Aperta la call per la 27° edizione del Premio Lunezia
Il termine ultimo per presentare la propria candidatura è il 5 luglio 2021
Il Lunezia è un appuntamento della cultura musicale italiana che fu tenuto a battesimo da Fernanda Pivano, traduttrice, scrittrice, giornalista e critica musicale italiana.
Si tratta di un Festival unico nel suo genere. Nato con l’intenzione di premiare i testi delle canzoni, la rassegna evolve la sua tematica cercando nelle canzoni il valore Musical-Letterario.
Con la tesi della Musical-Letterarietà e con formule di ascolto come il Repican (REcita, PIano, CANto) il Lunezia è impegnato nella valorizzazione dell’arte-canzone secondo le precisazioni accademiche della Musical-Letteratura.
Non solo talent: Premio Lunezia 27a edizione
Il Premio Lunezia nasce dalle ceneri di Festivalando, un concorso canoro nazionale con sede in La Spezia.
Questo concorso (1990-1995) fu il primo in Italia a prevedere un conferimento ai testi delle canzoni.
La prima edizione del Premio viene vinta da Andrea Lo Vecchio con il testo Luci a San Siro noto per l’interpretazione musicale di Roberto Vecchioni.
Nato ad Aulla nel 1996, dal 2011 il Lunezia si è trasferito a Carrara con 3 serate alla fine del mese di luglio.
“Il Lunezia“, sintesi derivata da “Premio Lunezia“, vanta un palmares di raro paragone con oltre 150 big della musica italiana che hanno trovato meriti e si sono esibiti sul palco della tre giorni toscana.
Ad oggi, probabilmente, è l’unica manifestazione musicale al mondo a premiare le canzoni classificandole in vari generi.
Non solo talent: Premio Lunezia 27a edizione
Ogni anno il Lunezia premia Album e singoli brani per meriti Musical-Letterari, un parametro di valutazione ideato da questo Festival e ormai patrimonio della musica leggera italiana.
Oltre all’opportunità offerta al vincitore del Premio Lunezia, tutti i brani finalisti, 8 tra band e cantautori, otterranno la programmazione radiofonica a RAI ISO Radio. Le audizioni della fase Semifinale sono previste a Roma a Luglio.
La Direzione Artistica Nuove Proposte, affidata a Loredana D’Anghera, è inoltre al lavoro per ottenere nuove finestre mediatiche e tutte le migliori circostanze per procurare occasioni di collaborazione e promozione per i finalisti.
Nelle Semifinali e nelle Finali, i candidati saranno seguiti da produttori, artisti e critici musicali di indubbia fama.
Il vincitore potrà accedere alle fasi finali di “Area Sanremo”: la rassegna che offre due passaporti per il palco dell’Ariston.
Daniele De Giorgio un fotografo con l’attitudine a sperimentare: Arte e ricerca personale per affrontare nuove sfide
Daniele De Giorgio è uno sperimentatore che formatosi all’Accademia di Brera, trova nella fotografia il mezzo per esprimere la sua creatività e attitudine all’arte. Testardo, per sua stessa definizione, incontentabile e alla continua ricerca di nuove sfide, non si ferma neppure davanti alla difficoltà di “trovare un ago in un pagliaio”, perché lui lo smonta e l’ago, lo trova.
Viaggiare con lui è come fare le montagne russe, tra emozioni, provocazioni e una sensibilità palpabile e disarmante. Da bambino guardava con diffidenza il fotografo del suo paese, che trovava triste e con poca fantasia. Oggi la fotografia è per lui un mestiere ma anche e soprattutto, arte e ricerca personale.
Daniele ci “invita al viaggio” su una scacchiera, dove le caselle bianche e nere, e la loro schematica certezza, in realtà sono liquide e si aprono, come finestre, su un mondo a colori.
Daniele, raccontami di te…
Sono nato a Calcinate il 31 ottobre ’92 da genitori calabresi, per cui non mi sento né troppo bergamasco e neanche calabrese. Dopo il liceo espressi il desiderio di andare all’Accademia di Brera, ma i miei genitori mi chiesero di pensarci su e nel frattempo, di lavorare.
Sono sempre stato determinato e con cinquanta euro in tasca, investendone la metà per un biglietto del treno, andai in Liguria ad Albenga alla ricerca di un lavoro. Lì, pur non avendo esperienza, ho trovato un posto in un bel ristorante, dove ho esposto anche i miei lavori.
Per raggiungere il mio obiettivo, in quella stagione ho fatto di tutto, allestendo una mostra e promuovendo una raccolta fondi. Alla fine, riuscii ad iscrivermi all’Accademia.
Naturalmente non era ancora abbastanza, anzi avvertivo quasi un limite in tutto quello che avevo studiato. Da lì ho iniziato a farmi degli autoritratti fotografici, cercando poi un lavoro come assistente in uno studio fotografico dove mi si è spalancato un mondo: il mio.
Come è cominciata la tua passione?
Alle medie ho fatto il primo concorso di disegno, che guarda il caso, mi ha fatto vincere la prima macchina fotografica. Da quel momento ho scattato moltissimo, tutto e qualunque cosa, come un cinese in gita.
Avevo come riferimento, solo il fotografo del paese che ai miei occhi, era poco più che un guardone, relegato a foto senza anima e di routine ma per me, da subito, significò molto di più.
Qual è la tua qualità vincente?
Credo che la mia qualità più grande sia la costanza e la determinazione con cui perseguo i miei obiettivi. Quando decisi di lavorare in uno studio fotografico, ricevetti un sonoro, no come risposta. Questo non sapeva di essersi condannato da solo: l’ho stolkerizzato per settimane, finché ha ceduto, prendendomi per una settimana di prova pur di farmi smettere.
Poi mi ha assunto e sono stato io a cambiare, un anno dopo. Il mio motto è “se il pagliaio lo faccio fuori, l’ago lo trovo”. Scrivevo a tutti, sempre e comunque, cercando di fare esperienze nuove e diverse.
Daniele la fotografia per te cos’è?
In questo momento dove sono tutti fotografi, c’è chi sente che il suo lavoro è svalutato. Per me invece, è una sintesi momentanea del momento e di me stesso, di esperienze di vita che lasciano segni indelebili. La fotografia è un lavoro, che svolgo per gli altri, ma anche una forma d’arte e sperimentazione, per me.
Nonostante ci sia un ritorno al naturale e quindi a fotografie meno “ritoccate”, c’è sempre dietro un lavoro importante ed elaborato, di postproduzione. La fotografia commerciale, di moda, è frutto del lavoro professionale di molti.
La fotografia, come ricerca per me, rappresenta un’autoanalisi e poi anche analisi del momento. Ho usato la fotografia anche per scuotere gli animi, per provocare riflessioni, questa è la mia missione.
Siamo pronti a viaggiare con te attraverso le tue fotografie, le tue sperimentazioni… guidaci.
Interviste mute è una ricerca personale, che parte dal presupposto di non conoscere le persone che intervisto. Quando non conosci la persona, sei più libero, come una sorta di sospensione di giudizio. Io faccio domande e la macchina fotografica, autonomamente, ogni secondo scatta, in tutto circa mille foto, duemila.
Le sedute durano circa un’ora, dove in una sorta di roulette russa, raccolgo immagini. Generalmente sono amici di amici, un passaparola. L’audio non ci sarà, ma saranno solo immagini, montate tipo video, che racconteranno senza parole, la storia della persona.
Nessuna alterazione o artifici, solo correzione colore. L’opposto, in pratica, di quello che faccio per lavoro come fotografo di moda dove c’è tantissima post-produzione.
Tiziano Ferro e Violante Placido
Ho passato l’adolescenza ad ascoltare Tiziano Ferro e ripetevo a me stesso, che un giorno lo avrei conosciuto. Due giorni prima del mio compleanno, stavo partendo, mi arriva una telefonata e mi viene proposto di fare un servizio per lui.
Insomma, non l’ho solo conosciuto, ma ho lavorato per otto ore con lui e la fotografia che lo ritrae con Violante, è un posato che non era previsto ma che ha voluto fare perché gli è piaciuto il mio modo di lavorare.
A colpirmi, è stato il modo in cui lui e Violante si sono rapportati con me, con estrema naturalezza e voglia di incontro. L’umanità è la protagonista vera di quelli scatti, al di là della fama, della carriera, delle pose.
Cinque modelle per un set imprevisto e magico fatto di energia
Cinque modelle, in giro per Milano, senza un set definito. Siamo entrati in Vittorio Emanuele, dove è successa una cosa incredibile, testimoniata da questa fotografia.
Ho chiesto alle ragazze di camminare insieme e tutta la gente si è messa di lato creando una sorta di corridoio, rendendo gli scatti dinamici e fantastici. La spontaneità dei passanti ha creato, magicamente, un set ideale, tanto imprevisto quanto unico e speciale.
L’energia fa sì che le cose accadano nel migliore dei modi, sempre.
Il ragazzo albino per una fotografia fuori dagli schemi
Un ragazzo albino, per una foto fuori dagli schemi, dove, forte dei miei studi in Accademia, l’ho privato delle forme, trasformandolo in un mezzo cyborg dipingendo una persona irreale, immaginaria.
Di questo scatto, vado molto fiero, non solo per una questione di tecnica, ma per essere riuscito ad abbattere i limiti. Modificare la realtà è una base imprescindibile, la ragione per cui lavoro con la fotografia.
Dall’artificiosità al naturale, per rendere naturale qualcosa di molto complesso. Il risultato è la semplicità, che nasconde, però, una grande complessità.
La ragazza e le fotografie scattate da remoto
Uno scatto fatto durante il primo lockdown. Ho mandato un pony express con la macchina e il necessario, ho fornito alla modella, un tutorial make-up con Pablo Ardissone (make-up artist di Patty Pravo e la Principessa di Monaco).
Ho collegato la macchina al computer, gestivo l’inquadratura e chiedevo a lei di spostare la macchina, scattando, poi, da remoto. Non l’ho mai conosciuta, mi sono fidato (avrebbe potuto rubarmi tutto!).
Questa è una delle tante sfide, che sono linfa vitale nella mia vita. Superare il limite, raggiungere quello che mi sono prefissato, è uno stimolo continuo, irrinunciabile.
Quando ho un nuovo obiettivo, una nuova sfida, una nuova sperimentazione che mi frulla nella testa, non dormo, non mangio e spengo il telefono. Vivo per quello.
Il mio ritratto
Ci sono, sono io. Una fotografia che in qualche modo, nella semplicità, racchiude la mia essenza. Mi sento molto presente, un attimo che dichiara a me stesso con consapevolezza, quello che ho conquistato.
Oggi non ho paura del mondo e sono pronto ad affrontarlo. Ho scelto il bianco e nero, che si usa poco, perché rimanda alla fotografia analogica ed elitaria. Il mondo è a colori, scegliere il bianco e nero è una forma di protezione, di salvaguardia di me stesso.
Se dovessi autodefinirti, che cosa diresti di te?
Penso che la mia qualità, vera, sia non essere solo un fotografo, ma un artista che cerca di creare un mondo in ogni scatto. Lavoro molto su quello che posso comunicare. L’immagine può consacrare una carriera e anche distruggerla.
Sono affamato di conoscenza, adoro i dettagli che fanno la differenza. Sono un perenne insoddisfatto, cosa difficile da gestire e mi do fastidio da solo, ma questo è il mio motore, quello che mi spinge continuamente a fare.
Quando guardi dentro l’obiettivo cosa cerchi?
Se sono dei committenti, devo riuscire a creare un rapporto con quella persona, che mi guida, così, a trovare “la foto”. Una persona che non si apre, non si può fotografare. L’umanità è fondamentale, sempre. Quando si tratta dei miei progetti, a volte li vedo come attori, a volte voglio che siano loro stessi, a volte che aggiungano qualcosa.
La fiducia, comunque, è fondamentale e il lasciarsi andare, la conditio sine qua non. Mi piace poter offrire una lettura a più livelli, come per esempio il video delle interviste mute, che dà libero sfogo alla fantasia di chi guarda, potendo, addirittura immaginare parole osservando l’espressione o la mimica del protagonista.
Se idealmente immaginassimo di fare un viaggio attraverso la tua galleria fotografica, dove mi porteresti?
Ti porterei su una scacchiera: in equilibrio, saltando tra il bianco e nero, dove ci sono, nascoste, sfumature di colore e non di solo grigio. Una sorta di scacchiera fluida, come se fosse ad acqua. In quell’apparente certezza fatta di solo caselle bianche e nere, c’è un mondo a colori.
Ciao Daniele, che ci si veda ad Albenga o a Milano, è un arrivederci e…buon viaggio.
Articolo a cura di Paola Ferro
Dentro la canzone: Dik Dik “Gli Angeli”
Dik Dik: “Una vita d’avventura”, nell’inedito “Gli angeli” raccontano chi sono gli eroi di tutti i giorni
Ebbene sì, io me lo sono chiesto cosa fosse l’isola di Wight, cercandone persino la posizione geografica per sincerarmi della sua esistenza (quando ero piccola credevo si trattasse di una seconda isola che non c’è).
E ogni volta che alzando lo sguardo mi accorgo che il cielo è grigio inizio a canticchiare quasi in automatico l‘inciso di “Sognando la California”.
Questo perché certe canzoni hanno il potere di non invecchiare mai. Passa il tempo, cambiano le cose, ma la musica che ci ha fatto sognare 56 anni fa, continua a farlo ancora oggi.
Quella dei Dik Dik, band più longeva d’Europa dopo i Rolling Stones, è davvero una storia importante iniziata nel 1965 e che pagina dopo pagina continua ad essere scritta con garbo e passione.
Non a caso è recentemente uscito in cd e vinile “Una vita d’avventura”, dedicato a Pepe Salvaderi co-fondatore della band, recentemente scomparso.
L’attuale formazione è composta da: Lallo Sbriziolo, Pietruccio Montalbetti, Gaetano Rubino. Gli inediti del disco portano la firma del toscano Luca Nesti, con la collaborazione di Ele Matteucci, Maurizio Segurotti, Niccolò Bandini e dell’intera band.
L’album contiene 5 brani storici dei Dik Dik ri-arrangiati in chiave acustica e appunto 6 inediti tra cui “Gli angeli”, canzone particolarmente commovente e sensibile, di quelle che sanno toccare le corde dell’anima, semplicemente parlando al cuore e partendo dalla realtà che ci circonda.
Dopo la scomparsa di Pepe, avete mai pensato di accantonare il progetto?
No, anzi è stata una motivazione per concluderlo il prima possibile. Pepe credeva molto in questo lavoro e vi ha partecipato attivamente. Certo, avremmo voluto che lo finisse insieme a noi.
Chi ha scritto “Gli angeli”?
La canzone è stata scritta da Luca Nesti (che infatti la canta insieme a Lallo) tre mesi prima della pandemia, pertanto non si può dire sia stata dettata dall’emotività degli eventi dell’ultimo anno e mezzo.
Chi sono gli angeli?
Gli angelisono le persone che incontriamo ogni giorno, in una corsia di ospedale oppure sulle strade a difenderci con indosso una divisa. Sono quelli con lo stipendio base ma anche con un cuore grande, sono dei veri eroi.
Nel testo si parla di coloro che raggiungono il nostro Paese su “barche di legno, essiccate nel fango sotto la scorta del sole”, si allude al dramma del terremoto e si abbraccia idealmente chi “lotta per un pezzo di terra, per essere liberi per la dignità”.
Insomma, l’abbiamo scelta perché ha emozionato anche noi sin dal primo ascolto.
Quindi questi eroi di tutti i giorni svolgono una vera missione?
Decisamente sì. Sono in mezzo a noi ma dotati di una predisposizione particolare, non è facile essere disposti a salvare il prossimo, magari mettendo a rischio la propria vita, oltretutto “lavorando in perdita”.
Vi è capitato nella vostra “vita d’avventura” di incontrarne qualcuno?
Qualche volta sicuramente è successo, e forse non ce ne siamo neanche accorti. Gli angeli esistono, possiamo immaginarli come vogliamo, con o senza ali, ma ci sono.
Ad esempio sono angeli quelle persone che silenziosamente, durante la notte, vanno ad aiutare i senzatetto, oppure le sirene delle ambulanze che, specie in questo ultimo anno, non si sono mai spente.
Cosa pensate dell’indifferenza?
Purtroppo ce n’è molta in giro, dovremmo iniziare a mettere senno ed imparare ad esempio ad apprezzare e tutelare l’ambiente che ci circonda anziché lasciarlo nell’incuria, nella totale indifferenza, come se la cosa non ci riguardasse.
Oggi purtroppo viviamo nella società dell’apparire e non dell’essere, questo è il problema.
In questo album guardate al futuro ritornando alle vostre origini…
Il progetto nasce dalla volontà di tornare a suonare come succedeva anni fa, quando ci si chiudeva in studio cercando insieme la nota giusta, eliminando per quanto possibile tutta l’elettronica.
Il nostro concetto di fare musica si avvicina a quello di Battisti con cui abbiamo molto lavorato e così per questo album abbiamo trovato canzoni che si adeguassero al nostro nuovo modo di cantare, molto meno gridato di come usava fare anni fa.
È quindi la fotografia di come sono oggi i Dik Dik.
Vi sareste mai immaginati di raggiungere questo duraturo successo?
No, non potevamo immaginare di vendere milioni di dischi e dopo tutti questi anni essere ancora qua, all’epoca era un vero azzardo lasciare un lavoro sicuro per la musica.
Iniziammo prendendoci un anno di aspettativa, aspettativa che rinnoviamo puntualmente di anno in anno dal ’65.
Ma alla fine, dopo oltre mezzo secolo, avete visto la California?
In realtà no, però continuiamo a cantarla!
Articolo a cura di Sara Chiarei
Etichette discografiche indipendenti: Time 2 Rap Records
Time 2 Rap è un’etichetta nata dall’esperienza di Time To Kill dedicata esclusivamente al Rap.
“It’s time to take over. It’s time 2 rap. From Rome 2 Your nation!”, questo è lo slogan dell’etichetta. Ne abbiamo parlato con Enrico Giannone, direttore artistico e label manager.
Quando e perchè nasce la tua etichetta?
L’idea della Time 2 Rap nasce come un’esigenza personale che ha sempre motivato i miei “progetti” personali la voglia di elaborare nuovi progetti; in ordine temporale ti direi da circa 5 mesi.
Dove nasce il nome della tua etichetta?
L’idea era quella di creare una sorta di sorella minore , dell’etichetta metal, punk e hardcore Time To Kill, l’idea è quella di creare un “hub” di esperienze musicali differenti ma contigue allo stesso tempo. Il nome me l’ha suggerito Metal Carter, che per certi versi è anche l’ispiratore dell’etichetta.
Se tu dovessi definire, al di là dei generi, lo stile della tua etichetta, che parole useresti?
Le mie attività lavorativa, compresa la Kick Agency, sono un commando di supporter ed integralisti di passione e professionalità; NO PAIN NO GAIN!!!
Quali sono i servizi che offrite ai vostri artisti?
Come tutte le piccole etichetta il supporto fisico rimane il cardine essenziale per la sopravvivenza, quindi miriamo a proporre cd, vinili con diversi formati e colori ed anche la cassetta. Abbiamo una distribuzione capillare sul territorio anche delle piattaforme on line per la vendita diretta dei prodotti e possiamo offrire produzione di merchandising e ovviamente la distribuzione digitale su tutte le piattaforme. Ancora una volta l’etichetta metal, che lavora “worlwide”, ha aiutato la “sorella piccola” a trovare subito la quadratura.
Per la registrazione dei brani musicali degli artisti che lavorano con voi, che scelte avete fatto?
Abbiamo un nostro studio di riferimento con il quale collaboriamo, ma naturalmente se l’artista ha un proprio riferimento o punto fermo che già lo ha accompagnato nel suo percorso, riusciamo a trovare sicuramente un accordo.
È sempre più importante, oggi, accompagnare il brano con un video anche per poterlo far mandare in onda alle sempre più crescenti “radio-visioni” che stanno affiancando le radio tradizionali. Come vi siete organizzati?
Come tutti abbiamo un videomaker di riferimento, noi ci affidiamo alla Thunderslap Production, oltre ad essere ottimi professionisti siamo diventati anche amici. A proposito, questo è un elemento essenziale per interagire con il sottoscritto.
Quali sono i problemi di distribuzione che incontra oggi un’etichetta indipendente e come li avete affrontati?
Il problema è essenzialmente sulla nuova “lettura” della musica; l’avanzare del digitale ha indubbiamente aiutato nella diffusione della musica, ma è un supporto veramente apparente per le etichette “underground “ dal momento che la monetizzazione degli ascolti digitali diventa profittevole solo se hai altrettanti soldi da spendere; per questo motivo forse è meglio interagire con artisti di vecchia data con un dei supporter che trovano ancora soddisfazione nel prodotto fisico. Ma ovviamente dovremo far fronte alla nuova legge di mercato delle nuove generazioni.
Qual è il vostro stato di salute in questo anno e mezzo caratterizzato dalla pandemia?
Ottimo e Abbondante grazie (ride, ndr)
Quali sono le punte di diamante del vostro roster?
Iniziamo parlando del lavoro dell’attore, ad esempio da quello che si chiama “panico da palcoscenico”, e che provo anche io, ancora, dopo anni, a volte. Cosa ne pensi? Cambia con gli anni e l’esperienza?
All’inizio della carriera lo provi meno perché c’è la spinta di far sapere al mondo quanto sei bravo e hai quella leggerezza e quella creatività pura che ti fa più libero e “incosciente”, quando poi invece cominci a camminare sulla via… e ti rendi meglio conto anche delle aspettative del pubblico, beh dopo diventa veramente più difficile, ti viene più paura, il terrore di riuscire a dimostrare il tuo valore. Ma sono tutti percorsi che fanno parte della vita. Devi arrivare a trovare il tuo senso.
Che è un percorso di crescita. 0gnuno si scontra ogni giorno con i mostri che si crea…io ci lavoro con questo, forse avrei dovuto fare la psichiatra più che l’attrice, nel mio materiale c’è moltissima materia così, virata sempre però in un linguaggio leggero, comico. Ad esempio sul rapporto con la madre, sulla disidentificazione dalla madre, sulla cultura della paura di questa società, con cui abbiamo sempre a che fare.
Nel tuo teatro la musica che ruolo ha?
La musica nel mio teatro è stata inglobata nello stesso linguaggio dei miei spettacoli. In linea di massima ha seguito il linguaggio che era proprio della comicità, al servizio insomma della mia comicità.
Con le persone con cui ho lavorato ho cercato sempre questo….in “Rodimenti” ad esempio ho cercato la chiave di interpretazione ironica anche musicale di un discorso che avrebbe potuto essere impegnativo e disturbante, tranne in pochi momenti in cui andavo di verità ,e allora lì parlava il cuore del musicista…
“Rodimenti” era un discorso sulla aggressività, e portando il tema in una chiave popolare tendevo a un rito liberatorio, una specie di preghiera….per cercare di liberarsi dalle gabbie…
I nostri piccoli, non troppo piccoli, rodimenti quotidiani, quelli che ci fanno andare fuori di testa e ci fanno star male (ingorghi, ansia di dimagrimento, matrimoni sbagliati..) derivano da altro, da una “non” presa di coscienza che invece chiedevo al pubblico con ironia di tenere presente e cercare. Alla fine spiegavo che il “rodimento” nasceva dalle rabbie rimaste senza risposta della vita.
Come hai lavorato con i musicisti?
Scrivevamo insieme. Man mano che io scrivevo anche loro componevano. Sai, io non sono per il teatro estetico, abbatto qualunque forma di parete, entro sempre in scena dalla platea, e in scena sono sola, senza elementi teatrali, e poi vado sul palcoscenico, che comunque è un luogo di privilegio. In genere lo spettacolo è sempre un approfondimento su cui ho riflettuto e propongo in chiave comica, il comico è il mio veicolo privilegiato. E il pubblico è sempre coinvolto.
La musica che ascolti?
Adoro la musica in generale. Il jazz mi piace ascoltarlo dal vivo, ma non è un tipo di musica che in genere ascolto da sola. Mi piacciono le contaminazioni. Massive attak, incognito…ho un amico che ha un bar, e che è un appassionato, e che spesso mi fa ascoltare dei pezzi che non conosco che sono strepitosi. Certo i Pink Floyd ogni tanto me li metto. Pur essendo figlia di un tenore e una madre malata di lirica, non è quella una musica che ascolto. Io con quella ci sono cresciuta ma la mia storia emotiva è legata alla musica degli anni ‘70 e ‘80.
Cantanti di ora che ti piacciono particolarmente?
Mah in particolare nessuno…Ascolto molto la radio. Adoro anche ballare per cui tutti i pezzi ballabili li amo alla follia. Quando ho preso in giro le fiction le musiche erano ironicamente prese da quel tipo di tappeto sonoro…che in genere è ripetitivo…la stessa solfa…. Che noia! Invece in “Poche idee molto confuse”, che ho preso da un aforisma di Flaiano, c’era un tema che era bellissimo, ballabile, una ricerca un po’ “fighetta”, diciamo. Molto azzeccata.
Ti piace il musical?
Non è un genere che avrei potuto fare. Ho lavorato per trent’anni in modo pazzesco ma quello non mi è mai venuto in mente. Non ho il culto, certo mi sono piaciuti “Rocky Horror”, “Aggiungi un posto a tavola”, ma per il mio percorso non l’ho mai considerato. Mi aggancia di più la Parola come espressione dell’Io, di Noi.
Quando e come ti vediamo in Teatro?
Prossimamente spero succeda qualcosa, di lavorare al più presto, ce n’è bisogno. Attualmente sto portando in giro “il Peggio di Cinzia Leone”, un insieme di brani tratti da “Disorient express” e “Mamma sei sempre nei miei pensieri”, sui rapporti familiari e soprattutto sulla contraddizione della democrazia. Mi piace essere sempre aggiornatissima, sul presente. L’iperinformazione ha completamente azzerato la realtà. Siamo orfani di realtà. Ti informerò subito sui miei prossimi appuntamenti in teatro.
Articolo a cura di Sergio Scorzillo
On Air 361: Radio Cusano Campus con Annalisa
“Tutto in famiglia” con Annalisa Colavito di Radio Cusano Campus
“Roma non fa la stupida stasera. Damme ‘na mano a faje dì de sì”. E mi ha detto sì! Grazie Roma ma adesso mi tocca non finire la mia cacio e pepe e correre verso il Campus. No, non voglio iscrivermi all’Università, voglio solo fare una chiacchierata con Annalisa Colavito speaker di Radio Cusano Campus.
Annalisa grazie per aver risposto di sì alla mia intervista. Come stai?
Grazie a te Lorenzo. Bene. Finalmente siamo più liberi ed è anche una bellissima giornata di sole. Ed è sotto questo sole che voglio sapere quando è nato il tuo amore per la Radio Beh bisogna tornare al 1998. In quell’anno è scoccata la scintilla. Una passione nata come hobby e poi si è solidificata.
Ma era il tuo sogno nel cassetto diventare speaker radio?
Mmm il mio sogno era il cinema. Ricordo anche che avrei dovuto sostenere un provino per un film di Sergio Rubini ma non è andata.
Ah ma Sergio Rubini è anche mio compaesano. Siamo in sintonia Annalisa. E come si passa dal sogno del cinema a quello della Radio?
Pensa, un giorno una mia parente mi ha invitato ad andare in Radio e da quel giorno non sono mai uscita. La Radio è il mio futuro.
E il tuo presente è Radio Campus Cusano
Ebbene sì. Da 8 anni, numero che porta anche fortuna. Ho iniziato con “Genitori Si Diventa”, programma su psicologia e sociologia destinato alle famiglie.
Molto Molto interessante Si Lorenzo. Grazie a “Genitori si diventa” mi sono avvicinata alla Talk Radio, passaggio per me non facile ma vincente e che mi ha portata al mio programma attuale. Ecco! Parliamo del tuo programma su Radio Cusano Campus Si chiama “Tutto in Famiglia” e va in onda dal lunedì al venerdì dalle 10:10 a mezzogiorno. E non sono sola, con me c’è la collega Livia Ventimiglia. Di cosa parlate a “Tutto in Famiglia”? (dopo un sorso d’acqua Annalisa risponde): Parliamo di famiglia e di consumi, di come funzionano le famiglie e le problematiche economiche. Gli ascoltatori possono interagire con noi tramite whatsapp.
Avete anche ospiti telefonici o in studio durante il programma?
Si certo. Referenti di assicurazioni di consumatori, psicologi, docenti universitari. Abbiamo avuto anche Maria Giovanna Elmi, Simona Marchini, Alan Friedman.
E quali artisti, invece, vorresti intervistare? Beh, ho un debole per Fiorello, quindi lui ma sogno anche Nino Frassica e Lella Costa. Come possiamo ascoltarvi? In FM in molte città italiane ma anche in streaming su www.tag24.it e in PODCAST.
Annalisa. Pronta? Momento MARKETTA. Perché ascoltare 2Tutto in Famiglia”? Perché è una trasmissione che aiuta ad avere consapevolezza del sistema in cui viviamo.
Grazie Annalisa e complimenti per il tuo programma che ha uno scopo interessante e di servizio.
Mi ha fatto piacere conoscerti ma ora scappo al mio Cacio&Pepe.
A tutto voi invece, a martedì.
Articolo a cura di Lorenzo Amatulli
Non solo talent: Firenze Suona Music Contest
Battute finali per il “Firenze Suona Music Contest”
Battute finali per il “Firenze Suona Music Contest”, il concorso nato a Firenze e organizzato dall’associazione culturale Firenze Suona, con il contributo di Fondazione CR Firenze e in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Firenze e Koan Studio.
Il contest si propone di valorizzare il talento dei giovani, fornire un’offerta culturale variegata e diversa dai soliti cliché, contribuire al fermento della cultura musicale tra adolescenti e giovani, sostenere musica e creatività, sperimentazione e ricerca artistica partendo da
Firenze, favorire lo scambio, le sinergie artistiche, il talento, la ricerca e le potenzialità musicali giovanili e stimolare la ripartenza in sicurezza per un settore, quello della musica e dello spettacolo, pesantemente e particolarmente colpito dalle conseguenze della pandemia.
Il progetto, rivolto esclusivamente ai giovani, persegue l’intento di stimolare la creatività, le potenzialità artistiche e la scoperta di nuovi talenti, dando spazio alle realtà musicali italiane e l’opportunità a cantautori e musicisti di esprimere la propria passione per la musica, accrescere le proprie competenze, esibirsi in streaming e possibilmente su un palco.
Firenze Suona Music Contest nasce per valorizzare il talento dei giovani.
E’ rivolto ad artisti singoli e gruppi che non abbiano superato il 30° anno di età e, per i gruppi, la cifra di 30 anni è da intendersi come la massima età media ammissibile.
Altro requisito necessario è che siano liberi da contratto discografico o editoriale che li vincoli per le successive pubblicazioni discografiche. Al concorso sono ammessi tutti i generi musicali e i testi in qualsiasi lingua, compresi i dialetti.
Le quattro band sono chiamate ora a sfidarsi per aggiudicarsi il titolo di vincitore.
Gli artisti in gara sono stati valutati da una giuria formata da 32 addetti ai lavori composta da musicisti, critici musicali, giornalisti, operatori culturali, e discografici.
Quest’anno il difficile compito di selezione è stato affidato a: Ghigo Renzulli (Litfiba), Finaz (Bandabardò), Francesco “Fry” Moneti (Modena City Ramblers), Enrico De Angelis, storico della canzone, Elena Raugei (The New Noise, Sentireascoltare),
Rick Hutton, musicista e conduttore televisivo, Giampiero Bigazzi (Materiali Sonori), Arturo Stalteri, musicista e critico musicale (Rai Radio 3), Francesca Cecconi (Rock Nation), Massimo Altomare, musicista, Mirco “Dinamo” Rufilli (musicista, consigliere Comune di Firenze),
Sauro Chellini (Firenze Suona), Mattia Garofoli (Koan Studio), Andrea Ciulli (Comune di Firenze), Eleonora Bagarotti (La Libertà, La Stampa) Matteo Coppola Neri e Alberto Checcacci (Tana del Rascal), Maria Paternostro (Informacittà), Lorenzo Bartolini (Rebel Studio),
Massimo Cherubini, operatore culturale, Iacopo Meille, musicista e giornalista musicale (Rock Nation, Rockerilla, Classix, Classic Rock Italia), Alma Marlia (Firenze Suona), Matteo Sereni (Musicromia), Stefania Pancini (Comune di Firenze), Daniele Amighetti (C’mon Artax).
“Quel Grande Albero” che non c’è più, ma esiste ancora nei ricordi
Il tenore Matteo Macchioni presenta il suo inedito scritto durante il lock-down
Talvolta certe cose, suoni, odori, sapori possono scatenare in noi un meccanismo di recupero dei ricordi definito memoria involontaria, e ben descritto da Marcel Proust nella sua opera “Alla ricerca del tempo perduto” col celebre episodio delle madeline.
Alcuni di essi, talmente lontani nel tempo da pensarli perduti, riaffiorano in superfice affacciandosi a un balcone solo apparentemente sfiorito e portandosi appresso la stessa dolcezza di quando li abbiamo realmente vissuti. Anzi, persino quel pizzico in più che la nostalgia e la malinconia, sentimenti nobili e non necessariamente tristi, tendono ad aggiungere naturalmente.
A Matteo Macchioni, giovane e talentuoso tenore di fama internazionale, è accaduto qualcosa del genere. Il lungo periodo di lock-down ha concesso più o meno a tutti il lusso di pensare e ricordare, e Matteo è tornato con la mente a quando da bambino ed era solito parlare con una persona cara, ormai scomparsa, sotto un grande albero. “Quel grande albero” che è diventato prima ricordo poi simbolo di una (speriamo) ritrovata libertà, quindi canzone scritta, prodotta e registrata dallo stesso Matteo.
Che ricordi hai della tua partecipazione, nel 2009, ad Amici?
Ero un pianista neolaureato ma non ancora un cantante lirico, per questo motivo nel talent fu più facile confrontarmi anche col pop. Successivamente, quando si è delineato il mio percorso lirico questa commistione tra generi è venuta in secondo piano. Conservo dei piacevoli ricordi a proposito di questa trasmissione, ho studiato con un maestro veramente bravo e mi sono divertito tantissimo.
Quando hai capito che la lirica faceva parte del tuo DNA?
Dopo Amici ho studiato moltissimo, ciò mi ha permesso di entrare a far parte dell’Accademia dell’Opera studio del Teatro Carlo Felice di Genova nel 2014.
Con questa esperienza e con l’Accademia rossiniana si sono definitivamente aperti nuovi scenari per la mia carriera.
E da questo momento hai girato il mondo.
Si, oltre all’Italia mi sono esibito in Messico, Germania, Danimarca, Gran Bretagna, Russia, eccetera.
Tra i molti personaggi che hai interpretato, qual è il tuo preferito?
Sicuramente il conte di Almaviva del Barbiere di Siviglia perché mi dà sempre una grande gioia, ha il sole dentro. Tuttavia ogni personaggio mi emoziona.
Quale invece vorresti interpretare?
Ci sono due ruoli che ho eseguito in un progetto condiviso con Mirca Rosciani “Note d’arte”. Nella prima puntata a Parma ho interpretato Rinuccio di Gianni Schicchi di Puccini mentre nella seconda ambientata a Firenze, il Fenton da Falstaff di Verdi.
Mi piacerebbe portare i personaggi di queste opere in scena.
Cosa è “Note d’arte”?
Un connubio tra musica e arte, di cui è ricco il nostro Paese. Le prime due puntate hanno riscosso molto successo ed è nostra intenzione proseguire il viaggio.
Hai scritto “Quel grande albero”, che cosa ti ha ispirato?
Il lock-down ha portato i lavoratori dello spettacolo a restare molto fermi, così sono andato a riscoprire i luoghi della mia infanzia. Ma là dove sorgeva un grande albero sotto il quale giocavo e parlavo col mio bis nonno ora c’è un villaggio artigiano.
Ciò mi ha destato una grande tristezza perché è come se avessero portato via i miei ricordi. Penso che per ogni albero che tagliamo, sarebbe giusto piantarne due. Gli alberi sono i nostri polmoni, il nostro ossigeno e i nostri ricordi. Il messaggio di questo brano è che dovremmo imparare ad amare e rispettare di più la terra in cui viviamo, solo così sarà possibile conquistare una nuova libertà.
Hai fatto tutto da solo?
Si. In una notte insonne ho scritto il pezzo che è venuto spontaneamente dopodiché l’ho registrato, prodotto e girato persino il video, in cui si vedono immagine storiche della mia città, Sassuolo.
Progetti futuri?
Il primo evento in teatro con il pubblico finalmente in presenza si terrà il 12 giugno in Friuli al Teatro Verdi di Trieste e sarà dedicato alle vittime di questa terribile pandemia. In quell’occasione io sarò tenore solista nello Stabat Mater di Gioacchino Rossini.
Il 24 giugno invece giocherò in casa, esibendomi a Sassuolo in piazzale della Rosa con una scaletta che abbraccia i brani delle più celebri opere di Rossini, Donizetti, Mascagni, Puccini.
Articolo a cura di Sara Chiarei
Etichette Discografiche Indipendenti: Vasto Records
“Vasto” ci è sembrato il nome giusto per non metterci confini musicali, per affrontare la musica nella sua vastità
Vasto Records è nata come studio di produzione musicale indipendente. La sua sede è a Palermo. Nel tempo è nata l’esigenza di affiancare all’attività di recording anche quella di label, ed è iniziata la sua avventura. Ne abbiamo parlato con Phil Caviglia, founder dell’etichetta.
Quando e perchè nasce la tua etichetta?
Vasto Records nasce nel 2014 per un’esigenza personale, per produrre i “Chester Gorilla”, la band con cui suonavo e suono ancora. Nel tempo mi sono reso conto che, anche grazie alla collaborazione di Peter Delfino, avremmo potuto occuparci anche di produzioni di altri artisti.
Dove nasce il nome della tua etichetta?
Il nome è frutto di una chiacchierata serale con Peter. “Vasto” ci è sembrato il nome giusto per non metterci confini musicali, per affrontare la musica nella sua vastità.
Se tu dovessi definire, al di là dei generi, lo stile della tua etichetta, che parole useresti?
Principalmente ci occupiamo di post-rock, jazz, fusion e alternative. Non ci interessa il mainstream, preferiamo occuparci del cosiddetto underground.
Quali sono i servizi che offrite ai vostri artisti?
Il rapporto con i nostri artisti è completo. Iniziamo dalla pre-produzione e dalla fase di scrittura. Cerchiamo di seguire i nostri artisti nella fase compositiva, anche contando sull’esperienza ventennale che ho alle spalle come musicista. La registrazione avviene nel nostro studio e poi curiamo la promozione e la distribuzione sia in formato digitale sia su supporto.
È sempre più importante, oggi, accompagnare il brano con un video anche per poterlo far mandare in onda alle sempre più crescenti “radio-visioni” che stanno affiancando le radio tradizionali. Come vi siete organizzati?
Lavoriamo con il concetto di “family”. Il nostro gruppo è composto da una decina di persone con diverse competenze, tra questi alcuni si occupano specificatamente della realizzazione dei videoclip.
Quali sono i problemi di distribuzione che incontra oggi un’etichetta indipendente e come li avete affrontati?
Anche in questo manteniamo la nostra caratteristica di label underground. Collaboriamo con We Work Record per la distribuzione dei supporti fisici mentre per la distribuzione digitale preferiamo indirizzare gli utenti verso i nostri canale Youtube e Bandcamp.
Qual è il vostro stato di salute in questo anno e mezzo caratterizzato dalla pandemia?
Alti e bassi. Il primo lockdown ci ha visti completamente fermi e, devo confessarti, che ho pensato di abbandonare. Siamo indipendenti nel vero senso del termine, senza alcun finanziamento esterno. Invece ho deciso l’esatto contrario, ho deciso di ristrutturare lo studio e, una volta superato il periodo delle zone colorate, abbiamo ripreso. Già in questo momento sembra andare meglio e abbiamo messo in cantiere, con Peter Delfino, l’apertura dello studio e dell’etichetta in Svizzera.
Quali sono le punte di diamante del vostro roster?
Oltre ai Chester Gorilla, la band in cui suono il basso, una band jazz-rock-fusion, ci sono gli HANE, High Altitude Nuclear Explosion, una band che suona post-rock. Da poco ci sono nel roster i Blue Sun che sono usciti con il loro singolo di debutto da una settimana, Kimko, un ragazzo con un progetto lo-fi che fa musica d’ambiente e Ulysse, per il quale siamo usciti oltre che in digitale anche con il supporto fisico.
Com’è possibile per un artista proporvi la sua musica?
È molto semplice. Intanto è possibile venire in studio e suonare, questo è il modo migliore per confrontarsi con la proposta musicale. Ovviamente è anche possibile contattarci tramite mail officialvastosite@gmail.com inviandoci una biografia, alcune foto e il link per ascoltare il brano.
Articolo a cura di Roberto Greco
La Monarchia: “Ossa” tra amore e oppressione
La nostra natura di band e di musicisti è strettamente legata al palco e al pubblico
LaMonarchia nasce nel 2012 dall’incontro di Giulio Barlucchi, Matteo Frullano e Lapo Nencini. Insieme condividono la sala prove con diversi gruppi della scena valdelsana (Toscana) ed è così che nel tempo, dopo aver sperimentato formazioni diverse, incontrano gli altri membri definitivi della line-up – Gianmatteo Nasca e Lorenzo Falorni.
Nati fra il 1989 e il 1995 sono accomunati dalla passione per la musica con cui sono cresciuti – Weezer, Smashing Pumpkins, The Verve, Blur, Oasis, Pixies: pubblicano il primo album “Parliamo dieci lingue ma non sappiamo dirci addio” nel 2015 e continuano a collaborare con altri artisti della scena indipendente fino da incontrare in una di queste occasioni, Peppe Fortugno e Luca Stignani di Banana Studios e, più tardi, Ioska Versari di Flebo records.
Dalla joint-venture fra i tre produttori e la band nasce “Ossa”, il primo singolo su etichetta Flebo, un sound rinnovato che affonda le radici nella scrittura pop e rimaneggia in chiave moderna il suono alternative con cui la band si è nutrita sin dalla sua formazione. Ci siamo fatti raccontare da loro cosa li ha portati a questo cambio di rotta rappresentato dall’uscita del loro singolo “Ossa”.
Da dove venite, musicalmente parlando? Mi spiego, qual è la musica che vi ha condizionato negli anni precedenti la formazione della band?
Noi tutti siamo cresciuti con l’esigenza di fare musica inedita e frequentando sale prove e centri culturali della Val d’Elsa. Si tratta di un territorio molto piccolo che ci ha permesso inevitabilmente di conoscerci e di suonare insieme.
La forte passione per la musica ci ha subito legato e ha permesso che potessimo passare ore e ore in sala prove e suonare in molti palchi, dal più piccolo al più grande, anche come aperture a artisti più conosciuti.
Credo che la musica che più ci abbia condizionato sia stata quella rock, pop rock degli anni ‘90. Essendo nati in quegli anni, abbiamo assorbito nel periodo più prolifero della nostra vita, l’adolescenza, le sonorità tipiche delle band di quel periodo.
Da “Parliamo dieci lingue ma non sappiamo dirci addio” a oggi, la vostra musica è cambiata. Dal rock che caratterizzava il vostro primo album, il vostro ultimo singolo si è spostato verso l’itpop. Una scelta? Un percorso musicale?
Il nostro primo album è caratterizzato da suoni più duri e più rock, perché i temi trattati nei testi dell’intero disco, parlavano di disagio e di dolore. Crescendo abbiamo imparato a parlare di cose più intime e difficili anche da esporre.
Temi come rimpianti, amore, consapevolezza e rinascita. I nostri pezzi adesso sono una sorta di esame interiore per cogliere lati più quotidiani, ma non meno importati rispetto agli altri, della nostra vita.
Inevitabilmente anche la sonorità dei nostri brani ha preso questo filone. Una scelta dovuta all’esigenza di far uscire qualcosa di più intimo ma anche per essere più diretti verso chi ci ascolta.
“Ossa” suona molto anni ’90, anche se è evidente il lavoro di riattualizzazione delle sonorità che mantiene, però, le chitarre che già avevano caratterizzato i vostri precedenti lavori. Da dove deriva questa passione per la musica degli anni ’90?
Crescendo negli anni 90, abbiamo subito preso confidenza e fatta propria tutta quella musica che abbondava di chitarre distorte e band che masticavano le sale prova e i palchi come pane quotidiano.
Ognuno di noi ha delle preferenze personali sugli ascolti musicali ma credo che possiamo trovarci d’accordo sul dire che gruppi come Radiohead, Blur, Oasis, Weezer, Smashing Pumpkins ci abbiano influenzato notevolmente nella nostra crescita musicale.
Sempre proposito di “Ossa”, come nasce il testo di questo brano?
Il brano parla di un rapporto conflittuale che noi tutti abbiamo con il vivere in una città che non è così grande da essere chiamata metropoli, ma neanche così piccola per essere chiamata paesello.
Viviamo esattamente in mezzo fra due grandi città in un paese che si potrebbe definire di passaggio. La nostra adolescenza, i nostri sogni e le nostre esigenze si sono sviluppate in questo clima di provincialismo, che spesso ha soffocato le nostre ambizioni in questa sorta di benessere apatico e tranquillità.
Per noi è stato fondamentale viaggiare e stabilirsi in una realtà nuova come la grande città, con tutte le sue possibilità e i suoi orizzonti infiniti. Viaggiare spesso aiuta a capire e apprezzare ciò che hai lasciato alla partenza.
Da questa esperienza abbiamo iniziato ad apprezzare gli aspetti positivi della vita di provincia e in questo limbo tra amore e oppressione nasce il testo di Ossa.
La canzone può anche essere interpretata come un rapporto tra due persone che si amano e che hanno bisogno di un cambiamento forte per far sì che l’amore continui come prima. “Ma è tempo di partire è tempo di rischiare, un cambiamento serve perché tutto resti uguale”.
Come funziona la fase creativa all’interno de “La Monarchia”?
Ogni brano parte da una bozza di Giulio che porta alla band un’idea melodica del pezzo. Dopodiché il brano passa da una fase delicata di sala prova dove viene suonato e risuonato per arrivare ad avere un’identità.
Molto importante è che ognuno di noi dà il suo contributo musicale carico di gusti e ascolti differenti. Per noi, il processo creativo di una canzone è legato a una percezione di come il brano deve suonare in un eventuale live.
Questo perché che la nostra natura di band e di musicisti è strettamente legata al palco e al pubblico.
Quali sono i progetti che seguono “Ossa”, avete in cantiere un nuovo album?
Abbiamo in cantiere altre canzoni e stiamo lavorando per far uscire nuovo materiale che comporrà un album. Il progetto è ambizioso e noi siamo contenti di come il brano Ossa stia interessando molta gente.
Certamente lavoreremo molto per far sì che ci siano altri brani come questo. Se il periodo, che purtroppo ha penalizzato molto la musica, lo permetterà, vorremmo ricominciare a suonare live per il pubblico ma anche per noi.
Continuerete su questa nuova rotta musicale?
Noi siamo felici della rotta che abbiamo preso e continueremo a seguire queste sonorità ma con la promessa di non essere mai scontati e banali. È un lavoro enorme, lo sappiamo, ma ci riusciremo.
Se poteste scegliere un artista, non necessariamente italiano, per una feat in uno dei vostri brani, a chi vorreste telefonare per chiederglielo?
Il metodo di scrittura e di composizione di Thom Yorke ci ha sempre ispirato molto. Crediamo che una collaborazione con lui si potrebbe trasformare in un’esperienza incredibile. Una cosa è certa, ci sentiremmo molto onorati e probabilmente anche in soggezione. Chissà che, prima o poi, non succeda?
Una battuta, sull’ultimo festival di Sanremo. Soddisfatti del podio? Avreste messo qualcun altro artista nelle prime tre posizioni?
Siamo molto contenti della piega che la musica italiana sta prendendo. Con la vittoria del rock ci auguriamo che in Italia si dia più spazio alle chitarre. Per noi un’artista che meritava un posticino nel podio era Coma cose. Davvero una bella canzone la loro “Fiamme negli occhi”.
Una curiosità… dove avete trovato l’alpaca della foto?
Lui è Ivano e ormai fa parte della band. Lo abbiamo trovato con una bella dose di casualità, mentre facevamo lo shooting fotografico nella stanza che si vede in foto.
La proprietaria della fattoria, che approfittiamo per ringraziare ancora qui, ci ha mostrato questo stupendo esemplare di alpaca. È stato amore a prima vista.
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