Incontro con il talentuoso cantautore calabrese in occasione della pubblicazione di “Tutte le volte”, singolo che anticipa l’uscita del suo nuovo album

Eman
Spazio Emergenti: Eman si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

E’ in dirittura d’arrivo il nuovo lavoro discografico di Emanuele Aceto, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Eman, cantautore catanzarese che abbiamo apprezzato con il precedente album Amen e con gli ultimi due singoli Icaro e Milano” rilasciati nel 2018. In occasione del lancio di Tutte le volte, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista per una piacevole chiacchierata volta a scoprire i dettagli di questo interessante progetto.

Cosa hai voluto raccontare in “Tutte le volte”?
Una storia d’amore come tante, ma raccontata in maniera diversa. Ho cercato di trovare una chiave narrativa differente, puntando su un’analisi più lucida, perché non è detto che chiusa una relazione tutto si debba buttare o ci sia la necessità di attribuire sempre colpe, la fiamma di una candela può spegnersi con il vento o, più semplicemente, consumarsi.

C’è una veste sonora precisa che hai donato al brano per dare il giusto risalto al testo?
Le ballad hanno un potere evocativo, mi trovo sempre a mio agio in questa dimensione perché mette in risalto il significato delle parole, con le atmosfere più intime riesco maggiormente a tirar fuori ciò che voglio esprimere, in maniera molto più chiara e nitida. 

Di forte impatto anche il videoclip che vede protagonista la storia di DJ Fabo, cosa avete voluto esprimere attraverso le immagini?
Insieme al regista Mauro Lamanna abbiamo voluto sottolineare il valore della vita, raccontando il rapporto che lo legava alla sua compagna Valentina, un aspetto non di poco conto che rappresenta la parte più emozionante di questa storia. Tra l’altro, i due attori Aurora Ruffino e Gianmarco Saurino sono stati davvero bravissimi.

Come descriveresti il legame con le tue radici calabresi?
Fortissimo, mi alzo la mattina e penso di essere in Calabria, poi dopo cinque secondi realizzo che non è così. Onestamente non sento di essermene mai andato via, quando un legame è forte come il mio non vedi l’ora ogni volta di ritornare.

Una terra che ti ha più dato o tolto?
Credo un po’ entrambe le cose, ma le devo davvero tutto, ho tanta fame di farcela anche per dimostrare che si può realizzare qualsiasi cosa, anche se provieni da un luogo pieno di contraddizioni come quello. Sai, quando nasci in un posto difficile e bello come il mio è impossibile non portartelo dentro.

Quanto conta per te la dimensione live?
Per me è partito tutto dai live, il mondo dal quale provengo era rigorosamente dal vivo, incidere un brano in studio costava e non potevamo permettercelo in molti. Io sono nato nelle piazze, ho iniziato a cantare con cinque persone, poi sono diventate dieci, centinaia e così via.

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Eman © foto di Giovanni Varlonga

Partire dal basso aiuta?
Assolutamente sì, è fondamentale per mantenere un grado di giudizio molto equilibrato, perché dai valore al singolo individuo che ti viene ad ascoltare. Non conta quanta gente ci sia, devi sempre dare il massimo, non puoi permetterti di essere perfetto solo in certe occasioni, questo lavoro si basa sul rispetto che hai nei confronti del pubblico. Sono le piccole gocce che formano il mare.

Perché i giovani hanno paura di cantare nelle piazze?
Perché non si ha voglia di cominciare da zero, come hanno fatto i più grandi in passato, cito Vasco Rossi che è partito dal basso e da oltre vent’anni riempie gli stadi. Adesso è più comodo passare dal palco di un talent show, si abituano i ragazzi a numeri che nella vita difficilmente riusciranno a mantenere nel tempo, la gavetta è fondamentale in qualsiasi campo. 

In che direzione andrà la tua musica?
Sai che non ci ho mai pensato? Quando scrivo un brano a volte ho paura di non riuscire a completarlo, poi smetto di pensare e mi abbandono alla composizione. La musica deve tornare ad essere una necessità, molti la vivono come un’opportunità, personalmente non so in che direzione vada l’ispirazione, la seguo, la rincorro, ma è lei che decide dove portarmi.

Ti è ben più chiaro l’obiettivo rispetto alla strada da percorrere?
Diciamo di sì, a livello sonoro credo di aver raggiunto una certa unicità e non significa che ciò che faccio sia bello o brutto, ma non trovo nulla di simile in circolazione, questo è già un bel vantaggio (ride, ndr). Per il resto, mi sento pronto a raccogliere tutto quello che arriverà, certo che sarà qualcosa di bello.

Intervista con il giovane rapper romano, al suo ritorno discografico con il singolo “Girasoli”, un nuovo inizio che anticipa il suo prossimo progetto in studio

Kaligola
Spazio Emergenti: Kaligola si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

Piacevole chiacchierata con Gabriele Rosciglione, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Kaligola, rapper romano che avevamo apprezzato nel 2015 sul palco del Teatro Ariston tra i giovani del Festival di Sanremo, in gara con il brano “Oltre il giardino”. A distanza di tre anni, l’artista si riaffaccia sul mercato discografico con il singolo Girasoli, un brano che esprime tutta la sua maturazione artistica.

Di cosa parla il tuo nuovo singolo “Girasoli”?
E’ una canzone che parla della fine di una storia d’amore, ma con un messaggio di speranza, perché il girasole è una pianta che sopravvive all’inverno e, di conseguenza, alle difficoltà. Si tratta di un pezzo per me importante, in cui mi metto in gioco cantando, con una nuova consapevolezza a livello di scrittura.

Lo vivi più come un ritorno o come un nuovo inizio?
Decisamente come un nuovo inizio, infatti ero indeciso se cambiare o meno nome d’arte, ma poi ho preferito lasciare Kaligola perché, in realtà, non mi sento di aver tagliato nettamente con il mio passato, sono semplicemente cresciuto.

Con quale spirito ti riaffacci al settore discografico?
Il mercato di oggi è molto saturo, in qualsiasi genere musicale c’è un grande afflusso di nuovi artisti. E’ più difficile emergere adesso rispetto al passato, personalmente mi affaccio in maniera positiva, proprio perché ci sono tanti autori e musicisti bravi, la sana competizione ti sprona a dare tutto te stesso per dimostrare di meritare la giusta attenzione.

Quali ascolti hanno ispirato e accompagnato il tuo percorso?
Da bambino ascoltavo musica classica, poi ho scoperto il rap a sei anni grazie ad Eminem, Pharrell Williams e 50 Cent. Mi sono talmente appassionato all’hip hop, da cominciare ad approfondirne la conoscenza ascoltando tutto l’underground americano anni ’80 e ’90, anche se ho sempre cercato di allargare la mia cultura musicale con artisti provenienti da altri generi, tra tutti Michael Jackson.

Rispetto alla tua partecipazione al Festival di Sanremo del 2015, in cosa credi di essere cambiato e in cosa senti di essere rimasto uguale?
Mi sento cresciuto dal punto di vista musicale, sento di aver acquisito maggiori competenze, ma anche a livello personale, perché sono cresciuto e tre anni sono tanti.

Ho iniziato a sperimentare più che in passato, oggi ho più consapevolezza di me stesso e maggiore voglia di fare musica, perché quando ricominci da capo tutto ha un sapore diverso e assume più valore. La naturalezza con la quale mi affaccio alla musica è la stessa, questo aspetto è rimasto completamente intatto.

C’è stato un momento in cui hai sentito il peso delle aspettative?
Beh, forse a Sanremo sì, anche se come esperienza l’ho vissuta con assoluta spensieratezza, le aspettative c’erano perché in gioco c’era il futuro della mia piccola carriera musicale. Nonostante questo, non l’ho vissuta come un peso, nemmeno le persone intorno a me, fortunatamente, mi hanno trasmesso alcun tipo di ansia da prestazione.

Qual è la lezione più importante che pensi di aver appreso dalla musica?
Che nessuno ti regala niente e che per guadagnarsi il proprio è necessario mettersi sempre in discussione, in primis con se stessi, solo in questo modo si può realizzare un prodotto di qualità che abbia una propria identità e una reale credibilità.

L’incontro con il musicista pugliese, in uscita dal 19 novembre con il singolo “Vieni con me” che anticipa il suo nuovo progetto discografico

Paolo Marà
Spazio Emergenti: Paolo Marà si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

Si intitola Vieni con me il singolo che rappresenta il biglietto da visita ufficiale di Paolò Marà, artista che ha preso parte a numerosi festival musicali, tra cui ricordiamo la sua partecipazione televisiva nel corso della seconda edizione di The Winner Is. Realizzato insieme al fido produttore Matteo Tateo per l’etichetta PAPA Musìque, il brano racconta l’universo musicale e personale dell’artista, mettendo in mostra la sua inconfondibile timbrica vocale.

Ciao Paolo, cosa rappresenta per te “Vieni con me”?
Una parte fondamentale della mia giovane carriera artistica, il mio primo singolo ufficiale che racconta una parte di me, rappresentando artisticamente ciò che sono a livello personale. Uno dei versi che mi descrive di più, infatti, è: “prendo la vita come una giostra, come una nave che traccia una rotta”.

Il testo è firmato da Matteo Maniglio, come ti sei trovato a lavorare con lui?
Ci conosciamo da tempo, lo scorso anno abbiamo entrambi preso parte alle selezioni di Area Sanremo. Nei mesi a seguire, abbiamo avuto modo di interfacciarci spesso e di iniziare a scrivere qualcosa insieme, lui è davvero un grande autore, quando ho letto per la prima volta il testo mi sono emozionato perché parlava proprio di me. Conoscendomi molto bene è riuscito a fotografare ogni paesaggio della mia anima, di conseguenza, lavorare agli accordi e alla musica è stato facilissimo.

Come e quando ti sei avvicinato alla musica?
Questa domanda mi fa sempre tremare un po’ le gambe (sorride, ndr), ho scoperto la musica all’età di otto anni, quando ascoltavo le cassette di Michele Zarrillo. Piano piano mi sono avvicinato allo strumento strimpellando una pianola guadagnata con i punti del supermercato, mentre le esperienze con le prime band sono arrivate con l’adolescenza. Quando ho iniziato a pensare di poter trasformare questa mia passione in un mestiere, mi sono scontrato con i miei genitori, che non hanno mai preso di buon occhio questa mia dedizione per la musica. Ho studiato canto e mi sono applicato, anche contro il loro volere.

Quali parole ti hanno infastidito da parte di chi non ha realmente compreso la tua passione?
Più che fastidio mi hanno provocato dispiacere, è un discorso legato alla mentalità, abbiamo la fortuna di vivere nel Paese più bello del mondo, ma non tutta l’Italia ha lo stesso tipo di apertura. In una realtà di provincia può capitare di non essere compresi, addirittura anche presi in giro, sia per la musica ma anche per qualsiasi altra passione. Non c’è una frase particolare, ci sono stati dei periodi in cui non sono stato capito, ma è servito a fortificarmi perché, se sei veramente innamorato di ciò che fai, niente e nessuno può fermarti. 

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“Vieni con me” il nuovo singolo di Paolo Marà

Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti il livello generale dell’attuale settore discografico?
Con un forte spirito di adattamento, dagli anni ‘90 ad oggi c’é stata più di un’evoluzione, la musica è fruita in modo più immediato e veloce, bisogna stare al passo con i tempi e cercare di tornare ad alimentare il mercato con canzoni che possano restare nel tempo.

C’è un incontro che reputi fondamentale per il tuo percorso?
Più di uno. In primis il mio produttore Matteo Tateo, colui che più ha creduto in me e che mi ha trasmesso il coraggio per andare avanti nei momenti meno facili. Ringrazio anche Tommaso Martinelli, una delle persone più belle che ho avuto il piacere di incontrare nella mia vita, non è facile trovare in questo ambiente amici veri, lui lo è senz’altro.

Credi di aver raggiunto una tua identità ben definita o, più semplicemente, ne sei ancora alla ricerca?
Penso di aver trovato la mia rotta artistica, la direzione verso la quale mi piacerebbe proseguire il mio percorso, ovviamente c’è sempre da lavorare e molto da migliorare. “Vieni con me” è sicuramente un ottimo punto di partenza, le fondamenta per costruire al di sopra qualcosa di importante. Tendenzialmente di nascita sono un bluesman, anche se mi piace molto sperimentare ed utilizzare diversi colori della mia voce.

Cosa ha rappresentato per te l’esperienza di The Winner Is?
L’avventura più emozionante vissuta sino ad oggi, per la prima volta ho varcato la soglia di studi televisivi importanti come quelli di Mediaset, entrando a contatto con le persone e tutto ciò che c’è dietro uno programma del genere. Questa esperienza mi ha insegnato a comprendere meglio il mondo dello spettacolo, un bagaglio culturale molto più importante della vittoria o di qualsiasi altro premio in palio.

Se potessi “rubare” una canzone a un collega, quale sceglieresti?
Ti direi “Quanno chiove” di Pino Daniele, perché ogni volta che la canto e la suono mi ritrovo a combattere con le mie più profonde emozioni. Quando sono da solo mi lascio andare, mentre davanti al pubblico cerco di trattenermi. Un brano che ruberei sicuramente al grande Maestro.

Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso da tutti questi anni di gavetta?
La musica è un linguaggio che accomuna tutte le popolazioni, non c’è alcun tipo di distinzione. Chiunque può farla o comprenderla, a patto che ci metta il cuore, potrà sembrare banale dirlo ma è più semplice di ciò che si pensa. Il mio obiettivo è quello di riuscire a trasmettere emozioni attraverso questo bellissimo linguaggio artistico.

A tu per tu con il duo veneto, in uscita in tutti gli store con il nuovo album di inediti intitolato “Hey Hey Hey”

Blonde Brothers: "Viviamo di contaminazioni e di nuovi stimoli"
Spazio Emergenti: i Blonde Brothers si raccontano ai lettori di Musica361, approfondiamo la loro conoscenza

Tempo di nuova musica per i fratelli Luca e Francesco Baù, meglio conosciuti come i Blonde Brothers, duo di musicisti che hanno saputo mescolare credibilità e sperimentazione nel loro nuovo progetto discografico Hey Hey Hey, un mix vincente di sonorità electro-country frutto di anni di esperienze, viaggi e concerti dal vivo.

Disponibile negli store digitali a partire dal 19 ottobre, il disco è composto da tracce eseguite sia in italiano che in inglese, con un’incursione anche con la lingua francese.

Un lavoro versatile e dal linguaggio universale, come raccontatoci dagli stessi due artisti.

“Hey Hey Hey” è il titolo del vostro quarto album. Da quale idea iniziale siete partiti e a quali conclusioni siete arrivati?
Il titolo è un modo per dire “Hey ascoltami… devo raccontarti qualcosa”.

Eravamo partiti con l’idea di lanciare alcuni singoli poi in questi ultimi tre anni abbiamo avuto molta ispirazione così abbiamo pensato di fare un album intero che avesse la caratteristica di tutti i singoli al suo interno.

Dalle montagne venete agli store tradizionali e digitali, cosa rappresenta per voi questo nuovo tassello discografico?
Questo nuovo tassello discografico è un viaggio all’interno di valori sui quali noi crediamo ed è un modo di arrivare al grande pubblico camminando con le scarpe da montanaro. Montanari che hanno viaggiato molto ma che sono radicati al proprio punto di partenza…

Elettronica e country, due mondi apparentemente distanti che possono coesistere nella stessa forma canzone?
Siamo convinti che l’elettronica abbia trasformato e fatto crescere ulteriormente la musica, perché rappresenta un’occasione per tutti noi artisti, per poter segnare ancora una volta l’evoluzione e la crescita di questa forma di comunicazione potentissima che è la musica. La contaminazione del resto è quasi sempre evoluzione.

Credibilità e sperimentazione possono convivere in musica?
Per noi ciò che rende veramente interessante un artista è proprio questo, saper osare e avere il coraggio di sperimentare, è più rischioso ma rende tutto piu frizzante e divertente, più credibile perché l’artista ha bisogno sempre di nuovi stimoli.

Ascoltando il disco ci si rende conto dell’importanza che avuto nel vostro percorso la dimensione live. Quanto ha contato per voi la gavetta?
La gavetta ha contato molto, conta e conterà in futuro, perché il percorso di crescita è infinito e tutti noi abbiamo i propri limiti che solo attraverso il duro lavoro riusciamo a superare.

Ogni singola serata, ogni singolo accordo suonato, ogni singola persona incontrata sul palco e sotto il palco è parte di questo viaggio e di “Hey Hey Hey”.

Nel brano “Credi in te” lanciate un segnale molto positivo, in questo preciso momento storico c’è davvero bisogno di riacquistare fiducia in noi stessi?
Credere in se stessi è anche un modo per credere negli altri perché attraverso la propria forza interiore si riesce a condizionare la realtà e di conseguenza aiutare il prossimo.

In questo momento storico abbiamo bisogno di credere molto e saper sognare perché il “sogno” è la componente che fa diventare “magica” la nostra esistenza.

A tu per tu con il cantautore napoletano, in uscita con il suo terzo progetto discografico intitolato “Mia madre odia tutti gli uomini”

Maldestro: "La musica mi ha concesso uscire dai confini e dagli schemi" 1
Spazio Emergenti: Maldestro si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

Una chiacchierata in compagnia di Antonio Prestieri, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Maldestro, è sempre motivo di arricchimento personale e culturale. Il pretesto è l’uscita del suo terzo album in studio intitolato Mia madre odia tutti gli uomini, pubblicato lo scorso 9 novembre per l’etichetta Arealive con distribuzione Warner Music. Anticipato dai singoli “Spine” e “La felicità”, il disco si avvale dell’esperienza del produttore Taketo Gohara e riflette tutte le anime dell’artista campano, che avevamo già conosciuto nel 2017 tra le Nuove Proposte del Festival di Sanremo, in gara con “Canzone per Federica”, classificatasi al secondo posto e vincitrice del prestigioso Premio della Critica Mia Martini.

Cosa raccontano questi dieci brani inediti?
Raccontano me stesso, nudo e crudo, felice e malinconico, le canzoni parlano della mia infanzia e di alcuni momenti della mia vita, belli o brutti che siano, che mi hanno permesso di diventare ciò che sono oggi.

A livello musicale, quali sonorità hai voluto abbracciare?
Quelle più intime, proprio perché nei testi parlo molto di me. Con il produttore Taketo Gohara, che considero un mago, abbiamo scelto un sound asciutto e acustico, per donare maggiore risalto alla voce e un filo logico al racconto, con l’ausilio di strumenti veri e l’utilizzo di pochissima post produzione. Abbiamo cucito su misura un vestito semplice, per dare centralità alle parole e al contenuto.

C’è una tematica ricorrente nel disco?
Potrà sembrare un parolone, ma ho cercato di trattare e ricercare il senso della vita, che si riflette senza filtri nella quotidianità. Mi sono messo a nudo e non mi sono vergognato di farlo, anzi, sono fiero di esserci riuscito, perché ho capito di avere maggiore consapevolezza della mia fragilità.

Il tuo nuovo singolo si chiama “La felicità”, credi di aver trovato il sentiero che ti porta in quella direzione o, più semplicemente, ne sei ancora alla ricerca?
Ah (ride, ndr) ne sono ancora alla ricerca. Se fossi felice probabilmente non sarei qui, me ne starei da qualche parte a godermi la natura e le piccole cose della vita. Purtroppo continuo ad essere un uomo ancora impelagato in certe situazioni, forse la felicità è uno stato che non si raggiungerà mai, un po’ come l’orizzonte che più ti avvicini e più si allontana, una meta quasi utopistica, ed è questo il grande mistero della vita.

Come descriveresti il tuo rapporto con il web e con i social network?
Guarda, mi sono convinto da poco e per gioco. Per me è una nuova veste e devo ammettere che è bello avere questo tipo di rapporto con le persone, anche se è necessario stare sempre attenti e avere la lucidità per restarne un minimo distaccati. Ormai è un qualcosa che fa parte della nostra realtà, i dispositivi sono diventati un’estensione del nostro corpo, ma bisogna sempre essere equilibrati, mai all’estremo. Non mi sento molto social, ma sto imparando ad utilizzare questo canale perché, oggi come oggi, conta più una storia su Instagram di un passaggio radiofonico.

Qual è l’insegnamento più grande che hai appreso in tutti questi anni di attività?
Che l’arte può salvarti, in particolare la musica regala diverse prospettive e ti permette di comunicare in maniera non ordinaria. Personalmente mi ha insegnato a non arrendermi, a non restare fermo tra le mie mura, mi ha concesso di uscire dai confini e dagli schemi, se non avessi avuto la passione della scrittura la mia vita non sarebbe stata la stessa, è il mezzo che mi ha permesso di sentirmi più libero e leggero.

L’incontro con il cantautore comasco, al debutto con il suo primo EP anticipato dai singoli “Christian De Sica” e “Tra il tedio e il dolore”

JurijGami e il suo esordio ironico-spirituale con "Breve ma incenso" 1
Spazio Emergenti: JurijGami si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

Si intitola semplicemente “Breve ma incenso” l’EP d’esordio di JurijGami, chitarrista e cantautore che abbiamo apprezzato la scorsa estate con l’irriverente singolo Christian De Sica, seguito a ruota dall’ispirato Tra il tedio e il dolore, entrambi contenuti in questo primo album pubblicato il 9 novembre per Cello Label, etichetta indipendente con sede a Bruxelles. In occasione di questo importante battesimo discografico, abbiamo raggiunto telefonicamente il giovane artista per una piacevole chiacchierata.

Com’è nato e cosa rappresenta per te questo EP d’esordio?
Rappresenta il primo passo all’interno del mondo della musica, suono la chitarra da quando ho tredici anni, ma è la prima volta che mi sono cimentato nella scrittura di testi, cercando di spaziare il più possibile con le parole e gli argomenti, come spero si possa notare ascoltando le tracce del disco.

Hai voluto donare una veste precisa alle tracce, per spaziare il più possibile tra i generi?
Esatto, avevo nel cassetto venticinque pezzi, ho cercato di selezionare quelli più corposi, cercando di metterli insieme dandogli un unico filo conduttore. Credo di aver sperimentato abbastanza, sai, negli ultimi tempi c’è questa idea che se la musica non si colloca in uno schema ben preciso viene definita indie, un termine che credo non mi identifichi, in più non sono un amante delle etichette.

JurijGami e il suo esordio ironico-spirituale con "Breve ma incenso"
La copertina di “Breve ma incenso”

Nel disco giochi parecchio con le parole, toglimi una curiosità: sei un abbonato alla settimana enigmistica?
Eh sì (ride, ndr) mi diverte molto, al di là dell’enigmistica, il mio cervello realizza costantemente collegamenti pazzi, io non mi pongo alcun problema ad esternarli, anche se in alcuni casi dovrei pensarci un pochino di più, perché a volte escono di quelle cose… ma non fa niente, serve esperienza e sperimentare aiuta.

Nella copertina un paesaggio si trasforma in uno sfondo di un computer, a simboleggiare il filo sottile tra realtà e finzione?
Sì, esatto, anche un modo per descrivere com’è diventata oggi la nostra società, una tematica ricorrente all’interno del disco, mi riferisco all’evoluzione tecnologica ci sta portando ad instaurare un rapporto sempre più virtuale e meno diretto tra le persone.

C’è una canzone che ascoltandola ti suscita ogni volta delle emozioni?
Guarda, con la musica ho un rapporto strano, nel senso che l’ascolto a caso e vado a periodi, mi piace spaziare. Un artista che ho sempre seguito molto è John Mayer, lo trovo completo. Se dovessi scegliere un suo prezzo, citerei “Gravity” perché non mi stanco mai di ascoltarlo.

Qual è la lezione più importante che senti di avere appreso dalla musica in questi anni di gavetta?
Non smettere mai di sentirsi curiosi e, di conseguenza, vivi. Credo sia fondamentale per non sfociare nell’abitudine, per non invecchiare spiritualmente. La musica è un elisir di giovinezza che fa bene a qualsiasi età, un’attività creativa che ti porta ad allenare la mente, come sostiene Kafka: la felicità sta nel costruire più che nel raggiungimento di un determinato obiettivo. Ecco, questo ho imparato dalla musica.

Tra il tedio è il dolore, cosa rappresenta esattamente il tuo personale castello di felicità?
Dicono che la felicità sia fatta di attimi fugaci, ho voluto raffigurarla in maniera imponente come un castello, a simboleggiare che non si tratta di una sensazione effimera. Il mio personale castello di felicità è racchiuso all’interno del mio Mac, sono contento ogni volta che lo accendo, apro Logic e mi metto a giocare con i suoni e le parole, gettando le fondamenta di quelle che diventeranno poi le canzoni. Spero di avere sempre qualcosa da dire, di portare avanti sempre e comunque un messaggio che sia di contenuto.

A tu per tu con il rapper milanese in uscita con il singolo “Sorrisi altrove”, nuovo estratto dall’album “Mietta sono io”

Peligro: 1
Spazio Emergenti: Peligro si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

Le sue canzoni racchiudono ideali comuni, attingono dal vissuto quotidiano e raccontano storie. Stiamo parlando di Andrea Mietta, meglio conosciuto come Peligro, rapper milanese che continuiamo a seguire con particolare attenzione e che ritroviamo a pochi mesi di distanza dal lancio del suo disco Mietta sono io.

Ciao Andrea, ben ritrovato su Musica361. Parliamo del tuo nuovo singolo “Sorrisi altrove”, quanto c’è del tuo passato e quanto del tuo presente in questo brano?
Ciao, è bello rivederci (sorride, ndr)Se dovessi esprimerlo in proporzione c’è un 60% di passato, un 30% di presente e un 10% di futuro. Le immagini che ho cercato di evocare attingono molto dal mio vissuto, la panchina che cito nella prima strofa esiste davvero ed era davvero “nostra” un tempo, mentre ora non lo è più…

Quale veste sonora e quale taglio hai voluto attribuire al pezzo composto a quattro mani con Marco Zangirolami?
In realtà il testo è mio, l’apporto di Marco riguarda la parte musicale. Comunque, la creazione di un brano in totale sinergia è un’esperienza meravigliosa. Il flusso di energie che si crea è indescrivibile ed è totalizzante.

Molto bello il video con il quartetto d’archi, cosa hai pensato la prima volta che lo hai visto? Che i ragazzi che l’hanno realizzato hanno fatto una specie di miracolo! Questo video è stato girato in condizioni un po’ precarie, per una serie di ragioni. Sostanzialmente avevamo un solo tentativo a disposizione e poco tempo per completare il lavoro. Alla luce di ciò, il risultato è sorprendente.

Quanto è importante, oggi, riportare l’attenzione su tematiche semplici e prese in prestito dal nostro vissuto?
Credo che per chi scrive musica sia fondamentale attingere al proprio quotidiano per raccontare storie. Al di là di quello che può apprezzare il pubblico (che, secondo me, cerca sempre più storie di persone che gli somiglino), mettere se stessi nelle canzoni è innanzitutto terapeutico. Come si dice: “costa meno di uno psicologo” (ride, ndr). 

Come valuti l’attuale epoca discografica che stiamo vivendo?
È un periodo strano, di transizione. Si potrebbe dire che sia un periodo di crisi, ma non c’è crisi senza opportunità. Oggi, tutto dell’apparato dell’industria discografica viene messo in discussione, i ruoli cambiano, vecchie figure professionali muoiono e ne nascono di nuove. Probabilmente non c’è mai stato un periodo storico migliore per creare musica, perché i mezzi per farlo oggi sono alla portata di tutti, non ci sono più barriere. Dall’altro lato, chi decide di fare musica oggi deve fare i conti con una profondissima frammentazione del pubblico e con il fatto che, probabilmente, i “numeri” di un tempo non saranno mai più eguagliati. Si può puntare a cose diverse, a un modo di fare musica che sia sostenibile innanzitutto per chi la fa.

Peligro:
La copertina di “Sorrisi altrove”

A conti fatti, ci sono più pro o contro a portare avanti il proprio discorso musicale?
Se scrivere e fare musica è un’urgenza, un’esigenza, non c’è contro che regga.

Se dovessi scegliere un’epoca del passato, quale decennio sarebbe più vicino al tuo modo di intendere la musica?
Sembrerà strano, ma proprio perché ho fatto mie le opportunità di cui parlavo prima, penso che l’epoca giusta sia proprio questa. Non sono particolarmente nostalgico del passato… un tempo fare musica era qualcosa alla portata di pochi. È vero che c’era un mondo intero da scoprire e da inventare, ma chi può dire che avrei avuto il privilegio di portare avanti un discorso musicale, se fossi nato in un periodo storico diverso?

Tornando al presente, sono passati oltre quattro mesi dal lancio del tuo disco “Mietta sono io”, qual è il tuo personale bilancio?
Penso che il meglio debba ancora venire, ma il bilancio non può che essere in attivo. Sia a livello quantitativo che a livello qualitativo sto ricevendo dei feedback molto importanti, e questa è benzina per il mio motore.

A tu per tu con la giovane artista romana, impegnata con la promozione del suo ultimo singolo “Nomentana”, composta a quattro mani con Zibba

Frances Alina:
Spazio Emergenti: Frances Alina si racconta ai lettori di Musica361, approfondiamo la sua conoscenza

Racconta le sue fragilità e il modo in cui ha superato le proprie difficoltà Frances Alina Ascione, talentuosa artista nata negli Stati Uniti ma cresciuta nel nostro Paese. Una passione per la musica trasmessa per via materna, espressa con grande determinazione in tutte le sue esperienze professionali, tra cui la partecipazione alla quarta edizione italiana di The Voice e la presenza fissa nel programma Radio2 Social Club con Luca Barbarossa. In occasione del lancio discografico di “Nomentana” (distribuito da Believe Digital per la label Platonica), abbiamo incontrato per voi la giovane cantante per scoprire le sensazioni e il suo attuale stato d’animo.

Ciao Frances, partiamo dal tuo nuovo singolo, com’è nato e cosa rappresenta per te?
Ciao! “Nomentana” nasce dall’incontro alquanto casuale con Zibba, il quale si è rivelato un grande artista con cui collaborare e da cui imparare, ma sopratutto un amico. Ci siamo incontrati con l’intento di fare tutt’altro e a sorpresa in poche ore è uscita fuori questa canzone. È nata in modo molto naturale perché è partito tutto da una chiacchierata sincera e confidenziale, che abbiamo poi messo in musica.

C’è una veste precisa che avete voluto donare al pezzo a livello di sound?
A dire il vero non ci abbiamo pensato molto. Sicuramente siamo partiti entrambi con l’idea di rimanere nel mondo “Black” e di fare qualcosa che fosse molto minimale, però il mood e il sound un po’ scuro sono venuti fuori da sé, man mano che scrivevamo strofe e ritornello.

Quale stato d’animo esprime il testo della canzone?
“Nomentana” esprime un chiaro senso di disagio e inadeguatezza. Stato d’animo che personalmente provo un po’ da sempre in molte circostanze, da quando sono bambina, essendo piuttosto timida e riservata. Negli ultimi anni questa sensazione si è decisamente accentuata, specialmente da quando lavoro nel mondo dello spettacolo, dove le aspettative sono alte e l’apparenza e la sicurezza giocano un ruolo importantissimo. In una società che si misura in “like”, dominata dall’ostentazione e dalla fame di approvazione, essere interessanti è diventata una regola, una cosa assolutamente normale. Ora tutti, principalmente tramite i social, riescono a sembrare quotidianamente “speciali”. Ecco, spesso in questa situazione sento di non avere nulla di importante da dire.

Frances Alina: 1
Frances Alina Ascione

Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti il livello generale dell’attuale settore discografico?
Sinceramente dopo varie peripezie che ho avuto nel mio percorso e diversi errori commessi, sono alquanto disillusa ma fortunatamente serena. Voglio solo fare cose che mi divertono e che mi rappresentano, con persone che mi stimolino, senza grandi aspettative. Sto lavorando molto ultimamente e mi sento fortunata nel mio piccolo. Per quanto riguarda il panorama discografico italiano attuale, posso dire che mi fa molto piacere constatare che la musica e le produzioni indipendenti stiano facendo da contraltare al meccanismo dei talent (che da anni domina e monopolizza la discografia italiana) e si stiano creando uno spazio stabile e strutturato nel settore, che diversamente sarebbe alquanto arido.

Nonostante la tua giovanissima età, di palchi ne hai calcati veramente tanti. Quanto conta davvero la parola “gavetta” oggi?
Ovviamente penso sia fondamentale. Da subito ho iniziato a fare molti live nei club e nelle piazze, che sono stati la mia scuola e la mia palestra. Però, posso dire di aver trascurato per molto tempo il lavoro in studio e su me stessa, o meglio non ci ho creduto molto. Al giorno d’oggi i ragazzi sono molto fortunati perché con la tecnologia e i mezzi di comunicazione che esistono possono esprimersi al massimo ed esporsi facilmente. Ovviamente tutto questo deve essere coniugato al lavoro e al contatto fisico con le persone e il pubblico.

Tra l’esperienza televisiva di The Voice e quella radiofonica di “Radio 2 Social Club”, in quale ti sei sentita maggiormente a tuo agio?
Sicuramente il mio lavoro a Radio2 è fantastico! È un ambiente bellissimo. Davvero. Il programma è avanti anni luce, valorizza al massimo una cosa che a volte sembra quasi antica: la musica live. So per certo che tre anni fa non sarei stata capace di affrontare questa esperienza. C’è un tempo per tutto. Per quanto riguarda The Voice posso dire che mi ha dato tanto, l’ho apprezzato tantissimo e mi sono divertita. È stata un’esperienza molto formativa, che mi ha dato anche visibilità. Tornando indietro lo rifarei, anche se non ho mai amato i talent e penso che a volte potrebbero essere molto pericolosi.

Frances Alina: 2
L’artista è attualmente in rotazione radiofonica con il singolo “Nomentana”

Qual è la lezione più grande che hai appreso dalla musica?
È una domanda difficile! (ride, ndr). Probabilmente non so ancora dare una risposta. La musica per me è sempre stata un rifugio e uno sfogo, non un luogo sicuro, questo no. Quando sei davanti alle persone a esibirti o quando fai sentire a qualcuno la tua musica sei assolutamente nuda e vulnerabile e devi essere forte. Non è stato facile per me e a volte non lo è tuttora perché, come ti ho già detto, sono sempre stata molto timida e insicura ed è un lato di me che credo rimarrà sempre.  Forse la musica mi ha insegnato ad essere, per forza di cose, meno suscettibile e a fare quello che voglio per me stessa e non sempre e solo per gli altri.

Se ti guardi allo specchio, oggi, quale immagine vedi?
Domanda ancora più difficile e più imbarazzante (ride ancora, ndr), non lo so proprio. In questo momento non sto lì a guardarmi allo specchio e a chiedermi cosa vedo… Sicuramente una donna ansiosa e sempre a 300 all’ora!

A tu per tu con la nota criminologa, per approfondire il ruolo sociale e terapeutico di questa significativa forma di espressione artistica, tra psicologia e sentimento

Roberta Bruzzone: “La musica? Strumento ideale per veicolare messaggi importanti”
Roberta Bruzzone: “La musica? Strumento ideale per veicolare messaggi importanti”

Psicologa forense e criminologa investigativa, questo e molto altro ancora è Roberta Bruzzone, autentica professionista del settore ma anche una donna determinata e appassionata: della vita, del suo lavoro, delle due ruote e, infine, anche della musica, come ci rivela in questa piacevole informale intervista. 

Qual è il tuo rapporto con la musica?
Mi accompagna da sempre, ho dei pezzi che sono collegati ad alcune persone e momenti particolari della mia vita, ogni volta che casualmente passano in radio vengono fuori ricordi che mi riattivano emozioni molto profonde. Credo che sia uno strumento potentissimo a livello comunicativo, tra i più efficaci che esistano. Personalmente ho un legame molto forte con la musica, purtroppo ho poco tempo per ascoltarla.

Da psicologa, credi nel concetto del “dimmi che musica ascolti e ti dirò chi sei”?
Si, credo proprio di sì. Indubbiamente ci sono dei gusti musicali particolarmente rivelatori dal punto di vista personologico, quando un individuo sceglie un genere alternativo o trasgressivo ha fondamentalmente poco a che fare con l’armonia, molto spesso si tratta di soggetti che hanno dei problemi profondi di disagio che non sono mai stati elaborati, quel rumore in qualche modo riesce a sedare, seppur temporaneamente, l’angoscia che provano. 

Cosa pensi della musicoterapia?
Guarda, l’ho vista applicata in determinati casi, per cercare di aiutare la persona a disinnescare lo stato d’ansia per evitare di arrivare all’attacco di panico vero e proprio. E’ un fenomeno legato alla prevenzione, quando il paziente comincia a sperimentare l’aspetto iniziale, vale a dire quella punta di irrequietezza che rapidamente può indurti ad uno stato di ansietà. L’ascolto di una determinata e accuratamente selezionata playlist può rievocare nella mente del soggetto, in modo molto efficace, una serie di esperienze positive e profonde, ideali per contrastare l’angoscia. 

L’amore tormentato è spesso fonte d’ispirazione per autori di canzoni che, puntualmente, catalizzano l’attenzione del pubblico. Secondo il tuo personale punto di vista, per quale motivo?
Perché rappresenta un modo per metabolizzare certe situazioni, diversi testi di canzoni sono stati più utili delle sedute di psicoterapia. E’ difficile lasciare andar via qualcuno a cui tieni, che tu sia parte attiva o ancor più passiva, molti pezzi tra quelli di maggior successo parlano proprio di storie finite, probabilmente la persona nel riascoltare il brano viene aiutata ad elaborare questo lutto sicuramente travolgente, da cui ci si può sempre rialzare. Mi viene in mente “Questo piccolo grande amore” di Baglioni, ma tantissimi altri pezzi sono entrati indubbiamente nell’immaginario collettivo, perché rappresentano gli stereotipi di quel che accade quando una relazione volge al termine. 

La musica è la compagna della nostra vita, scandisce sia momenti belli che brutti, c’è una canzone alla quale ti senti maggiormente legata?
In realtà ci sono due pezzi che trovo molto rappresentativi per il mio percorso di vita: per restare in ambito italiano “Gli angeli” di Vasco Rossi, canzone che faccio fatica ad ascoltare perché mi riporta ai miei trascorsi, in particolare a mia nonna che ho perso qualche anno fa; altro brano che mi accende le emozioni è “Hotel California” degli Eagles, per la storia che c’è dietro, partendo dal viaggio in moto essendo io un’appassionata harleysta, fino al significato della struttura che in realtà altro non era che una clinica sulle colline di Bel Air, dove tutti coloro che avevano vissuto una vita abbastanza sui generis, eccedendo con psicofarmaci, droghe e quant’altro, trascorrevano la parte finale della loro esistenza ricoverati in questo luogo dal quale non sarebbero più usciti. 

Cosa ti colpisce così tanto delle parole di questa canzone?
E’ un pezzo che mi porta a confrontarmi con il percorso della vita, mi reputo una persona con tantissima energia che potrebbe spaccare il mondo e credo anche di averlo fatto, più volte (sorride, ndr), ma adesso ho 45 anni e mi rendo conto che il tempo passa in fretta. Dal mio punto di vista mi sento ancora la dodicenne che impennava su una ruota, ma le esperienze e la mia professione mi hanno portato lontano da quel periodo spensierato e so che, prima o poi, dovrò fare i conti con il mio Hotel California. Non mi riferisco alla popolarità, ciò che mi spaventa è l’idea di non avere più l’energia di fare tutto quello che mi piace, la parabola discendente inevitabile che colpisce ognuno di noi, spero solo che si manifesti il più tardi possibile.

Il primo concerto a cui hai assistito e l’ultimo brano che hai scaricato da iTunes?
Il mio primo spettacolo musicale dal vivo è stato quello di Madonna nel ’90, allo stadio Delle Alpi di Torino insieme a mia cugina, ma non sono fatta per i concerti perché non amo la folla, la ressa e la confusione. L’ultimo brano che ho scaricato da iTunes, invece, è la colonna sonora di “Suicide Squad”, un film che mi piace tantissimo.

Tra i tanti casi di cui ti sei occupata, uno su tutti ha a che fare con la musica, ossia la triste vicenda di Luigi Tenco. Qual è la tua posizione a riguardo?
Personalmente lo ritengo un chiaro caso di omicidio, sono accadute cose che reputo raccapriccianti, sotto diversi punti di vista. Purtroppo è una vicenda che non si può più sciogliere, perché non sussistono le informazioni che potrebbero portare ad una soluzione. Onestamente non torna nulla di quello che è stato raccontato, una tale sequenza di alterazioni e di macroscopiche variazioni della scena del crimine non si sono mai ripetute in nessun caso al mondo, oltre ad una totale inosservanza di quelli che erano i protocolli già attuabili all’epoca. Personalmente credo che si sia trattato di un delitto passionale, i successivi suicidi di Dalida e del suo ex marito Lucien Morisse mi confermano questa ricostruzione. 

A proposito della pressione psicologica che un artista può subire a causa dei propri alti e bassi professionali, cosa pensi dei talent show?
Li considero dei tritacarne, la gente che prende parte a questi programmi non ha nessuna realistica possibilità di trasformare quel tipo di passione in una reale professione, la stragrande maggioranza di loro sparisce non appena i riflettori si spengono. Il problema reale è che nel mentre gli viene inoculata un’aspettativa che li proietta in un’ottica di un futuro successo, consensi che non avranno mai. Temo che sia un sistema destinato a produrre psicopatologie di matrice depressiva, le persone più fragili rischiano di precipitare in un baratro senza fondo. Trovo questo sistema di fare spettacolo profondamente pericoloso, perché si scontrano esigenze completamente diverse, il meccanismo favorisce palesemente l’aspetto economico, senza considerare minimamente il fattore psicologico di questi ragazzi.

La tua esposizione mediatica ti ha permesso di conoscere vari personaggi dello spettacolo, ci sono cantanti con i quali hai legato?
Ho un’amicizia con Valerio Scanu, che apprezzo perché è un ragazzo coraggioso e davvero molto in gamba, sta facendo un percorso interessante e quello che ha ottenuto è tutta farina del suo sacco, un aspetto lodevole e non del tutto scontato oggi.

Tra i fenomeni musicali in voga in questo momento c’è la trap…
Non so neanche cosa sia… (prendo il cellulare e le mostro qualche video di alcuni esponenti del genere, ndr). Ne vengo a conoscenza soltanto ora, confesso questa mia lacuna, anche se francamente credo di riuscire a sopravvivere e di potermene fare tranquillamente una ragione. Diciamo che quel poco che ho ascoltato mi è bastato per farmi un’idea a riguardo: se sono dispensatori di messaggi di questa entità, spero vivamente che possano sparire al più presto dalla circolazione. I nostri ragazzi hanno bisogno di esempi positivi, non di bulletti da quattro soldi che pensano di aver raggiunto chissà che cosa e sono destinati all’oblio molto rapidamente. Sono soggetti pericolosi perché hanno potere di fascinazione nei confronti dei giovanissimi, che in questa fase dovrebbero cibarsi di concetti ben diversi. 

Per concludere, l’arte può ancora influenzare positivamente la massa?
Certo che si! Tutto ciò che è comunicazione è in grado di smuovere coscienze, qualsiasi forma d’arte rappresenta una metodo di comunicazione, i contenuti sono oltremodo fondamentali. La musica andrebbe utilizzata per veicolare messaggi importanti, specie in quest’epoca in cui c’è bisogno di segnali positivi, senza accentuare tutta una serie di aspetti ignobili del comportamento umano, che poi si ripercuotono nella realtà e generano tanta sofferenza.

A tu per tu con il gruppo parmense, reduce dal lancio del primo disco “Qualunque cosa sia”, disponibile in fisico e digitale a partire dal 12 ottobre

I Segreti:
Spazio Emergenti: I Segreti si raccontano ai lettori di Musica361, approfondiamo la loro conoscenza

Si intitola Qualunque cosa sia il disco che segna il debutto discografico de I Segreti, band di Parma composta da Angelo Zanoletti (voce, tastiera e synth), Emanuele Santona (basso) e Filippo Arganini (batteria). Tra gli otto inediti, spiccano i primi tre singoli estratti: “L’estate sopra di noi”, “Vorrei solo” e “Torno a casa”, brani che hanno totalizzato oltre 550.000 ascolti su Spotify. 

Ciao ragazzi, partiamo dal vostro album d’esordio, un punto di partenza?
“Qualunque cosa sia” è il nostro primo disco, quindi è anche un punto di partenza, nato a cavallo tra il 2017 e il 2018, a metà tra la nostra sala prove nelle campagne parmensi e lo studio di registrazione a Milano. Inizialmente pensavamo di fare semplicemente un EP, ma avevamo già scritto qualche altro pezzo e, insieme al nostro produttore, abbiamo deciso di realizzare un vero e proprio album.

Quali sono le tematiche predominati e che tipo di sonorità avete scelto per raccontarle?
I pezzi parlano di emozioni, di sentimenti, in generale sono molto introspettivi. A tal proposito abbiamo deciso di chiamarci “I Segreti”, per dare uno sfondo a queste canzoni. Abbiamo dato maggior risalto a synth e tastiere, è un disco molto suonato, dalle sonorità a metà tra moderno e vintage. Cerchiamo sempre di equilibrare il sound fresco delle canzoni con dei testi intensi.

Come vi siete trovati a collaborare con il produttore Simone Sproccati?
Ci siamo trovati molto bene, è stato stimolante, una sfida a rendere le nostre canzoni in parte diverse da quelle che erano. Ci siamo dovuti mettere in discussione, abbiamo lavorato tanto insieme e lui ci ha aiutato a dare una forma al disco.

Da questo progetto sono stati estratti i singoli “L’estate sopra di noi”, “Vorrei solo” e “Torno a casa”. Quale brano, a vostro parere, esprime al meglio il vostro stile?
“Vorrei solo”.

Con quale spirito vi affacciate al mercato discografico e come valutate il livello generale dell’attuale settore musicale?
Siamo arrivati in punta di piedi, senza pretese ma con grande voglia di crescere e ritagliarci uno spazio sul mercato, nella speranza di portare il nostro messaggio a quante più persone possibili. È difficile valutare qualsiasi cosa, in quanto è tutto sempre in continua evoluzione.

Come vi siete conosciuti e quando vi è venuta in mente l’idea di creare una band?
Come quasi tutti i gruppi ci siamo conosciuti alle superiori. Volevamo semplicemente riempire i tempi vuoti con la nostra principale passione.

Quali album hanno ispirato e accompagnato il vostro percorso?
“Fuoricampo” – Thegiornalisti
“Marassi” – Ex-Otago
“Francesco De Gregori” – Francesco De Gregori
“Io tu noi tutti” – Lucio Battisti

I Segreti: 1
© foto di Iacopo Barattieri

Quanto conta per voi la dimensione live? Ci sono degli appuntamenti prossimamente in calendario?
Angelo: io prediligo la parte della stesura di testi e musica
Emanuele e Filippo: noi ci divertiamo in sala prove ma amiamo di più la parte live.

Tanti appuntamenti a partire dal 26 ottobre da Parma, al momento sono circa 20 date in giro per l’Italia (in aggiornamento), abbiamo voglia di incontrare gente ed esprimerci tramite la nostra musica.

Prendendo spunto dal nome della vostra band, qual è il segreto più importante che avete scoperto facendo musica?
Quando fai un disco devi saperti mettere in discussione, essere aperto agli input esterni rimanendo radicati alla propria essenza.

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