Martina Beltrami e le sue “Luci accese” sul mondo dei sentimenti
Quattro chiacchiere con la giovane cantautrice piemontese, fuori con il suo singolo d’esordio intitolato “Luci accese”
Si intitola “Luci accese” il singolo che segna il debutto discografico di Martina Beltrami, una delle protagoniste della diciannovesima edizione di “Amici” di Maria De Filippi. Il brano, disponibile in rotazione radiofonica e negli store digitali a partire dallo scorso 12 giugno, mette in luce quelle che sono le caratteristiche vocali ed autoriali della giovane artista di Rivoli.
Questo esordio è arrivato esattamente come te lo immaginavi?
Sì, anzi, molto meglio. Non mi aspettavo nulla in realtà, non avevo in programma di partecipare ad “Amici”, non avevo dei progetti veri e propri. E’ stato un qualcosa di molto grande, inaspettato ed emozionante.
Esserci nonostante tutto, in una società fondata un po’ su principi individualisti, quanto pensi sia importante comunicare un messaggio come quello della tua canzone?
Molto importante, soprattutto in questo periodo, bisogna cercare di mantenere una luce accesa per qualsiasi persona abbia fatto parte della nostra vita. A chi vogliamo bene, a chi non sentiamo più per motivi stupidi, secondo me è fondamentale, perché da soli si fa davvero tanta fatica. Ho la fortuna di avere alle spalle una famiglia e tante persone che mi vogliono bene, ma credo sia importante non chiudere porte in faccia a nessuno.
Anche per semplificare le cose, a volte tendiamo a complicarci la vita da soli…
Esatto, anche se non è facile, anche se la ferita è ancora aperta, fondamentalmente dobbiamo farlo in primis per noi stessi. D’altronde, se i sentimenti sono sinceri credo che non spariscano mai, piuttosto possono evolvere e diventare qualcos’altro.
Coltivi altre passioni oltre la musica?
Guarda, sono molto appassionata di arte, di qualsiasi tipo di forma. Ho frequentato il liceo artistico, ho sempre disegnato, mi piace. Fin da piccola ho sviluppato la mia creatività in vari modi.
Che bambina sei stata?
Tranquilla, curiosa e divertita. Della mia infanzia ho bellissimi ricordi, ho la fortuna di avere un fratello maggiore, di essergli cresciuta appiccicata. Con lui ho condiviso e scoperto tante passioni ed è stato sempre lui ad iscrivermi a mia insaputa ai casting di “Amici“, non posso far altro che ringraziarlo.
A che punto del tuo percorso hai incontrato la musica?
In quinta elementare, ci proposero di suonare il flauto dolce, ma a me non piaceva, ricordo che mi misi a piangere come una disperata (ride, ndr). Col tempo mi sono accorta che non era poi male, così sono passata al flauto traverso, continuando a suonare fino a che non ho incontrato la necessità di cantare e di scrivere testi.
C’è un artista che senti particolarmente vicino e che reputi per te un riferimento?
Beh, senza ombra di dubbio Elisa, lei per me è la descrizione di paradiso. Oltre che d’ispirazione artistica, lo è anche dal punto di vista umano, la stimo davvero molto.
DJ Matrix: “Tutti abbiamo bisogno di un po’ di spensieratezza”
Intervista all’artista vicentino classe ’87 in occasione dell’uscita del nuovo album, anticipato dal singolo “Faccio la brava” con Cristina D’Avena e Amedeo Preziosi
Tra i disc jockey più amati dal popolo della notte e più seguiti dall’esercito del web troviamo Matteo Schiavo, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Dj Matrix. Si intitola “Musica Da Giostra vol. 7” il nuovo progetto discografico pubblicato lo scorso 19 giugno, anticipato dal singolo “Faccio la brava”, realizzato in compagnia di Cristina D’Avena e di Amedeo Preziosi. Un brano che regala momenti di inenarrabile e irrinunciabile spensieratezza, soprattutto in un momento storico come quello attuale, in questa particolare fase di ripartenza, in cui ciascuno di noi necessita di una bella boccata d’aria e di un po’ di sana leggerezza.
Il deejay ai tempi del Coronavirus, pensi sia cambiata la percezione del divertimento da parte delle persone?
Durante il lookdown molti deejay meno conosciuti hanno avuto la possibilità di mettersi sullo stesso piano degli altri facendo le dirette, un canale che ho utilizzato anch’io e che mi ha molto stuzzicato. Abbiamo creato una pagina che si chiama “La musica non si ferma”, cercando di tenere compagnia attraverso i social. Per il futuro, secondo me, tutto dipenderà dalla situazione lavorativa e dall’approccio. Al di là delle sorti dell’economia, credo che la gente abbia già recuperato la voglia di stare insieme, anche se si temeva che questo virus potesse in qualche modo allontanare le persone, invece si è riscoperta tanta umanità. Quando ripartiranno le discoteche, lo faranno in maniera nuova e pulita.
“Faccio la brava” irrompe sul mercato in un’estate decisamente diversa, quali sensazioni e quali stati d’animo ti piacerebbe riuscire a trasmettere attraverso questo pezzo?
Rubo una frase di Cristina: “tutti abbiamo bisogno di un po’ di spensieratezza”, penso che questo sia il brano giusto per incarnare questo concetto. E’ divertente, mette allegria, tocca note molto felici, anche non scontate. La sua voce, poi, ha donato al pezzo una vera e propria magia, mentre lo ascolti torni bambino, rivivi indirettamente la tua infanzia. Diciamo che il subconscio prende una bella botta quando sente la voce di Cristina D’Avena.
Cristina è un idolo per intere generazioni, con questo brano si è messa ancora una volta in gioco in una veste inedita. Cosa ti ha più stupito di lei?
Proprio questo suo rimettersi sempre in gioco, su mille fronti. E’ una persona che sa osare, che ha voglia di far vedere tutte quante le sue sfaccettature, senza perdere mai di vista ciò che la rende grande e unica nel suo genere. La cosa che più mi stupisce di lei è questo desiderio di divertirsi e, di riflesso, di far divertire. Cristina è super attiva, molto più di me, nel suo lavoro mette sempre grande passione ed è un’inguaribile perfezionista. Si è subito buttata a fare video su Tik Tok, penso di non aver mai visto una persona che è entrata così rapidamente in un social riscuotendo un successo del genere. Gran parte del merito è suo e di Amedeo, loro sono entrambi due macchine da guerra.
A proposito di infanzia, che bambino sei stato?
Un bambino solitario, non sono mai stato il ragazzo da compagnia, da parchetto. Ho sempre voluto costruire, fino all’età di dieci anni i miei migliori amici erano i Lego (sorride, ndr). Ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi hanno sempre tenuto lontano dalla televisione, quindi sono cresciuto con le matite e i giocattoli in mano, questo mi ha permesso di sviluppare la mia creatività. Se avrò un figlio farò di tutto affinché possa avere lo stesso tipo di crescita.
No, vabbè, quello sì, avevo una mezzoretta di tv al pomeriggio, che combaciava con la messa in onda di “Bim bum bam”. I cartoni animati penso di averli visti praticamente tutti, da quelli più da “femminuccia” come Sailor Moon o Mila e Shiro a quelli più estremi in senso contrario, come Dragon Ball o Ken il guerriero. Mi appassionava molto anche City Hunter, ma ho guardato sempre davvero di tutto.
Nell’album è presente una tua personale rivisitazione de “L’isola che non c’è”, quanto ti senti Peter Pan da uno a dieci?
Dieci, assolutamente. Quando litighiamo la mia ragazza mi ripete spesso “quando crescerai”, mentre quando siamo in pace mi dice che essere rimasto un po’ un eterno bambino è la mia fortuna. Quindi, diciamo che rappresenta sia il lato migliore che quello peggiore di me.
A proposito di “Musica da Giostra”, sei più un tipo da montagne russe o da brucomela?
Da montagne russe, anche se possiedo una mentalità diversa rispetto a quello che si può pensare di un deejay. Magari tanti miei colleghi hanno come obiettivo quello di suonare e riempire posti enormi, mentre il mio è quello di mettere su famiglia ed essere felice con la mia compagna. La casa dei sogni è arrivata, due giorni prima del lockdown, in più dovrei sposarmi a settembre. Uso il condizionale perché stiamo aspettando di capire come evolve la situazione, avere come ricordo del matrimonio le fotografie degli invitati che indossano la mascherina è una cosa che non voglio. In più, mi sposerò solo se mi sarà consentito di baciare la sposa.
Vincenzo Mollica: “L’incanto ha a che fare con la bellezza”
A tu per tu con il noto telecronista che, attraverso il suo appassionato racconto, ha saputo celebrare il mondo dello spettacolo a 360°
Non ama il termine “intervista”, preferisce chiamarla conversazione, lui che di questo genere di chiacchierate ne ha racimolate a migliaia nel corso della sua intraprendente carriera. «Cosa dovrei fare?» chiede, «dare seguito ad alcune domande» rispondo. Comincia così il mio dialogo telefonico con Vincenzo Mollica, abituato a porre interrogativi piuttosto che a generare risposte. «Non credo che la mia vita sia poi così interessante» afferma, ma chi si affaccia oggi a questo mestiere non è della sua stessa opinione. In un’epoca lavorativa in cui ci sono in giro pochi maestri, Vincenzo resta un esempio di onestà, competenza, anti-esibizionismo, professionalità, correttezza, curiosità, accuratezza, generosità, umanità e gentilezza.
Come si diventa Vincenzo Mollica? Ovvero un cronista che in tutto ciò che ha raccontato è riuscito a metterci sempre cuore e passione
E’ una domanda a cui non so rispondere, se non dicendoti che nel mio lavoro ho cercato di essere me stesso fino in fondo. Di metterci tutta la passione, la curiosità e la fatica che serviva per farlo bene. La voglia di scoprire nuove storie, di incontrare persone che potessero raccontarmi qualcosa di interessante e di utile, prima per me stesso e poi, soprattutto, per chi mi ascolta.
D’altronde Vincenzo Mollica ci sei diventato tuo malgrado, nel senso che non mi hai mai dato l’impressione di qualcuno che ha sgomitato per arrivare…
No, io non appartengo a quella categoria di sgomitatori (sorride, ndr). Fin da ragazzo mi piacevano il cinema, la musica, il fumetto, la letteratura, la pittura e la fotografia. Ho avuto la fortuna di occuparmi degli stessi argomenti da adulto, attraverso il mio mestiere e la mia professione. Da questo punto di vista, è come se avessi studiato fin da piccolo quello che volevo fare da grande.
Senza peccare mai di esibizionismo…
Pensa che per i primi anni non mi si vedeva quasi mai, o molto raramente, perché per me è sempre stato più importante il racconto, non ho mai messo la mia figura al centro. A parte qualche collegamento, non ho mai fatto i cosiddetti controcampi, perché mi ritenevo al servizio di chi avevo di fronte, nulla di più.
Ti si è visto quasi sempre di spalle, come si è evoluto nel tempo il tuo rapporto con la telecamera?
Non si è evoluto (sorride, ndr), fino a quando sono andato in pensione mi si è visto di spalle. A livello di inquadratura bisognava far vedere che il giornalista c’era. Una quinta a volte era necessaria, altrimenti poteva sembrare un servizio preconfezionato da terzi. Oppure per un collegamento in diretta, tipo sul balconcino di Sanremo dove, invece, svolgevo il ruolo di inviato.
Non era un vezzo il non farmi vedere, una ritrosia o una timidezza, era un mio modo di essere e di pensare. In questo genere di conversazioni c’è un solo un protagonista, il mio dovere era fare delle domande che mi portassero ad avere risposte interessanti e sincere. Il giornalista è un cronista e non un giudice, per cui non ho mai amato le interviste inquisitorie, soprattutto per quanto riguarda il mondo dello spettacolo e della cultura.
Qual è l’aspetto che più ti affascina nel raccontare storie?
Riuscire ad approfondire il senso dell’avventura umana. In quanto telecronista mi sono sempre reputato un cercatore e un narratore di storie, oltre a tutto ciò che questo mestiere porta con sé: la verità dell’interlocutore, la curiosità del fatto accaduto, l’emozione che quella stessa conversazione ti può dare. Quindi, cercare di raccontare il più possibile quello che hai vissuto nella maniera più sincera e vera.
Tra le storie che non avresti mai voluto raccontare, immagino ci sia questo particolare momento storico, il virus e tutte le sue conseguenze. L’informazione è stata un po’ criticata, quale ruolo ha ricoperto secondo te?
Sai, per raccontare questa terribile pandemia, non è che siano cambiate le regole del nostro lavoro, son sempre le stesse: andare, capire, conoscere e raccontare. Ho una grandissima ammirazione per i colleghi che si sono dati sul campo, cito Giuseppe Lavenia del Tg1, un ragazzo molto bravo che con grande generosità, altruismo, forza e verità racconta da tre mesi quello che sta accadendo.
Qual è la funzione dell’arte in questa ripartenza?
La funzione dell’arte l’abbiamo vista, fin da quando la gente aveva voglia di uscire sui balconi e dare segno che la vita continua. Tutti gli artisti che si sono messi insieme per combinare qualcosa, per scrivere e raccontare in musica questa situazione, per trasmettere solidarietà e sentirsi parte della stessa causa.
Un tuo pregio è sicuramente la correttezza, altrimenti non si spiegherebbero l’amicizia e la fiducia che hanno riposto in te attori, registi, cantanti, musicisti, poeti e fumettisti. In che modo sei riuscito a scinderesempre il lavoro dalla vita? Le notizie dalle confidenze personali?
In questi ultimi vent’anni, tanti diversi editori mi hanno chiesto di scrivere un libro con le mie memorie, la mia risposta è sempre stata negativa. Ho soltanto il titolo: “Prima che mi dimentichi di tutto”, per il resto sono solo pagine bianche. Perché ci sono chiaramente momenti di intimità in cui il tuo interlocutore ti confida qualcosa, chiedendoti di non riportarlo. Devi rispettare quella confidenza che ti è stata fatta, perché attiene al rapporto fiduciario che ti lega a quella determinata persona.
Mi reputo molto fortunato, Federico Fellini mi ha fatto un grande regalo nel donarmi la sua amicizia, come lui anche altri, ma non mi è mai passato per la testa di raccontare le loro confessioni private e personali. Non c’è un qualcosa di programmatico, non esiste una scienza, in questo caso ci deve essere solamente più coscienza. La scienza ti serve per sapere tutto dell’interlocutore che hai davanti, per potergli fare le domande giuste, mentre la coscienza sta nel rispettare una confidenza fino alla fine.
Se dovessi spiegare cos’è il Festival di Sanremo ad una civiltà aliena, quali parole utilizzeresti?
Una grande festa popolare, in cui si specchia un Paese intero, che da la dimostrazione di quanto sia importante la forma canzone per il racconto di quello stesso Paese. Evidentemente in quella gara di canzoni, oltre al piacere della musica e delle parole, c’è anche una narrazione storica. Se prendi in esame qualsiasi edizione passata, trovi sicuramente dei pezzi che ti spiegano il sentimento che si viveva in quel preciso momento. Sono sicuro che anche nel prossimo Festival di Sanremo, tutta questa rinnovata solidarietà si respirerà sul palco dell’Ariston.
Sei stato inviato della kermesse per la Rai dal 1981 allo scorso febbraio, da “Per Elisa” a “Fai rumore”. C’è un’edizione che ricordi particolarmente e una vittoria che ti ha commosso?
Guarda, l’edizione che ricordo e che ricorderò particolarmente è l’ultima, con Amadeus e Fiorello. Oltre ad aver creato un grande spettacolo, è stata un bella prova di amicizia l’uno nei confronti dell’altro. Poi c’è stato un momento personale che mi hanno voluto regalare entrambi, è stato molto emozionante per me, non mi era mai capitata una cosa di questo genere.
Sai, ho vissuto tutte le evoluzioni del Festival, sicuramente due protagonisti assoluti sono stati Pippo Baudo e Mike Bongiorno. Quando sono arrivato la prima volta a Sanremo c’era Gianni Ravera come direttore artistico. Gli chiesi che qualità dovesse avere una canzone per entrare a far parte del suo cast, lui mi rispose in modo molto diretto e semplice: “deve essere come una bella pisciata, liberatoria”.
Ecco, è stata una lezione che non ho mai dimenticato. Per quanto riguarda le vittorie, sai, non sempre corrispondono con le canzoni che ho più amato del Festival. Quelle che reputo speciali a livello personale, sono: “Piove” di Domenico Modugno, “Che sarà” dei Ricchi e Poveri e, infine, sicuramente “Vita spericolata” di Vasco Rossi.
Circondarsi di bellezza è un privilegio, tu hai voluto soffermarti sulle cose che più ti piacciono, tralasciando tutto il resto. Una scelta controcorrente se consideriamo l’andazzo odierno. Come pensi sia possibile che si critichi qualcuno che parla bene valorizzando una determinata cosa, piuttosto che indignarsi di fronte a chi parla ripetutamente male e tende invece a distruggere quella stessa cosa?
Di questo argomento che mi proponi, onestamente, mi sono sempre preoccupato poco, non mi è mai interessato molto. Ognuno fa le scelte che vuole nella vita, seguendo la prospettiva che desidera. Parlar male per professione non è mai stato il mio mestiere, sotto un profilo culturale lo reputo un esercizio narcisistico. Ho avuto la fortuna di crescere con una nonna che mi ha sempre insegnato a vedere il bicchiere mezzo pieno, mi viene in mente una sua frase che mi ripeteva spesso: “Vincenzino, ricordati di seguire e di occuparti delle cose che rimangono”. La grandezza dell’arte sta nell’emozione che riesce a trasmetterti, alla fine è un po’ come se tutti gli artisti fossero dei grandi illusionisti, l’incanto ha a che fare con la bellezza.
Quindi, a dispetto della famosa battuta di Fiorello, in tutti questi anni non ti è mai partita la “sciabbarabba”?
Direi proprio di no (ride, ndr). Quella del pupazzo è stata una grande invenzione di Rosario, quando me l’ha proposta ho accettato di doppiarlo senza esitare. Quel linguaggio è stato pensato e concepito da lui, in maniera molto precisa, io ho aggiunto qualche invenzioncina, perché quando si gioca è bello giocare insieme.
Circa vent’anni fa hai condotto per tre edizioni “Taratata”, un programma che avevi definito la casa della musica di qualità. In Italia è durato quattro stagioni, in Francia lo stesso format va avanti dal ’93. E’ una mia impressione o nel nostro Paese c’è sempre meno spazio per l’intrattenimento creato ad arte?
Sai, quella fu un’esperienza molto felice che realizzammo con Bibi Ballandi, alla conduzione con me c’era Natasha Stefanenko. Abbiamo avuto momenti irripetibili, ad esempio una puntata dedicata al filosofo Manlio Sgalambro e alla poetessa Alda Merini, oppure un’altra in onore di Franco Califano e Gabriella Ferri. Poi, piano piano, succede che le cose finiscono, i direttori di rete cambiano e vengono prese altre scelte.
Personalmente avevo alle spalle una bella esperienza con il Primo Maggio, che avevo condotto per ben quattro anni. Insomma, ho avuto la fortuna di fare tante cose che mi piacevano, ma non ho mai fatto l’abbonamento sui ruoli che ricoprivo. Ho sempre mantenuto come base fondamentale il mio lavoro da telecronista al Tg1, il resto che mi proponevano se era bello lo facevo altrimenti declinavo l’invito ringraziando. In più ho avuto la possibilità di proporre una rubrica tutta mia per ben ventidue anni.
“DoReCiakGulp!”, che hai portato avanti fino allo scorso febbraio, ogni sabato alle 13.50. Un appuntamento fisso per tanti italiani…
Si, è vero. Dopo la messa in onda dell’ultima puntata, nella quale mi congedavo dal pubblico, sono arrivati molti segnali di affetto per questa rubrica che chiudeva dopo così tanti anni.
In conclusione, se dovessimo riassumere la tua vita in un verso, quale sceglieresti?
Sceglierei un piccolo aforisma. Man mano che sto perdendo la vista sto usando molto Instagram, una nuova realtà che mi permette di esprimere in breve quello che mi passa per la testa. E’ un modo per raccontare chi sono, apparentemente giocando, ma sempre con la sostanza di ciò che penso.
Cercare un verso mi riporta alla mia infanzia, quando leggevo “Il corriere dei piccoli”. Mi piace questa forma di espressione a tratti fanciullesca, che può portare con sé tante riflessioni in due semplici righe in rima. Quindi, se dovessi fare un riassunto di quello che ho combinato fino ad ora, direi: “Omerico non fui per poesia… ma per mancanza di diottria”.
Zic: “La musica? Un bellissimo salto nel buio”
Quattro chiacchiere con il giovane artista toscano, fuori con il suo secondo album intitolato “Smarties”
Riparte da “Smarties“ Lorenzo Ciolini, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Zic. Un lavoro maturo e qualitativamente interessante, che arriva a due anni di distanza dal disco d’esordio “Faceva caldo“ e dalla partecipazione alla 17esima edizione di “Amici” di Maria De Filippi. Anticipato dal singolo “Top level“, l’album è arricchito dalla presenza di quattordici tracce, prodotte dallo stesso artista toscano e da Pio Stafanini.
“Smarties”: un titolo impegnativo, soprattutto di questi tempi. Credi ci sia un estremo bisogno di dolcezza?
Credo semplicemente nei sentimenti espressi da questo disco, stiamo attraversando un momento particolare, sia a livello umano che lavorativo. Alla fine, penso di aver trattato concetti che esulano dalla musica di oggi. Bene o male, tendo a far tesoro di diverse esperienze che riverso nel mio lavoro. Credo che la mia musica abbia un valore ma non saprei dirti di preciso quale, non penso sia nemmeno il mio compito.
Cantautore e produttore, come convivono in te queste due anime?
Benissimo, perché alla fine hanno bisogno l’una dell’altra. Prima avevo solo la chitarra, la voce e il mio modo di scrivere per esprimermi, adesso ho un mondo immenso di suoni dal quale posso attingere. Dedicarmi al 100% a quello che sarà il risultato finale, mi permette di abbattere dei grossi limiti e dei muri che, se avessi ricoperto uno solo di questi due ruoli, molto probabilmente non sarei stato in grado di oltrepassare.
Un cantante con cui ti piacerebbe collaborare e un artista che vorresti produrre?
Il primo nome è sicuramente Cosmo, nei suoi lavori trovo sempre una grande poesia musicale. Poi ce ne sono tantissimi altri, apprezzo molto Francesca Michielin, ma la lista sarebbe veramente infinita. Alla fine credo che la risposta valga per entrambi i ruoli. Gli stessi artisti che stimo per un duetto mi piacerebbe poterli anche produrre, penso che sia una cosa abbastanza reciproca.
Un mix tra passato e presente, credi che la tua musica possa rappresentare una sorta di anello di congiunzione tra la precedente e l’attuale generazione?
La mia vita è segnata sia dalla musica del passato che da quella del presente, entrambe coesistono e hanno grande valore per me. Oggi è tutto diventato più veloce, ogni giorno esce qualcosa di nuovo che, quasi sempre, mi stupisce perché riesco a trovare sempre delle piacevoli scoperte. L’avvento della tecnologia ti permette di attingere da qualsiasi tipo di genere proveniente da ogni posto del mondo, per cui è più facile essere portati a creare nuove fusioni. D’altra parte, sono affascinato dal modo in cui si faceva musica negli anni ’70 e ’80, l’idea di partenza era il suono. Dal punto di vista produttivo e lavorativo mi sento molto vicino a quel mood.
In “Smarties” racconti la tua vita come in un diario, ci sono delle pagine che hai voluto lasciare fuori, custodire gelosamente, o pensi di esserti aperto al 100%?
In tutta franchezza, penso di aver dato le pagine più profonde e più belle di questo diario, ciò che ho scartato è semplicemente quello che mi entusiasmava meno. Ho cercato di essere il più sincero possibile, nel modo più semplice, perché penso che i dettagli e le piccole cose siano in assoluto le più importanti.
La musica è sicuramente una compagna di vita, ti ha dato tanto ma, al tempo stesso, ti ha mai tolto qualcosa?
La musica può essere abbastanza violenta a volte, le dedichi tempo e passione ma non sei mai sicuro che questo impegno ti possa portare a dei risultati concreti. Ho ventitré anni, sono un ragazzo giovane, come altri sto attraversando una fase della vita in cui comincio ad avere delle necessità. La voglia di potermi staccare da un determinato tipo di ambiente, aver bisogno di una certa libertà e di una certa indipendenza. Nascono anche sensi di colpa nei confronti della propria famiglia, perché comunque parliamo di scelte importanti. Personalmente la vivo come una sorta di bellissimo salto nel buio.
Un gioco per cui vale la candela, immagino..
Beh sì, se sei uno che come me non può farne a meno, sicuramente vale la candela. So perfettamente che se decidessi malauguratamente di abbandonarla la mia esistenza non sarebbe di certo la stessa. Sai, è come attraversare una tempesta ed accorgersi di essere arrivati al punto di non ritorno, il momento in cui realizzi di avere come unica alternativa quella di andare avanti a vele spiegate in mare aperto, perché ormai non ti è più possibile tornare indietro al tuo porto sicuro.
Emanuele Aloia, l’arte e la letteratura spopolano su Tik Tok
Intervista al giovane cantautore torinese, fuori con il suo nuovo singolo intitolato “Il bacio di Klimt”
E’ un momento davvero fortunato per Emanuele Aloia, artista classe ’98 che ha fatto del proprio interesse nei confronti dell’arte la sua personale cifra stilistica. “Il bacio di Klimt” è il singolo diventato virale su Tik Tok, per poi conquistare la vetta delle classifiche di Spotify, facendo incetta di views su YouTube. Un successo più trasversale che generazionale, merito di una ben rodata poetica che affonda le proprie radici nell’ispirazione, grazie a varie citazioni provenienti dal mondo della pittura, come Edgar Degas e lo stesso Gustav Klimt, passando per la letteratura, da Charles Baudelaire ad Eugenio Montale.
La cultura è fatta di curiosità, cosa ti affascina esattamente della pittura e della letteratura?
Mi affascina tutto, in ottica musicale credo che sia un bel modo per avvicinare i giovani a tematiche che, in ambito scolastico, vengono considerate noiose.
A che punto del tuo percorso incontri la musica?
Ho iniziato a scrivere a tredici-quattordici anni, è iniziato tutto per gioco. E’ stato un incontro molto naturale, a quell’età i sogni viaggiano velocemente, siamo tutti passati nella nostra infanzia/adolescenza a voler fare i calciatori o gli astronauti. Superate quelle fasi, la musica è rimasta.
C’è un artista che senti particolarmente vicino e che reputi un riferimento?
Guarda, sono cresciuto con gran parte del cantautorato, ascolto tanta musica italiana. Un artista di riferimento è sicuramente Jovanotti, a livello di scrittura è uno che dice tante cose, l’antitesi di Vasco se vogliamo. Per quanto mi riguarda, tendo ad incastrare e raccontare il più possibile, ho pochi silenzi nelle mie canzoni.
A volte si tende a clusterizzare l’arte per fasce di età, pensi che la trasversatilità sia sempre più il futuro della musica?
Non saprei, molti artisti della nuova generazione tendono ad identificarsi in un genere, ad interfacciarsi con una fascia specifica di pubblico. La musica che faccio io è più orientata verso il pop, di conseguenza ha più probabilità di arrivare a generazioni diverse.
Quali sono le caratteristiche che, secondo te, hanno più colpito de “Il bacio di Klimt”?
Rappresentare l’amore e la vita attraverso parallelismi con l’arte e la letteratura è la cosa che più arriva alle persone, oltre all’aspetto melodico, perché credo sia fondamentale che una canzone ti prenda subito a livello musicale. Anche io, da ascoltatore, faccio fatica a prestare troppa attenzione al testo al primo ascolto, le parole cominciano a diventare importanti dal secondo, proprio come un appuntamento (sorride, ndr). Nel mio caso è stata fondamentale anche la viralità con cui il pezzo si è imposto in rete, in primis su Tik Tok.
Ricapitolando: l’arte, la letteratura, la musica e Tik Tok, in che modo si legano tra loro?
Non credo ci sia una logica, la chiave è la viralità. La potenzialità di un pezzo non la vedi di certo dalle views, ma scatta qualcosa che spinge, soprattutto i giovani, ad emulare e condividere ciò che più gli piace. Il valore artistico di una canzone lo riconosci quando supera il confine di Tik Tok e si diffonde nel resto dell’etere.
Cioffi: “Io, la musica, il calcio, i sogni e il Salento”
A tu per tu con il giovane cantautore classe ’96, fuori con il primo singolo intitolato “Anima fragile”
Capita raramente di intravedere in un esordio discografico una certa originalità, una forte e predominante identità artistica. E’ il caso di Cioffi, tenete bene a mente questo nome, un ragazzo come tanti ma con una sensibilità, una passione e un talento come pochi. “Anima fragile“ è il titolo del suo primo singolo, “un viaggio andata senza ritorno”, giusto per citare uno degli ispirati ed evocativi versi del brano.
Cosa rappresenta esattamente per te questo tuo biglietto da visita musicale?
“Anima fragile” è l’inizio di un percorso immaginario, ma anche il coronamento di un piccolo sogno, perché dal momento in cui un brano esce diventa di chi lo ascolta. Mi ha sempre affascinato l’idea di condividere con gli altri un’emozione che, fino a qualche tempo prima, era soltanto mia.
Questo esordio è arrivato esattamente come te lo immaginavi?
Molto meglio di come me lo immaginavo, sinceramente. Mai mi sarei aspettato di riuscire ad arrivare a tanta gente in così breve tempo, al di là dei numeri che personalmente non mi interessano e lasciano il tempo che trovano. Ogni giorno mi confronto tramite i social con tante persone, trovo che sia questa la grandezza della musica: riuscire ad unire sensazioni e trasformare due sconosciuti in anime che si conoscono da sempre.
“Anima fragile” custodisce al suo interno una sua forza e una sua verità, lo consideri un po’ il manifesto della tua musica che verrà?
Lo considero un inno generazionale, ma in punta di piedi. Il mio inizio, un manifesto di ciò che ho da dire. Tutto ciò che verrà in futuro mi auguro sia un proseguo, non vorrei fare pezzi slegati tra loro.
Con quale spirito ti affacci al mondo della musica? Al di là dell’aspetto patinato, sei consapevole dei sacrifici che richiede questo mestiere?
Sì, sicuramente, sono pronto a farne ulteriori, anche rispetto a quelli che sto compiendo già da anni. Sono a conoscenza dei sacrifici, so benissimo che è un mondo difficile, che bisogna essere tanto fortunati. L’unico obiettivo che ho è quello, un domani, di guardarmi indietro e non avere rimorsi, comunque sia andata.
Venendo all’attuale situazione sanitaria legata alla pandemia e alle sue terribili conseguenze, quale impatto emotivo pensi che avrà tutto questo sulle nostre vite?
Sono convinto che durante questo periodo tante persone abbiano avuto la possibilità di riflettere, di migliorare e smussare gli angoli più acuti del proprio carattere. Credo che questo virus ci abbia permesso di capire che, in fondo, siamo uguali e che tutti possiamo avere le stesse possibilità. La vita e la libertà sono doni preziosissimi, in questo lockdown siamo stati in grado di cogliere la bellezza e il valore delle piccole cose.
Un’altra tua grande passione è il calcio, uno sport che si coniuga benissimo con la musica pensando ad una futura e ipotetica (te lo auguro) convocazione nella Nazionale Italiana Cantanti…
Guarda, sarebbe davvero un sogno. Da bambino volevo fare il calciatore, ci ho sperato fino all’adolescenza, ho sospeso a causa del ginocchio sinistro che mi tormenta, in più non potevo portare avanti in maniera professionale entrambe le cose. Per me sono due passioni che viaggiano parallelamente, ma che a volte si incontrano, tant’è che durante la quarantena ho scritto una canzone su questo tema e che farà parte di un album futuro, perché quello a cui sto lavorando è praticamente già concluso.
Continuo a giocare a livello locale, sono capitano di una squadra universitaria. Alla fine ho capito che non è importante il livello, il calcio per me è una grande passione, quando gioco nel campetto dietro casa immagino di calpestare il prato di San Siro, essendo io un grandissimo tifoso del Milan. In più bisogna saper riconoscere i propri limiti, io non sono certo un fenomeno (ride, ndr), per cui non mi resta che la carta della Nazionale Italiana Cantanti, a cui rivolgo il mio appello, nel caso in cui servisse un terzino…
A proposito di campetto dietro casa, quanto contano le tue origini e la tua terra in ciò che sei umanamente e artisticamente parlando?
Tantissimo, sono nato e vivo a Galatina, la realtà salentina ti mette nelle condizioni di crescere in fretta e di sognare tanto. Qui non ci manca nulla a livello di territorio, ma a differenza delle grandi città ci sono meno possibilità concrete, soprattutto per noi giovani. Questo fa scattare dentro di te una sorta di interruttore, che ti spinge a dare sfogo alle tue più grandi passioni, non a caso è una terra ricca di artisti, da Emma Marrone ad Alessandra Amoroso, passando per i Negramaro, i Boomdabash e i Sud Sound System.
C’è davvero un rapporto viscerale con la nostra terra, che noi salentini critichiamo sempre, però alla fine l’amiamo, difendendo le nostre tradizioni. C’è un’influenza quasi invisibile, trasparente, che questo posto fa fiorire nell’anima e nel carattere delle persone. In più ci sono paesaggi incredibili, dal sole al mare, per non parlare del tramonto, che poi è lo stesso che cito in “Anima fragile”, uno spettacolo indescrivibile. Il Salento è una parte di me che non se ne può andare, sono grato e amo la mia terra.
Per concludere, a proposito di sogni, tra vincere la Champions League con il Milan e aggiudicarsi il titolo del Festival di Sanremo, cosa sceglieresti?
Senza ombra di dubbio, anche solo partecipare al Festival sarebbe davvero stupendo. Sanremo mi piace un sacco, lo seguo dacché ho memoria.
Gianni Bismark: “Fiero di aver superato i miei limiti”
Intervista al giovane rapper romano, che torna sulle scene con il disco intitolato “Nati diversi”
Tiziano Menghi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Gianni Bismark, è una delle promesse mantenute della nuova scena hip hop italiana. Reduce dal successo riscosso lo scorso anno con l’album “Re senza corona“, il rapper della Garbatella torna sul mercato con “Nati diversi“, disponibile su tutte le piattaforme digitali per Virgin/Universal Music dallo scorso 27 marzo, un lavoro che sottolinea la sua evoluzione artistica.
Cosa ti rende più fiero di questo progetto?
Mi rende fiero l’essere riuscito ad arrivare dove ancora non ero riuscito ad arrivare, l’aver superato dei miei limiti, l’aver perseguito il proprio obiettivo ed essere pronto ad inseguire un altro.
Hai altre passioni oltre la musica?
Di passioni ne ho tante, ti citerei il calcio, in assoluto, tifo per la Roma. Infatti ci è venuta l’idea di utilizzare sui social le figurine dei calciatori per annunciare gli ospiti e i collaboratori di questo disco. Ho trovato divertente questa scelta, per sentirci in qualche modo uniti e trasmettere un senso di squadra e di unione, visto il periodaccio penso che sia importante sottolineare questo aspetto.
A proposito dell’emergenza Coronavirus, che ruolo può avere la musica in questa delicata situazione?
La musica è uno sfogo, oltre che una compagnia. Mentre ascolti una canzone puoi chiudere gli occhi e immaginare di essere chissà dove, secondo me questo è importantissimo, soprattutto in questo momento.
Quali sono i tuoi obiettivi e i tuoi buoni propositi per il futuro?
Spero sempre di continuare a piacere alla gente, di proseguire per la mia strada cercando di migliorarmi il più possibile.
Ti piacerebbe partecipare in futuro al Festival di Sanremo? Lo consideri un palco sufficientemente sdoganato?
Ma sì, perché no? Tanto a Sanremo ci andrei proponendo me stesso, rappando la mia roba, sicuramente non con qualcosa di diverso. Anche a livello di tematiche, proporrei il mio mondo. Quest’anno, ad esempio, mi è piaciuto parecchio Fasma, oltre ad essere il più più forte era anche quello più emozionato, l’unico che mentre cantava gli tremavano le mani. Ecco, penso che anche io potrei portare me stesso, la mia sensibilità e la mia grinta su quel palco.
Joan Thiele e l’istinto della sua “Operazione oro”
Intervista alla talentuosa cantautrice lombarda, fuori con il suo primo Ep completamente in lingua italiana
Classe e istinto, queste le due colonne portanti dell’Ep di Joan Thiele, artista classe ’92 tornata negli store e sulle piattaforme digitali dallo scorso 20 marzo con “Operazione oro“, il suo primo lavoro scritto e cantato completamente in italiano. Due album alle spalle per la giovane cantautrice di Desenzano del Garda, che ha fatto della contaminazione musicale il suo marchio di fabbrica, perfezionando uno stile originale e quantomai personale.
Se dovessimo definire “Operazione oro” con uno stato d’animo, quale sceglieresti?
Sceglierei l’istinto, perché è un lavoro poco ragionato, poco pensato, se non a livello interiore. E’ frutto di un grande lavoro che ho fatto dentro di me, ma l’approccio alla scrittura è stato totalmente onesto, non ho seguito alcun tipo di logica. E’ un disco fortemente emotivo, un viaggio per me abbastanza necessario, introspettivo, che ruota attorno al concept dell’intero disco, ovvero l’accettazione di sé.
In questo viaggio interiore, cosa hai scoperto di te che non avevi capito fino ad ora?
Molto spesso si fà fatica a comprendere realmente un cambiamento, quello che ho capito è che ci vorrebbero altri centocinquanta album per capirmi ancora di più (ride, ndr). Trovo sia fondamentale la ricerca di se stessi, più che il raggiungimento di una condizione o di un determinato traguardo. Se ci si arriva è un casino, forse.
Che ruolo gioca la musica nel tuo quotidiano?
Ha un ruolo direi abbastanza fondamentale, ascolto tanta musica, anche se devo ammettere che a volte cerco di staccare prendendomi una pausa, ad esempio leggo molto. Come dice sempre mia madre, bisogna cercare di non diventare ossessivi, questo vale per qualsiasi cosa, non ci si può fissare su una sola cosa.
Hai altre passioni a parte la musica? Ti dedichi a qualche altra attività in particolare?
Una mia grande passione è il design, mi piace molto costruire oggetti. Il mio ragazzo è un artista, dipinge e realizza sculture, un’attività che negli ultimi tempi ho riscoperto, cercare ed utilizzare materiali per costruire qualcosa. L’epidemia del Coronavirus ci sta costriggendo in casa, sono convinta che questo momento sia anche utile per capire quello che ci piace, cosa vogliamo fare realmente. Le giornate si sono allungate, personalmente mi sono data anche alla cucina, il che è tutto dire (sorride, ndr).
A proposito di quanto sta accadendo, se dovessimo trovare un aspetto positivo da tutta questa situazione, in cosa lo individueresti?
Nel tempo che abbiamo ritrovato a nostra disposizione, perché è cambiata completamente la nostra prospettiva. Non sei più tu che insegui il tempo, bensì è il tempo che ti da lo spazio di ascoltarlo.
Galeffi, “Settebello” e il ruolo della musica in questo momento delicato
Intervista al cantautore romano Galeffi, fuori con il suo secondo lavoro in studio intitolato “Settebello”
Scegliere di uscire comunque e fare compagnia alle persone attraverso la propria musica, tra le tante uscite rimandate in questo periodo c’è chi preferisce pubblicare comunque il proprio progetto, rivendicando con orgoglio il ruolo che da sempre ricopre questa nobile forma d’arte, le conseguenti suggestioni e le molteplici riflessioni che ci suggerisce.
“Settebello“ è il titolo del secondo lavoro discografico di Marco Cantagalli, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Galeffi, cantautore che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare sin dall’esordio avvenuto nell’ottobre del 2017 con “Occhiaie“, seguito poco dopo dal disco di debutto “Scudetto”.
L’artista torna sulle scene con un progetto completo, costruito e curato nei minimi dettagli, parola per parola, nota dopo nota. Rilasciato lo scorso 20 marzo per Maciste Dischi/Polydor/Universal Music, l’album ha l’ambizione di accompagnarci in un momento storico così delicato, inedito e disarmante.
La musica ai tempi del Coronavirus, che ruolo ha?
Sicuramente un ruolo di distrazione di massa, che non fa mai male in questo genere di situazioni inedite e delicate, per certi versi senza precedenti. La musica può sicuramente attutire il colpo. Per quanto mi riguarda, in genere passo molto tempo in casa, questa situazione mi ha cambiato ben poco la vita.
Avendo un’attitudine così casalinga, puoi consigliare ai nostri lettori alcune attività da svolgere?
Ascoltare “Settebello” giocando a carte, sarebbe perfetto. Poi, fammi pensare, potrei consigliare qualche film che ho visto in questi giorni, tipo “Il profeta” o “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”, che mi sono piaciuti parecchio. Infine, si può giocare alla Playstation, scaricarsi qualche serie, farsi qualche doccia in più (sorride, ndr).
Quale impatto emotivo pensi che avrà sulle nostre vite?
Non lo so, boh. Dipende, perché non reagiamo tutti allo stesso modo, soprattutto in Italia, un Paese con tante differenze che, devo dire, si ritrova riunito da un positivo e incoraggiante patriottismo, come non lo si sentiva forse dai mondiali di calcio del 2006.
In un paio di pezzi del tuo disco dici “Mi sono chiuso a casa che spasso, fuori diluvia, meglio stare al caldo”, oppure addirittura “Mi disinfetto quando te ne vai”. Insomma, ci sono una serie di riferimenti criptici, qualche complottista potrebbe studiarci una teoria…
Beh, in effetti sì, mi auguro possano realizzare dei meme così almeno le mie canzoni girano (ride, ndr).
Come pensi ne potrà uscire il settore discografico da tutto quello che sta accadendo?
Tutto quello che sta succedendo è sicuramente un dramma per vari settori. Ne risentiranno le persone che lavorano in ogni campo, perché è quasi tutto fermo. Per chi fa musica l’attività live è fondamentale, diciamo che rappresenta un buon 70% del guadagno, ma è anche vero che siamo tutti grandi e grossi per capire che non si può fare niente, la salute prima di tutto.
Jaqueline racconta il sottile confine tra vita reale e vita virtuale
Intervista alla giovane cantautrice siciliana, fuori con il singolo “Game over”
E’ attualmente impegnata nella fase di lavorazione del suo album d’esordio Jaqueline Branciforte, cantautrice classe ’94 che ricordiamo per essere stata una gli otto finalisti di Area Sanremo. Si intitola “Game over”il brano con cui ha deciso di presentarsi al grande pubblico, un pezzo che racconta il sottile confine tra vita reale e vita virtuale.
Quale impatto emotivo ha, secondo te, la tecnologia sull’essere umano oggi?
Travolgente. É un metodo velocissimo, per materializzare almeno virtualmente, le proprie idee, e questo ci crea appetito. É un linguaggio nuovo, che da tanti è stato compreso superficialmente… Sicuramente l’essere umano entrerà ancora di più in confidenza con la tecnologia, dobbiamo solamente non lasciarci travolgere da questa grande intelligenza artificiale e non dimenticarci che siamo stati noi a creare questo grande strumento di comunicazione e di creazione.
In un momento storico delicato e inedito come quello attuale, l’emergenza sanitaria per il contenimento del Coronavirus sta mutando la nostra quotidianità. I sistemi tecnologici sono tornati ad avere il ruolo per cui sono stati concepiti?
Sì, la tecnologia è uno strumento fondamentale per la diffusione di messaggi importanti. Se vogliamo salvaguardare l’essenza stessa dell’umanità, dobbiamo mettere in pratica un approccio più globale della tecnologia. Sono molto dispiaciuta del fatto che l’umanità debba arrivare a questo per rendersene conto.
Sento che quello che stiamo vivendo è uno dei momenti più “difficili” nella storia del genere umano, però nel complesso sono molto ottimista riguardo al futuro. Tutti ne possiamo uscire più forti e forse, grazie a questo, stiamo capendo quanto in realtà valiamo e quanto l’umanità stessa possa fare per il mondo.
Ci consigli tre cose da fare in questi giorni per riscoprire il piacere dello stare a casa?
Fate quello che vi fà stare bene, in questo momento abbiamo bisogno di riscoprire le nostre potenzialità, far entrare luce alle nostre anime. Aprofittiamo di questo momento per riflettere, per migliorarci e per nutrirci dentro. Ritrovare il piacere di condividere con i nostri talenti, tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso a causa di molte distrazioni.
E’ prematuro parlare di conseguenze precise, ma come pensi ne potrà uscire il settore discografico, in particolare quello della musica dal vivo, da tutto quello che sta accadendo?
C’è una situazione di sconforto e difficoltà un po’ in tutti i settori, quello discografico e in particolare quello della musica dal vivo sta affrontando un periodo di fermo. Credo che per gli artisti sia doloroso dover lasciare il proprio pubblico e la musica dal vivo. Il tempo riparerà ogni ferita e penso che ogni settore saprà superare al meglio questo momento.
Dopo qualsiasi “Game over” si parte sempre con un nuovo gioco, una nuova partita. Quale insegnamento può trarre l’umanità da tutta questa situazione?
Inizieremo probabilmente una nuova missione con nuove ideologie e nuovi stimoli, la vita può essere un gioco di coincidenze, ma dobbiamo sempre considerare il fatto che ricominciare una partita nel nostro mondo non è mai uguale alla precedente. Quindi dobbiamo imparare a convivere con le nostre dinamiche, conoscersi per se stessi e per gli altri è un ottimo inizio. In fondo, siamo noi che ogni giorno scriviamo questo libro infinito che è la vita.
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