Intervista a Carlotta Tedeschi, giornalista e storica voce del Gr1 di Radio Rai

Carlotta Tedeschi: "Fate tornare la musica a respirare dal vivo"
Carlotta Tedeschi si racconta ai lettori di Musica361, il ritratto di una specialista dell’informazione

Umanità e professionalità non sempre vanno a braccetto, ma nel caso di Carlotta Tedeschi possiamo considerarle due doti ambivalenti. Giornalista e storica voce del Gr1 di Radio Rai, nel corso della sua longeva e intraprendente carriera ha intervistato numerosi personaggi del mondo della musica, ma non solo, dagli esordi con Il Roma fino alla recente esperienza di Radio Italia Anni ’60. Abbiamo il piacere di ripercorrere con lei le tappe fondamentali del suo percorso, ospitandola in questo diciassettesimo appuntamento della rubrica “Protagonisti in secondo piano.

A quando risale il tuo primo incontro con la musica?

La musica fa parte della mia vita da sempre, quando ero più giovane i miei non capivano come riuscissi a studiare con la radio accesa. Crescendo è rimasta una costante, ricordo che da adolescente i miei amici mi portavano dall’Inghilterra i primi 45 giri dei Beatles, ma fondamentalmente è partito tutto da bambina, quando praticamente vivevo perennemente con la radio accesa.

Come ti sei avvicinata, invece, all’informazione e al giornalismo?

Per caso, pur avendo un padre che faceva questo mestiere e che è stato direttore de “Il Borghese” per trentasei anni. Teoricamente, avendo frequentato la scuola per traduttori e interpreti, avrei dovuto fare tutt’altro, fino al giorno in cui un mio caro amico mi invitò a teatro per vedere uno spettacolo di Ennio Flaiano. La mattina dopo, quasi per gioco, provai a scrivere le mie impressioni. Portai questi fogli dattiloscritti a mio padre, che mi diede qualche consiglio, ma mi disse che tutto sommato andavano bene. Non so come sia successo esattamente, anche perchè successivamente ho fatto anche altri lavori, per poi entrare a far parte della redazione de “Il Roma” di Napoli, da lì è cominciato tutto.

Come si è evoluto negli anni il tuo mestiere?

Subito dopo il terremoto in Irpinia del 1980, questo glorioso quotidiano partenopeo chiuse i battenti. Mi iscrissi alle varie liste di disoccupazione, così cominciai a fare le prime sostituzioni in Rai e, piano piano, arrivò il contratto a tempo indeterminato per lavorare in radio.

Come si è evoluto, secondo te, il giornalismo in Italia?

Tanto per cominciare si è evoluto da un punto di vista tecnologico, calcola che quando iniziai avevamo le macchine da scrivere manuali, immagina il rumore dei tasti in redazione (sorride, ndr), fino a quando sono arrivati i primi computer. Un tempo utilizzavamo il Nagra, storico registratore che pesava circa quattordici chili, mentre oggi basta un semplice telefonino che pesa meno di 200 grammi.

E da punto di vista etico e morale?

Non so se si sia proprio evoluto, alle volte ho l’impressione che ci sia una rincorsa spasmodica per arrivare prima degli altri, cosa che non serve a nulla, poiché le notizie vanno sempre verificate e per farlo ci vuole tempo. Io mi auguro che questo si faccia ancora, perchè non si può prendere tutto per oro colato, bisogna essere sicuri che quello che si elabora sia vero. Penso che con l’avvento dell’informazione online sia nata una fretta che non fa bene al giornalismo, in più c’è un approccio troppo disinvolto e individuale, mentre una volta c’era più solidarietà tra colleghi.

Probabilmente perchè manca una vita di redizione e poi, diciamocelo chiaramente, rispetto al passato ci sono molti meno esempi validi da poter seguire. Quali sono stati i tuoi maestri e cosa hai imparato da loro?

Carlotta Tedeschi: "Fate tornare la musica a respirare dal vivo" 1Guarda, fortunatamente ne ho avuti diversi. Mio padre in primis, poi Luigi Necco, storica colonna del giornalismo napoletano, e il grande Sandro Ciotti, con cui ho seguito la mia prima diretta da Sanremo. Lui è stato un maestro anche per tanti colleghi, così come l’immenso Rino Icardi, forse troppo dimenticato, a lui devo l’aver perso la cadenza romana, perchè ricordo che una volta mi disse senza troppi giri di parole: “ma vieni da un sottoscala?” (ride, ndr). Poi, anche altri insegnamenti pratici su come respirare bene, ma soprattutto a livello etico. Ho imparato ad avere sempre rispetto delle persone, anche se c’era da fare una critica, occorreva esporla in maniera garbata. Devo ammetterlo, qualsiasi consiglio ricevevo, cercavo di assorbirlo come una spugna, proprio perchè mi faceva piacere che qualcuno mi desse una mano. Un atteggiamento che non ho visto spesso quando mi sono ritrovata, molto anni dopo, dalla parte opposta.

Forse, oggi si pecca un po’ troppo di saccenza e di esibizionismo…

Temo che il problema sia semplicemente uno, quello che cercavo di spiegare ai colleghi più giovani: la notizia non è il giornalista, bensì lo strumento per dare quella notizia. Ogni tanto bisognerebbe fare un passo indietro, almeno io l’ho sempre pensata così. Chi svolge questo mestiere, oggi, è diventato in qualche modo anche un personaggio, perchè viviamo nell’era dell’immagine, ma dipende molto da come decidi di costruire la tua professionalità. A chi vuole fare davvero questo mestiere non dovrebbe importare di essere riconosciuto per strada, soprattutto per quanto riguarda il mondo radiofonico. Qui ritorna il grande Rino Icardi, il quale diceva sempre che le voci della radio non devono avere una fisicità, bensì devono mantenere un certo mistero, mentre adesso tutto ruota più sull’immagine che sulla parola.

Tra le notizie che non avresti mai voluto dare, immagino, ci sia anche questa maledetta pandemia. Come pensi sia stata trattata dai media?

Tanto per cominciare stiamo parlando di un avvenimento eccezionale e inaspettato, che è piombato tra capo e collo, scompaginando qualsiasi cosa. Poi, piano piano, ci siamo un po’ tutti abituati a questa invasione di notizie, al punto che questa straordinarietà è diventata quasi una routine. Dopo più di un anno, credo che la questione vada affrontata decisamente con meno ansia, perlomeno senza trasmetterla a chi sta dall’altra parte. La situazione è talmente tragica da un punto di vista economico e lavorativo che, forse, bisognerebbe andare a trattare e pungolare certi argomenti di maggiore utilità.

In conclusione, ritornando all’argomento di partenza, quali credi sia la sua funzione della musica in un momento delicato come questo?

Una funzione vitale, è la compagna più bella che l’uomo possa avere. Fatela tornare il prima possibile a respirare dal vivo, perchè lo streaming o la televisione mettono uno schermo tra l’artista e il pubblico… e per me questa non è musica. All’aperto i contagi sono ridotti all’osso, per cui fatela tornare a vivere per piacere!

Quattro chiacchiere con Martino Iacchetti, leader della band milanese Il Moro

Il Moro
La band Il Moro si racconta ai lettori di Musica361, in occasione dell’uscita di “Filo di luce”

Tempo di nuova musica per Il Moro, gruppo musicale milanese oggi composto da Martino Iacchetti (voce), Tommaso Angelini (chitarra) e Stefano Caniati (batteria e percussioni). Filo di luce è il titolo del nuovo singolo rilasciato lo scorso 26 marzo, un brano che racconta la lotta quotidiana contro i disturbi dell’ansia, molto diffusi nella società odierna ma allo stesso tempo, in un certo senso, nascosti.

Quale significato attribuisci alla parola “ansia”? 

E’ sicuramente un termine che per me ha un’accezione negativa, che assume un significato solo se sta al fianco di parole come pericolo, preoccupazione, agitazione, paura, panico…ha anche un suono negativo. Insomma, non mi piace proprio. D’altra parte, però, quando ci convivi, è anche un qualcosa che piano piano impari a vedere e che ti accompagna nelle diverse situazioni della vita…sai che c’è. Dopo un po’ diventa una parola che conosci e che comprendi. Certo, questa non è la soluzione, ma è un grosso passo in avanti. 

In un momento storico delicato come questo, quale può essere la cura? 

Non sono né medico, né psicologo, né una persona esperta sui fatti e non ho nemmeno la presunzione di sapere cosa si deve fare per stare meglio in questo periodo così buio, perché ogni storia è diversa. L’unica cosa che mi sento di dire è che bisogna parlarne, farsi aiutare, analizzare il problema e le sue origini. Credo molto nella psicoterapia e la consiglio vivamente se si hanno le possibilità. Sto seguendo un percorso da diversi anni e senza quello non saprei come fare. Bisogna porre l’attenzione su questo aspetto, sempre di più, soprattutto adesso. C’è tanta gente che soffre e che non sa come uscirne, non si può far finta di niente e pensare che questi problemi siano meno importanti di altri. Bisogna offrire aiuti seri e fruibili da tutti. 

Pensi che una canzone come “Filo di luce” possa essere d’aiuto? Credi nel potere terapeutico della musica? 

Spero che “Filo di luce” possa arrivare al cuore di qualcuno e fare una carezza, come a non farlo sentire solo in quei momenti di oscurità. Spero che possa fare riflettere ed infondere il coraggio necessario per combattere queste situazioni e prima ancora per non nasconderle. Ho sempre creduto nella musica, la musica può fare ogni cosa. Il Dott. Gabriele Catania, fondatore della OdV “Amici della Mente”, che ci ha sostenuto in questo progetto, ha curato i suoi pazienti anche attraverso le canzoni di Fabrizio De Andrè e ne ha scritto libri molto interessanti. Ovviamente non basta la musica da sola, ma può essere una grande mano. 

Qual è l’aspetto che più ti affascina nella composizione di una canzone?

Il momento in cui prendi la chitarra, spegni ogni altro apparecchio presente in casa, apri le finestre e fai entrare aria nuova da fuori…ti siedi e cominci a suonare. Sei solo con te stesso, in piena libertà. In quel momento puoi dire quello che vuoi, senza preoccuparti di cosa penseranno gli altri. Una canzone nasce nella più totale intimità, almeno per me è così. E’ un momento unico. 

A livello di ascolti, ti reputi abbastanza onnivoro oppure tendi a cibarti di un genere in particolare? 

Direi di non essere un onnivoro, sono stato molto selettivo per parecchi anni, soprattutto nell’adolescenza ed immediatamente dopo. Lì mi abbuffavo di punk-rock e di tutti i suoi derivati e, contemporaneamente, di cantautorato italiano. Adesso, pur rimanendo orgoglioso ed ancora molto attaccato alle mie radici, ascolto anche altro, però senza mai spingermi troppo lontano dai miei riferimenti.

Se dovessimo definire “Filo di luce” con un’emozione o uno stato d’animo, quale sceglieresti? 

L’inquietudine, che non è uno stato d’animo fine a sé stesso, ma porta dentro di sé, nella parola stessa, la ricerca continua di un momento migliore.

Quattro chiacchiere con Antonio Gallo, casting director e autore televisivo, esperto organizzatore del pubblico per diverse trasmissioni nazionali

Antonio Gallo
Antonio Gallo si racconta ai lettori di Musica361, il ritratto di chi gestisce il dietro le quinte con abilità ed esperienza

Passione e professionalità, queste le principali skills maturate da Antonio Gallo nei suoi venticinque anni di attività nel settore dell’intrattenimento. Si è occupato dell’organizzazione del pubblico, concorrenti e comparse in molte trasmissioni televisive di successo, tra cui “Ok il prezzo è giusto”, “La sai l’ultima?”, “Passaparola”, “Stranamore”, “Verissimo”, “Paperissima”, “Top of the pops”, “L’isola dei famosi”, “X Factor”, “The Voice of Italy”“Italia’s Got Talent”. Nel 2012 fonda e amministra la società AG MEDIA srl. Abbiamo il piacere di approfondire la sua storia professionale, ospitandolo in questo sedicesimo appuntamento della rubrica Protagonisti in secondo piano“.

Quando ti sei avvicinato a questo mondo e come si è evoluto nel tempo il tuo mestiere?

Ero giovane, dopo aver compiuto la maggiore età, ho cominciato a bazzicare l’ambiente partecipando come pubblico. Sin da piccolino ero appassionato di televisione, guardavo tutti gli show e le trasmissioni più importanti. Quando ho potuto ho cominciato a far richiesta alle varie produzioni, chiamando i centralini e i vari numeri che apparivano sullo schermo. Il primo programma a cui ho preso parte è stato “Super” condotto da Gerry Scotti, che andava in onda la domenica, ma registrato al venerdì. Piano piano ho cominciato a portare degli amici, fino a quando l’organizzazione mi ha chiesto se avevo voglia di dare loro una mano reclutando il pubblico. Per gioco ho accettato e, a distanza di un po’ di anni, sono ancora qui (sorride, ndr).

Hai sicuramente costruito una professione, essendo stato uno dei primi a svolgere questa tipologia di lavoro..

Sai, prima funzionava in modo diverso, le trasmissioni avevano dei figuranti retribuiti, le produzioni spendevano un sacco di soldi. La mia proposta è stata quella di ottimizzare, cominciando con il pubblico ad invito, così sono stato tra i primi pionieri ad utilizzare questo metodo, che permette alle produzioni di risparmiare, ma soddisfa anche la richiesta di un sacco di persone che, come me, sono appassionate di tv e sono disposti a partecipare come pubblico anche gratis.

Antonio Gallo 1La tua agenzia si occupa di gestire anche l’animazione del pubblico?

Dipende, di norma la fase dell’animazione è organizzata quasi sempre anche dalla società che si occupa del pubblico, perchè di solito viene offerto alla produzione un pacchetto all inclusive. Si tratta di ragazzi che provengono dai villaggi turistici, il loro ruolo è quello di scaldare il pubblico prima della trasmissione, oltre che farlo interagire e applaudire durante la registrazione o la diretta.

Venendo alla pandemia, quali sono le principali criticità del tuo settore?

Il nostro è un settore in ginocchio, in tutto il mondo penso che sia quello più colpito e danneggiato, molto più del turismo o della ristorazione, anche se i media ne parlano poco, forse perchè si associa il mondo dell’intrattenimento al personaggio famoso, però ci sono tantissimi lavoratori che stanno soffrendo. Circa il 90% degli spettacoli è stato tagliato, eventi dal vivo non ce ne sono da oltre un anno. Per quanto mi riguarda, qualcosa piano piano si sta muovendo, anche se le trasmissioni al momento ospitano soprattutto figuranti e non il pubblico ad invito. Si lavora come prima, se non di più, ma con numeri decisamente diversi.

In questo ultimo anno abbiamo visto tante trasmissioni senza pubblico, tra cui lo stesso Festival di Sanremo…

Ho provato tanta tristezza e tanta povertà sia guardando le trasmissioni senza pubblico che i concerti in streaming, forse ci siamo resi finalmente conto dell’importanza di un applauso in presenza. Sembra una cosa irreale, brutta. Il conduttore anche più bravo del mondo, senza pubblico perde moltissimo, lo abbiamo visto anche a Sanremo, nonostante la grandezza di Amadeus e Fiorello, la mancanza del pubblico si è sentita. Speriamo di tornare presto alla normalità, perchè questo non è vivere… ma sopravvivere.

Emotivamente parlando, cosa hai provato nel guardare in questi da casa gli studi televisivi vuoti? Te lo chiedo sia da appassionato che da professionista del settore

In entrambi i casi una grande tristezza, così come per la chiusura dei teatri e dei cinema. Vedere delle trasmissioni senza la presenza anche di poche persone, ha sottolineato la mancanza di calore e quanto il pubblico faccia davvero la differenza. Per non parlare della perdita economica causata a me, ai miei collaboratori, ai colleghi e a tutto il settore. Però stringiamo i denti e cerchiamo di affrontare tutto con il sorriso, di non perdere mai questo sorriso… perchè si vede anche sotto la mascherina, te ne accorgi dallo sguardo.

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Quattro chiacchiere con Virginio, al suo ritorno musicale con il singolo “Rimani”, brano che inneggia all’affermazione di sé stessi

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Virginio si racconta ai lettori di Musica361 © foto di Giuseppe Foglia

Dietro ogni fine c’è sempre un nuovo inizio, Virginio racconta questo tipo di presa di coscienza in Rimani, abbracciando lo spirito che ha contraddistinto i suoi esordi, impreziosendolo di maggiore consapevolezza e maturità. Il brano, disponibile a partire dallo scorso 2 aprile, è solo il primo assaggio del disco al quale sta lavorando insieme alla sua nuova etichetta MP FILM SRL.

“Rimani”, una parola che hai più volte pronunciato o che ti sei sentito più spesso rivolgere?

E’ una parola che dico difficilmente, perchè sono molto orgoglioso, essendo un acquario. Questo presuppone che io sia un po’ diffidente, un po’ sulle mie e, soprattutto, molto molto orgoglioso (sorride, ndr), il che non rappresenta sempre un lato positivo. In realtà nella canzone dico “Voglio che qualcuno mi dica rimani” ma, per fortuna, mi è capitato di sentirmelo dire nel corso della mia vita, più di quanto possa averlo fatto io.

Hai mai pensato di dare questo brano a qualcuno o dal primo momento in cui l’hai scritto eri certo di volerlo tenere per te?

In realtà quando scrivo non penso mai se un pezzo possa essere per me o per qualcun altro, generalmente scrivo e basta, a parte casi particolari tipo quando lavoro insieme a qualche altro artista, come nel caso di Laura Pausini. Con la mia etichetta MP Film abbiamo provinato diversi brani, ma questo pezzo in particolare ritornava sempre, era come se mi stesse cercando. A questo punto, evidentemente, aveva bisogno di uscire.

VirginioConsiderate le tue esperienze e i tuoi precedenti viaggi, a che tappa del tuo percorso senti di essere arrivato? 

Sai, quando sei preso completamente da un viaggio non riesci a capire bene dove ti trovi, forse lo realizzi nella tappa successiva. Oggi mi sento sicuramente un po’ più a fuoco, perchè ovviamente l’esperienza e l’età ti aiutano a vedere le cose in modo differente. Per carattere non guardo mai le situazioni in maniera distaccata, non mi piace, preferisco vivere più di pancia, anche se poi apparentemente posso sembrare pacato, in realtà non lo sono per niente (sorride, ndr), sono abbastanza discolo. Questo perchè mi piace ricevere la classica botta allo stomaco e sentirmi sempre in continua evoluzione.

Quali skills pensi di aver acquisito grazie all’esperienza di Tale e quale Show?

Sai, ho accettato questa sfida di Carlo Conti perchè in realtà la consideravo un ampliamento, di fatto così è stato. Proprio come quando collaboro e scrivo con o per altri artisti, immedesimandomi nella loro mente e nel loro linguaggio. “Tale e quale” per me ha rappresentato la stessa cosa, seppur all’ennesima potenza. E’ stata un’esperienza al di sopra delle mie aspettative, mi sono divertito parecchio e sono felice della reazione positiva del pubblico, perchè era un po’ di tempo che non facevo televisione, ricevere così tanto calore fa sempre piacere.

Coltivi altre passioni oltre la musica?

Guarda, amo molto disegnare, ho fatto l’Accademia delle Belle Arti, tra l’altro mentre stiamo parlando sto buttando giù qualche schizzo a matita (sorride, ndr). Poi ho studiato per cinque anni recitazione teatrale, una passione che ho sempre avuto e che, pur non coltivandola, mi resta addosso. Chissà se un giorno mi avventurerò anche in questo, per adesso c’è la musica e per me non conta nient’altro.

Se dovessimo definire “Rimani” con uno stato d’animo, quale sceglieresti?

Uno stato d’animo di consapevolezza, ma sicuramente anche di libertà. Ecco, direi la consapevolezza che poi porta alla libertà di pensiero.

Quattro chiacchiere con Alessandra Carnevali, alla scoperta della sua duplice passione per la musica e per la scrittura

Alessandra Carnevali
Alessandra Carnevali si racconta ai lettori di Musica361, dal Festival di Sanremo ai romanzi gialli

Ci sono esempi professionali che vale la pena seguire, conoscere e approfondire. Alessandra Carnevali ha ricoperto ruoli diversi, buttandosi sempre a capofitto in nuove avventure, mantenendo intatta la sua grande passione. Dalla laurea in lingue al CET di Mogol, passando per l’esperienza sul campo. Sanremo è casa sua, nel 2007 è stata la prima blogger accreditata al Festival, ma alla kermesse ha preso parte anche in veste di autrice e di ufficio stampa. Abbiamo il piacere di ripercorrere con lei le tappe fondamentali del suo percorso, ospitandola in questo quindicesimo appuntamento della rubrica “Protagonisti in secondo piano.

Partiamo dal principio, come ti sei avvicinata alla musica?

Da bambina, pensa che mia nonna mi faceva cantare nel salotto le canzoni di Sanremo. Il Festival era un appuntamento molto importante per lei, andava dal parrucchiere e si vestiva elegante per vederlo in tv (sorride, ndr), così sono cresciuta a pane e Festival per tutta la vita. Negli anni mi è sempre rimasto questo grande amore, soprattutto nei confronti della musica italiana, pur ascoltando anche cose straniere.

E la passione per la scrittura?

Ho cominciato a coltivarla un pochino più da grandicella, frequentando la scuola di Mogol, dove ho conosciuto suo figlio Alfredo, meglio noto come Cheope, grandissima persona e artista straordinario. E’ stata un’esperienza importante sia a livello professionale che umano, perchè mi ha dato degli strumenti importanti. Sempre in quell’occasione ho conosciuto Mario Lavezzi, altro talento che non ha bisogno certo di presentazioni. Lui mi ha fatto lavorare al primo disco di Leda Battisti, altra allieva del CET che stava riscuotendo un buon successo.

In qualche modo hai unito le tue due principali passioni: musica e scrittura…

Esatto. Successivamente ho cominciato a lavorare anche con il mio secondo marito, che è un musicista, producendo insieme Andrea Febo, un ragazzo che nel 2001 ha vinto l’accademia di Sanremo, venendo ammesso di diritto al Festival dell’anno seguente. Di conseguenza mi sono ritrovata in gara come autrice del testo di “All’infinito”, oltre che come co-produttrice. Era la prima volta che mettevo piede nella Città dei Fiori, puoi immaginare la gioia, considerata la passione che mi ero portata dietro sin dall’infanzia. Un’esperienza meravigliosa, una magia che non si è più ripetuta, almeno in quella formula.

Come sei passata dallo scrivere musica tua al raccontare la musica di altri?

Per pura casualità, nel 2005 mi sono ritrovata a guardare in televisione un’intervista di Marco Montemagno, fondatore di Blogosfere. Parlava di questa sua idea di creare un network di blog professionali, aprendo la possibilità a chiunque di potersi candidare. Senza pensarci due volte, ho mandato una mail spiegando il mio interesse per la musica italiana. Dopo qualche giorno mi rispondono chiedendomi di scegliere un argomento ancora più specializzato, così è nato il mio blog “Festival” ed è iniziata questa avventura.

Alessandra Carnevali 1Qualcosa in più di un semplice blog, mi piace definirla una finestra sul Festival di Sanremo e dintorni. Personalmente penso di essermi avvicinato alla scrittura leggendoti, perchè in ogni riga veniva fuori la tua passione viscerale, che credo sia sempre il motore di tutto. Come ha preso piede la cosa?

Non sai che piacere leggere queste tue parole, grazie. Guarda, ho cominciato con qualche biografia di qualche artista famoso, fino al giorno in cui mi sono ritrovata in mano la lista dei sessanta convocati di Sanremo Giovani del 2006, quando le audizioni all’epoca erano davvero blindate. Sfidando la sorte, decido di pubblicare la lista, cosa che non aveva mai fatto nessuno fino a quel momento. Non puoi capire cosa è successo dopo, le visite sono schizzate alle stelle.

Una volta saputi i promossi e i bocciati, mi sono inventata “Il girone dei cannati”, una rubrica che ospitava coloro i quali ritenevano di aver subito un’ingiustizia. Diciamo che il mio blog è diventato famoso proprio per questo motivo, da quel momento in poi la mia politica è stata quella di dare voce a chi non aveva spazio su testate più titolate. Ricordiamoci che all’epoca non c’erano ancora i social network, quindi chi veniva scartato non aveva diritto di replica o più semplicemente un piccolo spazio dove farsi conoscere.

Una fortuna ma anche un bell’azzardo, perchè non l’hai fatto sapendo che questo ti avrebbe portato un vantaggio, anzi…

Macché, ero convinta di andare in galera (ride, ndr), anche se era più forte la voglia di prestare un servizio. Adesso non sarebbe più possibile, perchè la lista dei giovani che arrivano alle fasi finali viene resa pubblica. Però quello che dici è vero, quella che inizialmente pensavo potesse essere la mia rovina, invece si è rivelata una fortuna. Nel 2007 sono stata la prima blogger accreditata al Festival nella sala stampa Radio e TV, ma negli anni il modo di fare questo tipo di informazione è molto cambiato. Adesso prevale il gossip, la fake news o la notizia gonfiata. Anche le canzoni non vengono valutate esclusivamente per quello che valgono musicalmente, ma per chi le interpreta, per cosa fa nella vita, per come si comporta, per come si veste, per quanto è presente sui social e per quanta polemica suscita.

Il ruolo stesso del blogger, forse, è passato di moda. Trovo che ci sia sempre meno passione e che le cose vengano fatte in maniera più accademica, per non parlare del notevole incremento di un certo tipo di protagonismo, che io reputo poco professionale. Quando sono partita per il mio primo Festival avevo con me un Nokia n70 e un Mac, non ero nessuno, non avevo conoscenze, gli uffici stampa non mi si filavano, quindi mi appostavo per strada o negli hotel e assaltavo i cantanti, portando a casa un lavoro infinito. Tornavo la notte in albergo e non sapevo più nemmeno come mi chiamavo dalla stanchezza, ma l’obiettivo era sempre quello di raccontare, di fare cronaca, non quello di mettermi in mostra. Quando gli addetti ai lavori lo hanno capito, sin dall’anno successivo, se non chiamavo io… cominciavano a chiamarmi loro.

Per non farti mancare niente, nel 2014 hai partecipato al Festival ancora una volta in un’altra veste, dall’altra parte della barricata, ovvero come ufficio stampa web di Antonella Ruggiero. Che esperienza è stata?

Bellissima, siamo stati tutta la settimana dalle monache alla Villa del Sole, un po’ fuorimano ma si mangiava benissimo. Ci siamo divertiti tanto, sia con Antonella che con suo marito Roberto Colombo, di una simpatia estrema. Per un’appassionata come me, avere accesso alla green room è stato uno spasso.

Poi ad un certo punto hai deciso di prendere un’altra strada, in che modo ti sei reinventata?

Avrei continuato se ci fossero stati i presupposti, anche perchè a me piace lavorare in un certo modo, in più i numeri erano dalla mia parte. Nella vita ho due passioni, una è la musica e l’altra è la scrittura, quando le ho potute unire ho lavorato ai testi delle canzoni, quando le ho dovute dividere ho fatto la blogger, per poi scoprirmi scrittrice. Anche in questo caso si è trattata di una pura casualità, perchè avevo scritto un paio di romanzi, così a tempo perso, senza avere una precisa idea in testa.

Alessandra Carnevali 2In perfetta buona fede e senza alcuna ambizione, ho deciso di inviare un giallo intitolato “Uno strano caso per il commissario Calligaris” al sito ilmiolibro.it, una piattaforma che ti da la possibilità di pubblicare online la tua opera, senza nessun obbligo, con la possibilità di partecipare ad un concorso con alcune grosse case editrici, dove chi vince viene pubblicato. Contro ogni mia aspettativa il mio romanzo si aggiudica il primo premio, inizio a collaborare con la Newton Compton. Le vendite del libro vanno molto bene, così comincio a scriverne un secondo, un terzo, un quarto e un quinto, ora ho appena finito il sesto. Sono molto contenta perchè il personaggio piace, la speranza successiva è quella di poter realizzare una fiction, chissà, è molto difficile, ma staremo a vedere.

Se dovessi spiegare ad una civiltà aliena cos’è il Festival, quali parole utilizzeresti?

Sanremo è un’inspiegabile meravigliosa follia, una sorta di liturgia che ogni anno sembra apparentemente uguale, ma si dimostra straordinariamente diversa. Pippo Baudo per me ne rappresenta il miglior sacerdote, anche se ci sono stati altri suoi eredi che hanno saputo mandare avanti degnamente questa sorta di messa cantata, ma lui potremmo definirlo il vero pastore della chiesa.

E questa ultima edizione come l’hai trovata?

Guarda, la tristezza si percepiva, anche se hanno cercato in tutti i modi di evitarlo, ma quella platea vuota ce la ricorderemo per un bel po’ di tempo. Amadeus e Fiorello hanno fatto quello che hanno potuto, la durata eterna non è dipesa certo da loro, però qualche canzone di meno… magari, sarebbe stata apprezzata. Secondo me, i Festival con le eliminazioni sono stati quelli più divertenti.

A proposito di attualità, un ultimo pensiero su quello che stiamo vivendo e sullo stop dei live?

Beh, la situazione è drammatica, mi auguro che si possa tornare presto dal vivo, in maniera contingentata e con i dovuto controlli. C’è un sacco di gente che ha bisogno di lavorare, tecnici e musicisti che non si possono permettere di aspettare la scomparsa definitiva del virus, sempre ammesso che questo accada. Finché non vedo non credo.

Intervista al gruppo musicale genovese, fuori con il singolo “Le chiavi di casa”, prodotto da Zibba

Zueno: "Vogliamo lasciar parlare la nostra arte" 1
Il trio degli Zueno si racconta ai lettori di Musica361, in occasione dell’uscita de “Le chiavi di casa”

Si intitola Le chiavi di casa il nuovo singolo degli Zueno, gruppo musicale composto da Alessandro Mazzeo (voce e chitarra ritmica), Andrea De Sotgiu (batteria) e Nicolò Mario Sgorbini (chitarra solista). Il brano, disponibile sulle piattaforme digitali a partire dallo scorso 23 marzo, si avvale dell’esperta produzione di Zibba.

Da quali considerazioni siete partiti partiti e a quali conclusioni siete giunti durante la composizione del brano?

Quando ti avvii verso i trent’anni è come se tutto ciò che hai attorno ti dicesse come devi vivere. A noi è sempre stato stretto non essere liberi di scegliere. Ci siamo fatti un esame di coscienza e abbiamo capito che la musica doveva rimanere l’unica strada percorribile, a discapito delle opinioni degli altri. Questa canzone ha al suo interno questa lotta interiore per arrivare ad accettarsi, e a farsi accettare, per come si è davvero.

Se dovessimo definire questa canzone con un’emozione, uno stato d’animo, quale scegliereste?

Un senso di ribellione a tutto ciò che viene definito “normale”. La normalità non esiste ed è sbagliato cercarla, ancor peggio imporla. Presa da un altro punto di vista potremmo dire che “Le Chiavi di Casa” è un inno al sentirsi diversi, originali, rari. 

Zueno: "Vogliamo lasciar parlare la nostra arte"
La copertina de “Le chiavi di casa”

Sia “Le chiavi di casa” che il precedente singolo “Cartolina” si avvalgono della produzione di Zibba, com’è lavorare con lui?

Lavorare con Zibba è una fortuna. Oltre ad essere un professionista meticoloso, è un buono, una persona altruista. Riesce sempre ad essere attento alle nostre esigenze e ad avere un gusto musicale così ampio da essere innovativo. Meriterebbe molto di più dal mercato musicale, una posizione di spicco, perché è veramente uno dei più bravi cantautori che abbiamo. 

A cosa si deve la scelta del nome del vostro gruppo?

Siamo felici che il nostro nome sia oggetto di curiosità, perché ci siamo sempre interrogati se andasse bene o meno. Quando abbiamo deciso di tenerlo abbiamo anche capito che verrà accettato da chi ci ascolta se saremo bravi a fare le canzoni. A noi interessa quello. “Zueno” è l’attaccamento alle nostre radici, la consapevolezza che non potremmo vivere da nessun’altra parte. 

Come valutate il vostro rapporto con i social network e in che modo, secondo voi, il web incide oggi in un progetto discografico?

Il nostro rapporto con i social network dipende proprio dal fatto che oggi questo incida particolarmente in un progetto discografico. Soprattutto in questo momento storico in cui non si può suonare dal vivo. Siamo consapevoli che il web ti dà delle possibilità incredibili, che siamo felici di utilizzare per veicolare al meglio la nostra musica. A livello personale, a sipario chiuso, preferiamo una vita offline, in cui restino vivi altri valori: respirare aria buona, seduti a un tavolo all’aperto con gli amici di sempre. 

Che ruolo gioca la musica nel vostro quotidiano?

Oggi la musica è presente al 70% nelle nostre vite. Sembra già parecchio detta così, ma a noi non basta, perché vorremmo vivere di questo. Oltre al progetto Zueno ci occupiamo di produzioni musicali e di scrittura di canzoni per altri artisti, due aspetti che ci piacciono molto. La volontà è quella, dopo tanti anni a dover incastrare mille lavori per sostenerci economicamente, di poter pensare solo alla musica e di lasciar parlare la nostra arte.

A tu per tu con il producer Giordano Colombo, per parlare del suo impegno professionale e del difficile momento che il mondo della musica sta attraversando

Giordano Colombo
Giordano Colombo si racconta ai lettori di Musica361, una vita spesa per la musica a 360 gradi

Passione e preparazione, queste le principali skills che Giordano Colombo ha acquisito in carriera, un viaggio iniziato tra le aule del conservatorio Giuseppe Verdi di Como, poi proseguito sul campo con una serie di prestigiose collaborazioni. Da Franco Battiato a Ligabue, passando per Raphael Gualazzi, Ermal Meta, Gazzelle, Ultimo, Francesco Gabbani, Arisa, Mika, Fulminacci, Laura Pausini & Biagio Antonacci, Max Pezzali, Samuel, fino ad arrivare al recentissimo successo di Musica leggerissima di Colapesce e Dimartino, prodotto insieme a Federico Nardelli. Abbiamo il piacere di approfondire la sua storia professionale, ospitandolo in questo quattordicesimo appuntamento della rubrica “Protagonisti in secondo piano.

Quando e come hai scoperto la tua tua passione per la musica?

Ho iniziato da piccolo, mio padre è batterista jazz, sin da quando ero in fasce sono stato circondato dalla musica. Durante le scuole medie mi sono avvicinato al pianoforte, per poi approcciarmi anch’io alla batteria. Parallelamente ho sviluppato una propensione per le produzioni e la registrazione, intraprendendo questo tipo di percorso con le band in cui militavo all’epoca. Piano piano, fino ad arrivare ad oggi.

C’è stato un momento preciso in cui ti sei accorto che poteva diventare la tua reale professione?

Un momento abbastanza importante è stato quando, all’età di venticinque anni, sono stato chiamato per suonare come batterista con Franco Battiato. Lì c’è stato un cambio di passo, ho capito che la musica poteva essere effettivamente un vero e proprio lavoro. Successivamente è stato un vero e proprio crescendo.

Ci sono degli incontri che reputi fondamentali per il tuo percorso?

Tra i tanti incontri, cito sicuramente Pino Pischetola, detto Pinaxa, ingegniere del suono e produttore che ha lavorato agli ultimi dischi di Battiato. In più tante collaborazioni con artisti che ho visto crescere, tipo Ermal Meta, con cui ho lavorato sin dallo scioglimento dei La Fame di Camilla. Poi anche Fulminacci, con lui c’è un bel feeling.

Giordano Colombo 1Oltre a Fulminacci, hai lavorato anche con Gazzelle, Ultimo e tanti giovani artisti che sono ormai una realtà del nostro panorama musicale. Secondo te, cosa possiede di particolare questa nuova generazione?

Credo che questa nuova generazione sia molto interessante, perchè ha qualcosa da dire e lo fa con le parole dei cantautori storici, ma in una chiave più attuale. Il grande successo che riscuotono oggi, penso sia dovuto a questa sorta di riattualizzazione di quello che era già stato fatto una volta. Per un momento sono venute a mancare nuove generazioni di cantautori, mentre negli ultimi quattro-cinque anni c’è stata una riscoperta di questo genere, sempre molto attuale.

E tu con che musica sei cresciuto?

Principalmente con la musica rock, da batterista ero un fan dei Blink-182 e dei Green Day, di tutto quel movimento punk-rock americano dei primi anni duemila, che ha accompagnato la mia adolescenza. Avendo frequentato il conservatorio e avendo un papà jazzista, ho acquisito parallelamente una cultura anche più classica. Non c’è stato mai stato un unico genere, la scelta è sempre stata ampia.

Quanto sono stati importanti per te lo studio e l’approfondimento?

Moltissimo, conoscere la musica ti permette di avere un vocabolario più ampio, di poter spaziare tra i generi, di fare più cose. Chi non ha studiato o ha poche conoscenze, magari, è più limitato e riesce ad esprimersi in un genere solo.

Di recente hai prodotto insieme a Federico Nardelli il brano “Musica leggerissima” di Colapesce Dimartino, pezzo che ha vinto moralmente l’ultimo Festival di Sanremo perchè sta spopolando, ovunque. Qual è il suo segreto?

Credo che la forza del brano sia questa apparente leggerezza, che in realtà è solo superficiale, perchè il contenuto è molto profondo. “Musica leggerissima” si presta a più livelli di lettura, se uno la ascolta in sottofondo percepisce la piacevole canzoncina, ma se si sofferma sul testo scopre un forte legame anche con l’attualità, con quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno e che ha coinvolto un po’ tutti. A livello di produzione, con Federico avevamo già lavorato alla produzione de “I mortali”, quindi con Lorenzo e Antonio eravamo già affiatati. Di conseguenza, il lavoro in studio si è svolto in maniera molto naturale, difficilmente si trova una tale sintonia, anche nel trovare con velocità le soluzioni giuste.

Giordano Colombo 2A proposito di attualità, qual è il tuo pensiero su quello che sta accadendo e, in modo particolare, sul mancato concreto sostegno ai lavoratori dello spettacolo?

Sicuramente è grande il dispiacere del non poter fare concerti. Purtroppo ci si rende conto che si tratta di una situazione più grande di tutto, più grande di noi. Lamentarsi sul fatto che non si possa suonare non serve a molto, esprimersi contro qualcosa o qualcuno non credo neanche sia la cosa giusta. Mi auguro che per questa estate si trovino delle soluzioni per poter realizzare dei live in maniera sicura, il più possibile. Lo stop ormai dura da tanto e ha messo in crisi musicisti, tecnici e professionisti che si sono ritrovati improvvisamente senza lavoro.

In conclusione, che ruolo può avere la musica in un momento delicato come questo?

Penso che la musica aiuti un po’ a staccare la spina dalle notizie che ci bombardano tutti i giorni. E’ un rifugio in cui tutti possiamo trovare riparo. Lo dico anche da fruitore, perchè personalmente ascolto musica per l’85% del tempo di una giornata, anche al di là del mio lavoro. Per me è davvero una compagna di vita.

Intervista al cantautore Modigliani, fuori con il suo album d’esordio intitolato “UNO”

Modigliani
Modigliani si racconta ai lettori di Musica361 © foto di Valentino “Enoc” Congia

Uno è il titolo dell’album d’esordio di Francesco Addari, alias Modigliani, disponibile negli store a partire dallo scorso 19 marzo. Nove tracce in scaletta che mettono in risalto le principali skills dell’artista, messe in risalto dalla produzione affidata a Valerio Smordoni e Samuele Dessì.

Da quali considerazioni sei partito e a quali conclusioni sei arrivato?

Le considerazioni dalle quali sono partito sono diverse. Alcune canzoni tra l’altro sono nate da sole, senza volerlo, quasi per magia. Non ho ancora voluto trarre delle conclusioni vere e proprie, ho bisogno di tempo e soprattutto ho bisogno di far ascoltare questo disco. Posso comunque dire che è stato un viaggio bellissimo, ma anche difficile, un po’ per quello che è successo fuori e un po’ per quello che è successo dentro di me in questi ultimi due anni.

Se dovessimo definire questo album con un’emozione, uno stato d’animo, quale sceglieresti?

Per fortuna credo ci siano diversi stati d’animo dentro a questo disco, altrimenti forse sarebbe stato un po’ monotono. Ci sono ansie, paure, insicurezze, ma anche tanto romanticismo e piccole botte di gioia e felicità. La sincerità delle canzoni di questo album credo sia il vero filo conduttore. 

Che ruolo gioca la musica nel tuo quotidiano?

Ovviamente gioca un ruolo molto importante, sono uno che ascolta tanta musica, mi fisso con i dischi che mi piacciono, arrivo ad ascoltarli anche una decina di volte in pochi giorni. Per quanto riguarda la mia musica, invece, la mia mente lavora in continuazione, non esistono pause vere e proprie. Gli incipit per scrivere una canzone possono arrivare da un film che sto guardando, da un libro che sto leggendo oppure da una passeggiata o addirittura da un sogno. 

Modigliani: "Scrivere canzoni è un processo magico"
La copertina di “UNO”

In un momento storico in cui necessariamente dobbiamo stare tutti un po’ più lontani, credi che stiamo riscoprendo il significato della parola unione così come il valore di un abbraccio?

Nei primi mesi del lockdown ho sentito un forte senso di unità e di unione, nella tragedia di quei giorni, che purtroppo non è ancora finita, sono riuscito a vedere anche qualcosa di bello e importante. Ci siamo sentiti tutti uguali, non c’erano differenze tra nord e sud, tra ricchi e poveri, tra giovani e vecchi. È stato un qualcosa di fugace però, mentre la pandemia continua quel sentimento si è perso o almeno io non riesco più a sentirlo. Gli abbracci invece torneranno e sono sicuro che saranno più lunghi, più calorosi e più importanti.

Come valuti il tuo rapporto con i social network e in che modo, secondo te, il web incide oggi in un progetto discografico?

Ho un rapporto strano con i social network, se devo essere sincero sto iniziando un po’ a stancarmi, sicuramente se non facessi il cantante li userei molto meno. Sono comunque diventati fondamentali e influiscono tantissimo in un progetto discografico, fin troppo, ecco questa è una cosa che faccio fatica ad accettare. Ci sono prodotti discografici che riescono ad arrivare a tantissime persone grazie all’ottimo utilizzo dei social network e non grazie alla loro qualità. Insomma stiamo rischiando di concentrarci troppo sulla vendita di un prodotto artistico piuttosto che sulla qualità vera e propria di quel prodotto.

Qual è l’aspetto che più ti affascina della fase di composizione di una canzone?

Mi piacciono molto tutte le fasi: quando si entra in studio e si lavora al vestito da dare alle canzoni, ascoltare quello che è stato fatto, decidere cosa togliere o cosa aggiungere. Ma quello che più mi affascina è la scrittura iniziale, quando sono da solo con me stesso e mi ritrovo a scrivere una canzone, è un processo magico.

Quattro chiacchiere con Paola Gallo, giornalista professionista nonché esperta conoscitrice e grande appassionata di musica

Paola Gallo: "La musica è una compagnia imprescindibile"
Paola Gallo si racconta ai lettori di Musica361, la sua carriera in pillole

Voce e penna della musica, questo e molto altro ancora è Paola Gallo, il giusto compromesso tra passione e preparazione. Giornalista professionista, dopo aver lavorato per quasi vent’anni a Radio Italia, attualmente è direttore artistico e responsabile editoriale dell’emittente radiofonica InBlu2000, del gruppo Avvenire-Tv2000, oltre che ideatrice del blog OndeFunky.com. In un mondo professionale sempre meno popolato da buoni maestri, il suo resta un bell’esempio di onestà, competenza e umanità. Abbiamo il piacere di approfondire la sua storia professionale, ospitandola in questo tredicesimo appuntamento della rubrica “Protagonisti in secondo piano.

Come ti sei avvicinata alla musica?

«Sin da piccolissima mi sono resa conto che la musica era per me una compagnia fondamentale. Non esiterei a definirla una dipendenza, una passione nata nei miei primi anni di vita, ma coltivata nel tempo. Crescendo è sempre rimasta un rifugio. Alle medie e al liceo, gli unici soldi che spendevo erano per i libri e per i dischi. Leggevo “Ciao 2001”, aspettavo le uscite, attraversando varie fasi, tipo c’è stato un periodo in cui rifiutavo la musica italiana, anche se fa ridere a dirlo considerando la mia successiva carriera.

Fai conto che i Pooh li ho conosciuti, sia musicalmente che personalmente, a Radio Italia. Era la mia prima intervista, ricordo che avevo scritto sulla mano i loro nomi per riconoscerli, perchè avevo paura di sbagliare (sorride, ndr). Poi ho recuperato, studiato e ascoltato. La mia forma di difesa è sempre stata l’approfondimento. Anche adesso, quando devo intervistare qualcuno ascolto sempre il disco, consapevole del fatto che non lo fa quasi più nessuno».

Com’è avvenuto, invece, l’approccio professionale con la musica?

«Molto semplicemente, avevo un caro amico che lavorava in una radio privata della provincia di Milano. Ho cominciato accompagnandolo, facendogli un elenco di canzoni che, secondo me, doveva mettere in onda. Queste mie prime playlist piacquero ai gestori della radio, così mi chiesero se volessi condurre anche io una trasmissione. E’ iniziata così, da questa mia grande passione. Tutto questo è diventata una vera e propria professione a Radio Italia, dove ho fatto il praticantato, diventando la prima giornalista professionista dell’emittente».

Nella tua biografia mi ha colpito la definizione: “sono nativa analogica ma ragiono digitale”. Quanto è cambiato il mondo della musica rispetto ai tuoi esordi?

«Secondo me non è cambiata la musica, è cambiato il modo di fruire la musica. Io sono nata analogica, i cinquant’anni li ho passati già da un po’, ma la curiosità che avevo quando c’erano i vinili è la stessa che riverso oggi nella musica liquida. Non sono mai prevenuta, penso che ci sia del buono sempre. E’ evidente che l’attuale velocità con cui si consumiamo le cose toglie del tempo all’approfondimento. Ciononostante, dal mio punto di vista, la musica e gli artisti non sono poi cambiati così tanto».

Paola Gallo: "La musica è una compagnia imprescindibile" 2Un tuo pregio è sicuramente la correttezza, unita alla cordialità, altrimenti non si spiegherebbero l’empatia, la fiducia e talvolta anche l’amicizia che hanno riposto in te artisti e addetti ai lavori. In che modo riesci a scindere il lavoro dalla vita, le notizie dalle confidenze personali? 

«Mi capita a volte di avere delle notizie in anteprima, che sono in realtà delle confidenze personali, proprio per questo non le svelerei neanche in punto di morte. Come spesso vedo fare sui social, in modo troppo pedante per i miei gusti. Il dover mostrare a tutti i costi che hai rapporti lo ritengo molto stancante, anche per chi lo fa. Quello che fa la differenza, secondo me, è saper guardare le persone davvero, per quello che sono realmente, questo credo si percepisca. Bisogna andare oltre al personaggio, saper guardare dentro, una dote a metà tra il giornalismo e la psicologia».

Esaltare la bellezza è un dono, una scelta controcorrente se consideriamo l’andazzo odierno, dove è molto più semplice asfaltare che dare risalto. Come spieghi questa tendenza a criticare chi tende a parlare bene e a valorizzare una determinata cosa, piuttosto che indignarsi davanti a chi parla ripetutamente male e tende a distruggere quella stessa cosa?

«Parto da una premessa, con Radio Italia ho lavorato per tanti anni in un vero e proprio salotto, dal quale passavano moltissimi artisti. E’ evidente che non tutti potevano piacermi, ma ho sempre cercato di trovare il lato positivo nei progetti delle persone che si sedevano accanto a me. Diciamo pure che per natura sono una persona educata, curiosa, pronta a rivalutare anche le mie idee. Mi da fastidio chi fa della critica una professione, chi deve a tutti i costi andare contro solo per fare numeri.

Chi urla si fa notare, ma sul lungo termine dura poco, mentre il buon professionista dura tanto. Io ne sono un esempio, perchè comunque ho creato un blog personale che riesce ad intercettare l’interesse di molte persone. In più, ho la possibilità di intervistare determinati artisti o di avere accesso a determinate situazioni che altre testate altrettanto piccole non hanno. Questo dimostra che se lavori bene, alla fine hai più durata di chi ha bisogno di sputare veleno per farsi notare».

Qual è l’aspetto che più ti affascina nel raccontare storie?

«Le storie stesse, i colori che hanno, le persone che rappresentano. Altrimenti cosa racconti?».

Semplice… parli di te stesso…

«Che palle però! Nel senso che… se non sai ascoltare e ti metti sempre in primo piano, secondo me, questo lavoro non lo fai bene».

Tra le storie che non avresti mai voluto raccontare, immagino ci sia questa maledetta pandemia. Che ruolo sta ricoprendo l’informazione?

«Credo che questa pandemia abbia solo evidenziato delle carenze strutturali che in Italia ci sono da tanto tempo, le stesse che la velocità e il benessere avevano messo in secondo piano. Una delle note dolenti, secondo me, è proprio la nostra professione, perchè non ha più la possibilità di essere esercitata e considerata come un tempo. Il giornalista dovrebbe essere la spina nel fianco del potere, in verità, se sei sottopagato, non tutelato e il tuo direttore ti dice: “dobbiamo fare click”, è chiaro che finisci per raccontare tutto molto male, in maniera sensazionalistica. Pandemia compresa.

Spero che questa situazione sia servita a rimettere un pochettino in ordine le priorità del nostro Paese, compreso le dinamiche che ruotano attorno al giornalismo. Che autorevolezza o libertà può avere un ragazzo che non ha un contratto e che guadagna due euro a pezzo? Chi lo tutela? Mi auguro che tutto il dolore che stiamo sopportando possa servire a qualcosa, almeno a risistemare certi aspetti che già prima non giravano nel verso giusto».

Purtroppo, nemmeno il nostro amato settore musicale se la sta passando bene, quali sono le tue principali preoccupazioni a riguardo?

«A volte ho il terrore che non ci sia l’ossigeno giusto affinché gli artisti possano creare, anche se sono certa al 100% che l’arte non possa morire. Ce lo dimostra la storia, anche nei periodi più bui sono nate opere straordinarie. Quindi, non sono più di tanto preoccupata dal punto di vista creativo, ma per tutti i lavoratori del mondo dello spettacolo che, di fatto, non hanno ricevuto alcun sostegno. Mi auguro che si cominci a considerare la musica come un’industria, al pari delle altre, ma al tempo stesso che sia considerata anche cultura, cosa che non accade spesso».

Paola Gallo: "La musica è una compagnia imprescindibile" 1Da circa un anno le conferenze stampa e le interviste si fanno tutte in remoto, quali sono i pro e i contro?

«Dei pro è indubbio che ci siano, perchè si abbattono sia costi che tempi, ad esempio considero un gran vantaggio il non dover cercare parcheggio per l’auto o il posto per la bici. I contro, invece, sono molto più evidenti, nel senso che viene a mancare il rapporto umano, sia con i colleghi che con gli artisti. Dal vivo c’è tutto un altro impatto, vengono fuori altre cose, un po’ come il discorso dei concerti in streaming. Poi, per carità, nella vita bisogna fare anche di necessità virtù, però uno spettacolo live è un’altra cosa, così come un’intervista o una conferenza in presenza, dove uno sguardo o una battutina con un collega fa la differenza».

Anche Sanremo lo abbiamo seguito in DAD, cosa ti è piaciuto di questa ultima edizione del Festival?

«Personalmente sono soddisfatta del risultato, anche se in parte mi ha stupito, nel senso che non mi aspettavo la vittoria dei Maneskin, anche se ho trovato il loro pezzo assolutamente centrato. Sono contenta del Premio della Critica a Willie Peyote, rimango dell’idea che il suo fosse il testo più degno per questo riconoscimento. Mi spiace molto per Fulminacci e Aiello, entrambi si rifaranno e avranno modo di dimostrare chi sono. Infine, come non citare “Musica leggerissima” di Colapesce Dimartino, credo che sulla lunga distanza siano proprio loro i vincitori morali di Sanremo 2021».

Hai seguito per ben venticinque anni il Festival in presenza, essendo un habitué, ti chiedo: se dovessi spiegare ad una civiltà aliena cos’è Sanremo, quali parole utilizzeresti?

«Io l’ho sempre definita come una gita scolastica globale del giornalismo musicale, che tradotto significa: un simposio dove tutti i professionisti del settore, dai più piccoli ai più grandi, dalla carta stampata al web, passando per le radio e le televisioni, si ritrovano per un’intera settimana a dare risalto alla musica. Una meravigliosa bolla, come la vuoi definire? Ho fatto moltissime trasferte lavorative, anche per eventi diversi tra loro, come la Mostra del Cinema di Venezia o il Salone del Libro di Torino, addirittura anche alle Olimpiadi, ma da nessun’altra parte ho trovato la stessa gioia fanciullesca tipica di Sanremo».

Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, a livello emotivo, che ruolo può avere la musica in un momento così complicato dal punto di vista sanitario, economico, politico e chi più ne ha più ne metta?

«Per me fondamentale, trovo che sia una condivisione necessaria per la nostra vita. Aver visto le frasi delle canzoni sui camici dei medici e degli infermieri, secondo me, è la traduzione di quanto la musica sappia tenerci la mano in qualsiasi momento. Ha varie funzioni, riesce a trasmetterti tanta energia, a consolarti, a rallegrarti. In questo la musica è davvero una compagnia imprescindibile».

Quattro chiacchiere con l’inedito trio dei Superfluuuo, in uscita con l’album di debutto intitolato “Discolo”

Superfluuuo 1
I Superfluuuo si raccontano ai lettori di Musica361, in occasione dell’uscita di “Discolo”

Si intitola ironicamente Discolo l’album di debutto dei Superfluuuo, trio composto da Edoardo Castroni, Giovanni Calaudi e Teodoro Giambanco. Un lavoro che arriva a meno di un anno dall’uscita del loro primo EP e che ci accompagna in un’immaginario psichedelico, suonato e pieno di colori.

In “Discolo” viene fuori tutta la vostra stravaganza. Pensate di aver trovato la vostra identità sonora oppure vi considerate in continua evoluzione?

Sicuramente ci sarà sempre una sorta di coerenza nelle cose che facciamo, perché siamo sempre noi, ma ci auguriamo che non prevarrà mai sull’incoerenza, che è l’aspetto più interessante della musica in generale. È bello stupire e stupirsi continuamente delle cose che si fanno, sia positivamente che negativamente. La continua evoluzione rende un qualsiasi progetto, musicale e non, più interessante.

Un album registrato su cassetta, senza l’ausilio di computer. Che valore aggiunto ha restituito al risultato finale questo approccio analogico?

Sicuramente un valore a livello sonoro, almeno per le nostre orecchie. Registrare su nastro è una metodo che ti fa approcciare alla produzione in modo totalmente diverso da quello del computer, dona un colore al suono unico, seppur non di massima qualità, impossibile da raggiungere con i vari plugins. Ogni singola traccia è stata registrata su casetta, ma poi l’editing è stato fatto su Ableton Live tranne che per l’ultima traccia, dove è stata usata la tecnica che usavano i primi compositori di musica elettronica negli anni 50, ovvero prendere le varie parti su nastro pre registrate e manipolarle (girarle, velocizzarle, rallentarle, ecc…).

Superfluuuo
La copertina di “Discolo”

Rispetto al vostro precedente EP, il sound è completamente diverso. Una scelta consapevole o una semplice crescita professionale?

Scelta consapevole. Volevamo immediatamente fare qualcosa di nuovo dopo l’EP e dopo aver ascoltato i provini dei nuovi pezzi ci eravamo resi conto che strizzavano troppo l’occhio, almeno a livello sonoro, alle canzoni appena pubblicate e questo non ci piaceva, quindi per puro divertimento e semplice curiosità abbiamo cambiato quasi totalmente strumentazione e stravolto il metodo di lavoro.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla vostra nuova musica in futuro? Avete intenzione di continuare a cambiare pelle?

Speriamo di riuscirci sempre, altrimenti vuol dire che non ci staremo più divertendo.

A cosa si deve la scelta del nome della vostra band?

Superfluuuo viene da superfluo, l’accezione fluorescente è arrivata dopo. Superfluo è, quindi, ciò che non è indispensabile. Un progetto non indispensabile nato dalla non indispensabilità della nostra esistenza come individui superflui in una realtà, culturale e musicale, non indispensabile.

Infine, cosa vi piacerebbe riuscire a trasmettere a chi ascolterà, in un momento come questo, il vostro “Discolo”?

Ventisei minuti di allucinazioni primordiali.

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