“The Police. Many miles away” di Giovanni Pollastri

Con vera dovizia di particolari, citazioni e foto si comincia proprio da quei lontani giorni del 1977, analizzando poi i cinque album in studio che ne hanno decretato il successo planetario fino al 1983, anno a partire dal quale l’indagine interessa le carriere soliste di Stewart Copeland, Andy Summers e naturalmente Sting, tutti progetti artistici che non sono mai stati approfonditi e sviscerati prima d’ora come in questo volume. Non solo: Pollastri tocca eventi intrecciati alla sua vita personale, come il concerto tenuto da Sting l’11 settembre 2001 nella sua tenuta in Toscana, momento toccante sia dal punto di vista umano ma anche storico, oppure accenna i racconti di Andy Summers, musicista di lunga data contemporaneo di Hendrix e degli Stones, fino a svelare il genio di Copeland, appassionato batterista e percussionista dotato di un amore e interesse sfrenato per la sperimentazione musicale, sempre guidato dall’ambizione di imparare e reinventarsi, senza limitarsi alla fama di “batterista dei Police”. Un testo fondamentale per comprendere il percorso e le motivazioni che hanno portato Sting a fare la famosa telefonata, citata in apertura del libro, per riunire i Police nel 2007 in un tour mondiale di centocinquanta concerti, attraverso momenti emozionanti e curiosi, compresa la data a Torino il 2 ottobre 2007.

Più si legge più viene da chiedersi, soprattutto dopo quella reunion: Sting, Andy Summers e Stewart Copeland torneranno ancora una volta a esibirsi insieme? Per ora stanno proseguendo le rispettive carriere soliste ma, come è già accaduto una volta, niente sembra vietare questa ipotesi caldeggiata da vecchi e nuovi fan. E se anche così non fosse resterà la loro musica e la soddisfazione di aver letto un saggio esauriente, sia per i più accaniti estimatori che potranno scoprire ancora particolari inediti, sia per le nuove generazioni di ascoltatori, magari meno esperti sui Police ma ancora attratti a distanza di anni da quel sound inconfondibile, accompagnati nella lettura attraverso le tappe discografiche di Sting e soci in maniera semplice e curiosa ma allo stesso tempo approfondita.

Nando Mainardi narra il percorso artistico di Jannacci in un interessante inquadramento storico e critico, conciliando l’aspetto “schizo” e quello lirico nel principio dell’esagerazione. L’autore emiliano racconta sfaccettature, curiosità e contraddizioni di un emblematico artista milanese vicino alla sensibilità degli esclusi.

“L’importante è esagerare”: Mainardi racconta Enzo Jannacci
Alcune copie de “L’importante è esagerare” di Nando Mainardi (Edizioni Vololibero, 2017)

Sei già stato autore della biografia Jannacci, il genio del contropiede (2012). Quale è stata la scintilla per la stesura di questo nuovo libro?

«Il genio del contropiede era una breve e agile biografia scritta in un periodo in cui ancora si conosceva pochissimo del percorso artistico di Jannacci, di cui mi sembrava utile mettere in evidenza alcuni momenti. Con questo nuovo libro invece c’è il tentativo, più pretenzioso, di provare a narrare con più ritmo e vivacità di scrittura la vicenda artistica di Jannacci, come una storia nella quale conta tanto il protagonista quanto il contesto storico-culturale composto da altre figure che, con lui, hanno condiviso una fase significativa nell’evoluzione della canzone, della comicità e del modo di fare spettacolo in Italia. Solo alla luce di questo contesto si può capire come Jannacci sia stato tanto in prima linea rispetto a numerosi fenomeni artistici quanto un innovatore senza eguali, portando aspetti totalmente anomali. É stato un viaggio nella bibliografia precedente, a partire dal fondamentale saggio di Gianfranco Manfredi di fine anni ’70, fino alle pubblicazioni più recenti e naturalmente fonti di archivio giornalistico, più una serie di chiacchierate con suoi colleghi delle stagioni del cabaret».

Niente agiografia ma un uomo raccontato il più umanamente possibile: quali sono stati i suoi meriti artistici riconosciuti?

«Fu una personalità assolutamente complessa ma unica: né prima né dopo di lui esiste qualcuno di paragonabile nel mondo dello spettacolo e della canzone. Aveva una capacità magica e goffa di toccare contemporaneamente i tasti dell’ironia e del dramma, pratica assolutamente inedita nel periodo del cantautorato anni ’50. Tenco, Paoli, Gaber e Lauzi già stavano cambiando il modo di cantare e in questo quadro di stravolgimento Jannacci riesce a risultare ancora più stravolgente: sul palco si dimena a scatti come un burattino mattoide cantando canzoni gracchianti e tragicomiche, surreali ma drammatiche e per di più  senza riferimenti precisi ad una tradizione, insomma quanto di più lontano dalla modalità sanremese. Stesso elemento che si ritroverà anche nel suo contributo alla comicità, quale trascinatore creativo della grande stagione del cabaret milanese di fine anni ’60, superando lo stile barzellettiero da avanspettacolo con un gusto quasi beckettiano, che diventerà poi di massa negli anni ’70».

Una carriera che, come tante, ha avuto alti e bassi creativi: oltre alle luci quali sono le ombre?

«A parte qualche episodio di popolarità come Vengo anch’io no tu no (1968) o Ci vuole orecchio (1980), rimase quasi sempre un fenomeno di nicchia, non ha mai venduto tanti dischi, così come dal punto di vista televisivo e cinematografico è sempre rimasto un po’ al palo rispetto alle sue scoperte o ai suoi “allievi”. Forse perché legato ad alcuni tempi, modalità espressive e un senso del comico difficilmente spendibile in quei contesti. Jannacci ha avuto una carriera molto lunga con diversi cicli creativi, fasi di ispirazione e di stanchezza, soffrendo in particolar modo i cambiamenti avvenuti negli anni ’80 nel mondo discografico, soprattutto per chi, come lui, cercava di proporre un certo tipo di canzone. Il rischio del creativo inquieto è sempre quello di perdersi senza legarsi in maniera esclusiva ad un settore: era eclettico ma questo aspetto paradossalmente lo indeboliva senza permettergli di trovare un suo spazio».

In termini di immaginario collettivo, oggi quale delle diverse immagini di Jannacci si è imposta di più?

«L’immagine che si impose subito fu quella legata al tormentone transgenerazionale Vengo anch’io no tu no, cosa che non entusiasmava Jannacci. Anzi fu spesso fonte di insofferenza e incazzature perchè si sentiva percepito solo come una macchietta. Quel personaggio stravagante d’altra parte non poteva non colpire l’immaginario collettivo di un pubblico che conosceva anche la sua altra professione di medico. E non a caso proprio dopo il successo di Vengo anch’io Jannacci ebbe una crisi artistica, professionale e forse anche umana, tanto da ritirarsi per qualche anno all’estero dedicandosi quasi a tempo pieno a fare il medico, pur rimanendo occultamente autore e regista di Cochi e Renato. Ciò però non ha impedito che, negli ultimi anni della sua vita, venisse chiamato maestro, riconosciuto come uno dei maggiori esponenti della canzone d’autore italiana. Pur sempre con qualche riserva: nel libro ad esempio cito dettagliatamente il caso del concertone del 1° maggio nel 2005, quando venne fischiato sul palco di piazza San Giovanni a Roma».

“L’importante è esagerare”: Mainardi racconta Enzo Jannacci 1
Nando Mainardi, “L’importante è esagerare” (Vololibero, 2017)

Perché la scelta del titolo “L’importante è esagerare”?

«La canzone L’importante è esagerare (1985) è stato il mio punto di partenza. Lo trovo un titolo pertinente sia perché lo stesso Jannacci riteneva quel refrain significativo rispetto al suo percorso artistico – tanto che fu anche intitolato così uno speciale televisivo a lui dedicato alla fine degli anni ’80 – sia perchè io stesso lo ritengo uno slogan che ben rappresenta l’essenza di Jannacci, il cantautore più esagerato della canzone italiana. E spiazzante: lo trovavi esattamente sempre dove non avresti mai pensato di trovarlo e al contrario puntualmente non lo trovavi dove te lo saresti aspettato. Penso alla sua insolita presenza a Sanremo alla fine degli anni ’80 oppure a Beppe Viola, suo storico sodale, che in un’intervista dichiarò: “Se la notte di capodanno Jannacci venisse chiamato a cantare davanti ad una platea distratta e ingioiellata sicuramente proporrebbe una serie di canzoni sui bambini poveri”. Ogni episodio della sua carriera porta in sé questo senso della dissonanza nel dare o dire sempre al pubblico ciò che non si aspetta: in qualsiasi contesto Jannacci poteva sembrare esagerato».

“L’importante è esagerare”: Mainardi racconta Enzo Jannacci 2
Nando Mainardi, autore del libro “L’importante è esagerare”

Tanti gli aneddoti e le testimonianze nel tuo libro. Se avessi potuto intervistarlo durante la stesura quale sarebbe stata però, tra tutte, la curiosità che ti saresti voluto togliere o la conferma di una tua certezza?

«Avrei voluto chiedergli de Gli Zingari, brano visionario e poetico ma minore, presentato in una edizione di Canzonissima. Una canzone che Jannacci non ripropose più in vita sua, probabilmente per delusione. Non so però quanto mi avrebbe confessato: spiegava poco nelle interviste, talvolta non ricordava neppure le parole delle sue canzoni, persino quando le cantava in concerto. La ricchezza di Jannacci comunque non si trova in un’intervista ma solo ascoltandolo».

C’è una canzone, tra tutte, che può essere considerata il manifesto di Jannacci?

«Da L’Armando a Vincenzina e la fabbrica a La fotografia Jannacci ha sempre assorbito elementi di cambiamento e li ha rielaborati secondo la sua poetica. Sicuramente però occupa un posto particolare El portava i scarp del tennis (1964): fu il primo successo discografico che lo fece conoscere al pubblico e la canzone che cantò fino all’ ultima apparizione dal vivo, passata nella storia della cultura italiana come controcanto alla retorica del boom economico della seconda metà del secolo scorso. Proprio in quella Milano ottimista e progressista del boom, Jannacci racconta in maniera tragicomica la storia di un barbone poteva anche morire di freddo tra l’indifferenza dei milanesi: un elemento emblematico in effetti, che va oltre l’ascolto di una semplice canzonetta».

A chi è rivolto questo libro?

«A chiunque volesse conoscere qualcosa di più di un piccolo ma rilevante pezzo di storia del nostro paese: tra i tentativi eroici e collettivi di cambiare alcuni tasselli dell’arte, dello spettacolo e della canzone da parte di un manipolo di artisti, comici, saltimbanchi e cantautori che sfidarono il conformismo, scoprirà anche il contributo e la personalità esagerata di un certo Enzo Jannacci».

A vent’anni dalla scomparsa di Lucio Battisti Hoepli pubblica un volume per celebrare il popolare cantautore attraverso curiosità, interviste e testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto e vissuto. Lo scrittore sannita Donato Zoppo torna a raccontare il musicista di Poggio Bustone.

“Il nostro caro Lucio”: vademecum su Battisti a cura di Donato Zoppo
Donato Zoppo, giornalista, scrittore e autore del libro “Il nostro caro Lucio” per Hoepli

Per quanti siano i suoi detrattori resta innegabile che da metà anni Sessanta alla sua scomparsa nel 1998 Lucio Battisti, tra i protagonisti e gli innovatori della musica italiana subito dopo Domenico Modugno, abbia rivoluzionato ed evoluto la nostra canzone aprendola a contaminazioni e influenze straniere, dal rock alla musica etnica, dalla disco music ad un pop elettronico colto e unico nel suo genere, esplorando e sperimentando letteralmente fino a che gli fu possibile, in una progressiva e irreversibile solitudine. In questi giorni, nella triste ricorrenza del ventennale della morte, tra nuove ristampe di CD e vinili, arriva sugli scaffali delle librerie anche un nuovo volume sulla vita e le opere di Battisti, ad arricchire la bibliografia sul compositore di Poggio Bustone, tra vecchie interviste e più recenti testimonianze di coloro che hanno avuto l’occasione di incontrarlo durante il suo percorso creativo e umano.

Lo scrittore in questione è il sannita Donato Zoppo, già autore di un libro su Battisti (Amore, libertà e censura. Il 1971 di Lucio Battisti, Aereostella, 2011), accurata disanima tra archivi giornalistici d’epoca, pubblicazioni critiche e interviste volte a ricostruire quel clima tra sperimentazione e censura del periodo relativo all’uscita di Amore e non amore (1971), soprattutto in Rai. Già in questo saggio monografico dedicato all’album emerge la cura e l’interesse di Zoppo per il contesto storico entro il quale calare e valorizzare la vicenda battistiana, nella cui indagine, nel tentativo di capire in che misura un disco come Amore o non amore sia da considerarsi prog, trovano spazio anche piccoli scoop come quello sui discussi orientamenti ideologici di Battisti.

“Il nostro caro Lucio”: vademecum su Battisti a cura di Donato Zoppo 1
“Il nostro caro Lucio” (Hoepli, 2018)

Nuovamente con questo appassionato spirito indagatore e profondo Zoppo compone, o meglio ha composto Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana, pubblicato lo scorso 7 settembre, ultima accurata biografia umana e professionale di Battisti, dal quadro storico-geografico della campagna reatina nella quale nasce e cresce, passando per le prime esperienze come chitarrista e poi compositore, dai primi applauditi “classici” con Mogol, agli LP audaci come Anima Latina o Images fino ai brani inquieti, sfuggenti e per lo più incompresi di Panella e agli ultimi tristi giorni a Milano.

Le fonti e le testimonianze di coloro che hanno conosciuto o collaborato con Battisti sono numerose con l’unica mancanza, in questo quadro generosamente composito, proprio dei più attesi ricordi di Mogol e Panella, molto probabilmente non disponibili a partecipare. Risultato è comunque una scrupolosa sintesi della biografia battistiana, ben contestualizzata, che non aggiunge però grandi novità o prospettive inedite sul cantautore, seguendo uno stile cronologico e poco incline ad entusiasmi o elogi gratuiti ma sicuramente capace di mettere in rilievo i reali meriti del reatino nel panorama musicale italiano. Lodevole e sicuramente considerevole in questo senso il tentativo di illustrare e ricostruire le motivazioni che hanno portato a determinate certe scelte artistiche, sottolineando la vena innovativa e sfiorando i segreti di una personalità complessa e imprevedibile seppur largamente apprezzata.

Unico neo di questo bel ritratto la congestione di informazioni, citazioni e note discografiche graficamente presentate in schede e boxini di approfondimento che destabilizzano una lettura coerente e lineare favorendo piuttosto, probabilmente secondo le intenzioni, una lettura dettata più dalla curiosità. Dalle pagine si delinea così la figura di un uomo enigmatico che, tanto più oggi, ha lasciato parlare la sua opera concedendo solo una manciata concerti e apparizioni televisive e rifiutando molte interviste. Forse perché, come lui stesso amava alludere e in qualche modo ribadire sempre più consapevolmente con la sua calcolata assenza nel corso della sua carriera, “l’artista non esiste, esiste la sua arte”.

Il libro di Zoppo, primo titolo della nuova collana Hoepli Storia della canzone italiana – I protagonisti, curata da Ezio Guaitamacchi e dedicata ai grandi della nostra musica leggera, è sicuramente indicato per tutti coloro che, neofiti o ammiratori, desiderino consultare un testo completo per comprendere l’opera e la personalità di una delle pietre miliari della nostra canzone.

Tre giorni dedicati anche quest’anno alla musica indipendente italiana: dal 28 al 30 settembre a Faenza puntuale la nuova edizione del MEI – Fatti di Musica Indipendente. Un bilancio col patron Giordano Sangiorgi nell’intervista di Musica361.

MEI 2018: Giordano Sangiorgi e la rivincita della musica indipendente
Giordano Sangiorgi, fondatore del MEI

Il MEI è la più importante manifestazione di fine estate dedicata alla scena musicale indipendente italiana da quasi 25 anni. Fin dalla prima storica edizione il MEI ha rappresentato un vero trampolino di lancio per artisti indipendenti poi diventati veri pilastri delle nostre classifiche dagli Afterhours ai Bluvertigo, dai Marlene Kuntz ai Baustelle, dai Negramaro ai Marta sui Tubi, fino a premiare emergenti oggi considerati punte di diamante del nostro nuovo panorama musicale come Ermal Meta, Lo Stato Sociale, Ghali, Zibba, Mirkoeilcane e Motta. Dopo aver assegnato il Premio Speciale MEI ai Lacuna Coil e il Premio Artista Eclettico dell’Anno a Gio Evan, è stata annunciata anche la prossima consegna del premio PIMI 2018 dedicato all’artista indipendente dell’anno ai The Zen Circus “per la loro carriera ventennale all’insegna della coerenza e della continua ricerca di qualità musicale e testuale all’interno del circuito indipendente fin dal primo album About Thieves, Farmers, Tramps and Policemen (1998, con il nome The Zen)”. Al MEI verrà assegnato per la prima volta quest’anno anche il PIMI Extra/Progetti esclusivi a La mia generazione di Mauro Ermanno Giovanardi, album che ha visto la partecipazione di molti ospiti illustri: «Un appassionato omaggio culturale e non solo artistico alla scena indipendente/alternativa italiana degli anni ’90 base essenziale e imprescindibile», ha specificato Giordano Sangiorgi, fondatore e direttore del MEI.

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Gli Zen Circus

2018: qual è oggi la situazione della musica indipendente in Italia?

«Molto significativa in termini di produzione e classifiche: la musica indipendente è riuscita a conquistare più di un terzo nel mercato musicale in Italia e nel mondo. Tante sono le produzioni nate grazie agli investimenti del “made in Italy da casa”, sempre più spesso piccole etichette, grande elemento culturale e commerciale insieme che bisogna continuare a valorizzare e supportare al massimo. Qualitativamente, rispetto alla dimensione indipendente di un tempo, ci sono stati radicali cambiamenti: gran parte dell’odierna scena IT POP ha oggi origine da quella indipendente in esponenti come Calcutta, colui che, sconosciuto, aprì il MEI 2015 a Roma quando festeggiammo i 20 anni, parallelamente ai successi del nuovo percorso cantautorale indie rock di Motta. Sono artisti che hanno contribuito a svecchiare la musica del nostro paese, mettendo all’angolo produzioni mainstream per proporne nuove più capaci di intercettare il gusto dei giovani. E per i giovanissimi il periodo è ancora più fecondo se si pensa ad artisti che producono vera musica di rottura con la nostra generazione, sia dal punto di vista musicale che dei contenuti, col risultato di invogliare quei teenagers che sembravano interessati solo ai cuochi a presenziare invece a migliaia di concerti. E proprio premiando Ghali abbiamo riscontrato che molti giovani si stanno riavvicinando alla musica grazie anche ad artisti del mondo hip hop, rap e trap».

Il MEI però è da sempre rock oriented: come se la passa l’indie rock e non a caso nell’annata di un anniversario come il ’68?

«Dopo 50 anni il rock complessivamente sta subendo un arresto per motivi di natura economica, diminuendo le vendite di chitarre, bassi e batterie e privilegiando il mondo virtuale a quello sociale, compresa l’inclinazione da parte degli artisti di vendersi come singoli artisti piuttosto che come band, assecondando così l’economia dei gestori dei locali in termini di spazi e costi. A queste motivazioni si aggiunga un invecchiamento biologico del rock che vede la generazione sessantottina come dinosauri, una forma di resistenza partigiana della musica: bisogna rassegnarsi al fatto che oggi esistano nuovi partigiani che hanno voglia di innovare ancora di più. C’è insomma un inevitabile calo di interesse e se oggi il rock classico non è proprio sepolto, come si profetizzava a metà degli anni ’90, è stato merito della spinta indipendente americana, inglese e di tanti italiani che ne hanno rinvigorito l’ossatura fondamentale come Omar Pedrini, Manuel Agnelli o anche gli Zen Circus che rappresentano oggi un nuovo gruppo di riferimento».

“Indipendente” oggi ha ancora il significato di “duri e puri contro ogni logica di mercato purché fedeli a se stessi”?

«Mentalità superata (sorride). Oggi i giovani producono sperando di misurarsi subito con i grandi palchi, se un artista indipendente va a Sanremo non ci sono più le polemiche di un tempo, da questo punto di vista si è diventati per fortuna molto laici. É dignitoso suonare ovunque purché con identità e coerenza: l’importante è non inciampare in compromessi che possano minare il proprio percorso, altrimenti si è destinati a diventare un prodotto plasticato mainstream di breve durata. Questo è l’elemento nel DNA dei talent: le Lollipop ad esempio dove sono finite? Ha fatto più carriera chi ha seguito una scena indipendente fatta di autoproduzioni e live mangiando la polvere, rispetto a chi ha cercato la scorciatoia del talent. E questo è un fatto».

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Mauro Ermanno Giovanardi

Talent show e realtà indipendenti: qual è il rapporto oggi?

«Apprezzo molto coloro che rinunciano a partecipare ad un talent perché dimostrano coraggio e coerenza. Apprezzo però anche Manuel Agnelli che ha scelto di diventare giurato portando all’attenzione di un pubblico nazional popolare la realtà del rock indipendente alternativo per molti ancora sconosciuto. Il talent show è un programma televisivo che si occupa di far circuitare canzoni e autori di quelle case discografiche interessate a quel tipo di programmi ma che – dati alla mano – per il 97% dei casi sono poi disinteressate alla carriera di coloro che vincono. Ho visto penalizzati giovani artisti indipendenti di talento che hanno avuto, a mio avviso, un piccolo “danno” proprio per essere emersi in quel contesto. Come accade a Sanremo quando, per certi versi, sarebbe quasi meglio arrivare ultimi o ricevere il premio della critica».

Cosa la rende più orgoglioso tra i traguardi raggiunti dal MEI in questa edizione?

«Sicuramente aver realizzato un gradissimo festival con un budget fino a 25 volte minore rispetto a quelli più noti in Italia pur posti allo stesso livello. E poi aver tenuto sempre l’attenzione esclusivamente sulla scena indipendente ma senza chiudersi in recinti o nicchie, rappresentando un polo attrattivo rispetto alle nuove leve. Anche se siamo nell’era di YouTube, per capire in anticipo e dal vivo quali siano le novità tra i giovani bisogna ancora venire al MEI: è riscontrato ormai che da noi, un anno o sei mesi prima, si scopre sempre qualcosa o qualcuno che poi si ritrova a distanza di tempo nel panorama artistico nazionale».

Un consiglio per chi ancora oggi sogna di vivere di musica, magari indipendente…

«Essere al 50% artisti e al 50% imprenditori di se stessi. Rispetto agli ultimi 15 anni c’è stato un calo delle risorse dell’industria discografica pertanto è sempre più fondamentale capire come ottenere i propri diritti sia di autore che editore tra royalties e dischi privati, come rimanere sul mercato attraverso i meccanismi dei social in modo da avere un ritorno in termini di utenti per poi vendersi ai live, offrire sempre proposte migliori considerando le regole che cambiano e partecipare a bandi impensabili per un’artista fino a 20 anni fa ma che oggi invece sono essenziali. Bisogna avere “genio e regolatezza”: siamo in una grande epoca di transizione nel mondo musicale, cambieranno ancora e più spesso i modelli di diffusione, di distribuzione e di consumo compresi i live, così come è accaduto al concetto di produzione abbinato ad un supporto fisico che oggi viene meno. É la vittoria delle autoproduzioni sulle major, come alle origini del punk quando si autoproducevano le cassette: è in qualche modo la rivincita della musica indipendente».

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