Viaggio tra arte e musica, un viaggio di emozioni

È con grande emozione che introduco la nuova rubrica che vi guiderà in un viaggio di emozioni legate all’arte e alla musica.

L’arte nel suo significato più ampio comprende ogni attività umana che porta a forme di creatività ed espressione, che evoca sensazioni indescrivibili.

Nella sua più sublime accezione è manifestazione dell’interiorità e dell’animo umano sia di chi la crea e di chi l’ammira.

Viaggio tra arte e musica

Eternamente connesse musica e arte si fondono per suscitare inspiegabili stati d’animo che ognuno di noi vive, rompendo schemi di generi, culture e sessi.

Viaggio tra arte e musica
Kandinskij Linea trasversale

Sin dall’antichità queste due arti hanno sempre viaggiato a braccetto senza mai separarsi definitivamente.

Viaggio tra arte e musica

Spesso le stesse rappresentazioni artistiche di noti pittori hanno rievocato un mondo musicale attraverso le loro opere.

Il rapporto tra queste due arti è sempre esistito in tutte le epoche e ogni epoca ne ha dato il suo significato e la sua interpretazione.

C’è chi traduce i colori in musica e chi traduce la musica in simboli, ogni epoca ha una sua traduzione diversificata nel tempo e influenzata dai movimenti culturali del momento.

Viaggio tra arte e musica

Prendiamo Kandinskij ad esempio, per lui la musica non rappresentava solo una grande fonte di ispirazione ma anche una vera e propria ossessione, i colori per lui erano percepiti come un coro da imprimere sulla tela.

L’arte non suscita solo grandi emozioni, ma aiuta l’uomo a fermarsi ad osservare e riflettere così da far fluire le azioni e passioni, così da immobilizzare la vita spirituale e osservarla.

Viaggio tra arte e musica

Spesso quando si parla di processi creativi si presuppone una determinata tecnica, l’espressione assume connotati altamente specialistici:

un pittore fornisce le sue spiegazioni in termini pittorici e un musicista in momenti musicali scanditi tra le note.

Viaggio tra arte e musica 1
Kandinskij Composizione VII

Ma per cogliere ciò che ci regala la musica e l’arte non occorre solo la tecnica ma la sensibilità di ascoltare e osservare ciò che si cela dietro una tela o dietro uno spartito, e questo lo si può cogliere anche senza tecniche raffinate.

E’ meraviglioso osservare come queste due arti possono sopravvivere separate ma al contempo quando si incontrano danno vita ad un esplosione talmente colma di sentimenti che cela magnifici enigmi.

Viaggio tra arte e musica

Quanto queste due possono influenzare ed ispirare un processo creativo così da non limitarsi solo ad una funzione descrittiva ma piena di contenuto di sentimenti.

Così la musica diviene per l’artista uno stimolo intellettuale di certo valore,

fattore che d’altro canto anche lo stesso musicista ammirando un’opera trae fonti d’ispirazione ammirando un quadro o una scultura.

Viaggio tra arte e musica

Cambiano i mezzi, uno con il pennello e l’altro con le note ma entrambe con lo stesso linguaggio che riesce a guidarci in un mondo ignoto e intraducibile se non suscitare attraverso le singole percezioni di frammenti di emozioni.

Questa rubrica vi guiderà verso un itinerario culturale dove l’arte si trasforma in un completo e complesso trasporto artistico,

dove la pittura significa, la semiotica spiega, lo spirito eleva il potere trascendentale della sua bellezza nel mistero della musica come elevazione dell’anima, e l’invisibile diventa visibile.

Articolo a cura di Melissa Brucculeri

A tu per tu con Massimiliano Longo

Massimiliano Longo è una di quelle persone alle quali non si può rimanere indifferenti. Perché?

Perché Massimiliano ha colori decisi e un’anima che si riflette in tutto ciò che fa.

Diretto, essenziale, sincero, ha sempre l’onestà intellettuale di esprimere un giudizio, quando richiesto, senza tanti giri di parole.

La musica ha deciso di prenderlo con sé quando, ancora giovanissimo, si intrufolava a tutti i concerti.

Un’attrazione fatale, che segna il destino di un ragazzo che si è fatto da solo, partendo da zero.

Un “operaio” che ha trovato, partendo da un’idea, un sogno, il proprio posto nel mondo.

È ideatore e direttore di All Music Italia punto di riferimento tra i siti web che si occupa solo di musica italiana,

una delle realtà più credibili del panorama musicale che sa guardare agli emergenti e ai big con la stessa attenzione e

doveroso rispetto.

Massimiliano Longo, non è solo questo e oggi si racconta per noi con la schiettezza, apparentemente ruvida, che lo contraddistingue.

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Massimiliano, parlami di Massimiliano Longo…

Per raccontarmi davvero, per parlare di Massimiliano di oggi, devo riavvolgere la pellicola e tornare a quando ragazzino osservavo mio padre, che faceva il barbiere, ripetere giorno dopo giorno le stesse azioni.

In quel momento, pur non sapendo esattamente cosa, ho avuto la certezza che non avrei mai fatto un mestiere ripetitivo.

Qualcosa mi diceva che dovevo mettere in campo tutto quello che avevo e che si agitava dentro di me.

Sono partito da zero, o forse anche meno, ho sudato e faticato per raggiungere ogni obiettivo che mi sono prefissato.

La musica è stata la mia musa, il mio faro, il mio motore.

Non c’era un concerto al quale non cercassi di andare, quello che mi attirava era quello che stava dietro al palco.

Questa è stata la prima vera grande certezza.

Come hai trovato il tuo posto nel mondo?

Ho fatto una bella gavetta, partendo dal basso e senza nessuna conoscenza.

Sono passato dal gestire il fan club official di Syria e Gianluca Grignani del quale sono stato il personal assistent per sette anni.

In seguito ho fatto un’esperienza importante anche con Niccolò Agliardi che mi ha insegnato come il lavoro sia sempre tale, anche se si fa musica, esattamente come qualunque altro mestiere.

A un certo punto ho sentito la necessità di fare un passo indietro, allontanandomi dalla musica e dal suo ambiente.

Un momento che è servito a codificare tutto quello che avevo fatto, l’esperienza acquisita per trovare finalmente un posto che fosse mio e mi rappresentasse.

All Music Italia e la sua storia sono il mio sogno realizzato e la credibilità, l’autorevolezza raggiunte sono un grande obiettivo ottenuto grazie a una bella squadra.

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Massimiliano Longo e Neno

La tua passione si vede, si sente e pervade tutto quello che fai. Ma c’è qualcosa di più. Che cosa ti spinge sempre ad andare oltre, superando confini e limiti?

È vero, non mi fermo mai. Ogni volta che raggiungo un obiettivo, ho già il cuore al di là di quel confine, in continua ricerca.

Nel mio percorso sono stato solo ma avrei voluto qualcuno che accompagnasse i miei passi, col quale confrontarmi.

Oggi voglio essere quel mentore che non ho avuto.

Vorrei essere di aiuto a chi sta cercando il suo posto nella musica, non m’interessa splendere, ma far splendere chi merita.

Questo mondo è una giungla dove il solo talento, purtroppo, non basta.

Questa è la mia nuova sfida e le mie stelle sono Neno ed Enea Vlad, due giovani talentuosi cantautori con i

quali sto facendo un bellissimo percorso, non solo manageriale, ma anche di produzione artistica.

Con loro porto avanti un bel progetto, fatto d’impegno, sacrificio, applicazione. Enea Vlad e Neno hanno catturato la

mia attenzione, al primo incontro.

Entrambi hanno talento e un’unicità che colpisce.

Hanno moltissimo da esprimere e sono felice di essere al loro fianco, come quel mentore che avrei tanto desiderato

avere anch’io e che non ho mai trovato.

Loro si fidano del mio modo di lavorare alla vecchia maniera, senza fretta.

L’errore più grande è far passare l’idea che il mondo della musica sia solo luci e applausi, con un “tutto e subito” che

confonde e tradisce qualunque aspettativa.

Io so cosa significhi non avere appoggi o conoscenze, quanto sudore e tenacia servano per realizzare i propri sogni.

Sarebbe stupido e inutile illudere questi giovani artisti che sia sufficiente un talent per sfondare.

Enea e Neno sono motivo di orgoglio e soddisfazione confermandomi che non mi ero sbagliato su di loro!

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Massimiliano Longo ed Enea Vlad

Sei uno tosto. I tuoi giudizi, schietti e onesti, sono richiesti e temuti al tempo stesso. Sei uno che in quest’ambiente “ha potere”, è così?

Sono uno che non si accontenta mai e non si vergogna di affermare di avere “fame” di potere.

Sembra un’affermazione impopolare e terribile, ma ti spiego cosa significa per me.

È inutile negare che in quest’ambiente, come dovunque, sia importante avere credibilità e la forza di esprimere

pareri che siano ascoltati. Sono consapevole che, per cambiare le cose, devo accettare di essere anche scomodo

assumendomi ogni responsabilità.

Così è stato con l’inchiesta di Area Sanremo che ha portato al voto palese che è oggi per me un obiettivo

fondamentale e irrinunciabile per qualunque giuria della quale faccia parte.

Avere potere per me significa realizzare il mio sogno e quello degli altri, di tanti altri.

Massimiliano, andrei avanti per ore ad ascoltarti. Oggi ho incontrato non solo il direttore di All Music Italia, il

manager, l’esperto di musica, ma una bella persona.

Un bambino, un ragazzo, un uomo che conosce il dolore, la solitudine e che ha saputo trasformare ogni cicatrice in

forza interiore e determinazione.

Ti ringrazio per avermi concesso il privilegio di raccontarti così, alla prossima!

Articolo a cura di Paola Ferro

Take another little piece of my heart ” Uno spettacolo per conoscere Janis Joplin.

4 ottobre 2020. A 50 anni dalla tragica scomparsa di Janis Joplin, leggendaria artista rock anni ’60,

una giovane attrice (Marta Mungo), fan della cantante, si chiede se sia possibile portare in scena oggi uno spettacolo che possa degnamente celebrarla, raccontandola autenticamente.

Chi era Janis Joplin? Qual è il vero volto della ragazza che si cela dietro l’immagine hippie, tutta sex drugs and rock’n’roll, consegnata alla storia?

Sarà proprio ripercorrendo le tappe biografiche della prima assoluta icona femminile bianca del rock

che,tra lettere, articoli, pagine di diario, memorie, aneddoti e ovviamente musica, in un dialogo

metateatrale con il suo fidato tecnico di scena (Davide Del Grosso), l’attrice tenterà di riportare alla luce non

solo l’appassionante carriera musicale e i successi della Joplin ma anche il profilo più intimo di Janis.

Janis Joplin, affascinante adolescente inquieta avvolta dal mito rock
foto di scena

Dietro la maschera della trasgressività c’è un’insicura adolescente di Port Arthur, una “little girl blue” del Texas,

che graffiando la vita e urlando al mondo la sua voglia di essere amata,

tra note blues e soul, sfide perse e conquiste, ha lottato per cercare in 27 anni di vita il suo posto nel mondo.

Quello di una ragazza dalla voce eccezionale che sognava una vita normale.

«A cinque decenni dalla scomparsa, riesaminando la sua breve esistenza, Janis Joplin mi è sembrata una figura emblematica,

oltreché dal punto di vista musicale, soprattutto per la sua affascinante sensibilità ed empatica problematicità» – spiega riguardo il percorso compiuto Luca Cecchelli, ideatore dello spettacolo.

«Le sue riflessioni, come le sue canzoni, non sono capaci solo di ammiccare a chi ha vissuto quegli anni ma a tutt’oggi lei stessa risulta un’interlocutrice attualissima per le nuove generazioni,

che spesso ne conoscono purtroppo a malapena il nome o qualche melodia».

Da questa intuizione è nato il progetto di una pièce che consente, nel racconto della sua breve e folgorante esperienza

di arte e di vita, di affrontare temi estremante attuali nonché vicini ai più giovani,

in un percorso in realtà comune a più di quanti si possa immaginare: dal bullismo esercitato o subìto al desiderio di

libertà, dalla nostalgia per la famiglia e i suoi affetti alla voglia di amore vero, dalla confusione nella trasgressione

fino alla perdita nelle dipendenze.

Provocatoria quanto vittima di disagi, tra malinconie e voglie di riscatto, conformismo e orgoglio della propria

diversità, «Janis Joplin è un simbolo del passaggio che porta dalle criticità dell’adolescenza alla

conquista di valori maturi,

status che non a caso ha spesso trovato nel rock lo strumento privilegiato per descrivere ed

esprimere queste emozioni e contenuti».

 

Janis Joplin, affascinante adolescente inquieta avvolta dal mito rock 1
locandina spettacolo

Da queste considerazioni ha preso forma uno spettacolo rivolto a più generazioni.

Aggiunge Cecchelli: «Pur celebrandola, l’obbiettivo è stato quello di smontare in una certa misura un mito legato principalmente a vizi ed eccessi,

riconsegnando il profilo più umano e complesso di una donna alla ricerca della propria identità artistica e

sessuale, vittima dei bulli e in contrasto con i principi maschilisti e razzisti del suo tempo, tanto

desiderosa di emanciparsi quanto perennemente alla ricerca dell’approvazione della famiglia».

Una riflessione sullo straordinario talento di una teenager dalla voce inarrivabile che porta inevitabilmente a

meditare anche su tematiche quali il rapporto tra la propria essenza e ciò che il successo vuole farti diventare, così

come il vero senso dell’“interpretazione di un personaggio” di fronte ad un pubblico.

Si compone in questo modo il quadro di questa Little girl blue (perfetto titolo di una sua canzone) che, sempre in

bilico tra rischio e desiderio, continua a rappresentare un emblema per ogni gioventù.

«Nell’era 2.0 si possono sicuramente trovare informazioni su Janis Joplin – conclude Cecchelli – come capitolo della

storia del rock, mito musicale della controcultura anni ’60 o esponente del club dei 27 insieme a Jimi Hendrix, Jim

Morrison e Amy Winehouse.

Janis Joplin, affascinante adolescente inquieta avvolta dal mito rock 2

In questo racconto teatrale però si può avere occasione di conoscerne più da vicino il lato personale e soprattutto poetico, più che documentaristico.

Mi auguro per gli spettatori usciti dalla sala che non solo (ri)scoprano la Joplin, attraverso le tappe più appassionanti

e le più belle canzoni della sua carriera ma che possano legare più nettamente anche un volto e una vicenda ad un

nome.

Il nome di una giovane inquieta spesso oscurata dal mito.

E invitare i giovani spettatori a riflettere insieme sui suoi “perché”, forse molto vicini anche ai loro. Anche se magari

non espressi con altrettanta voce».

Il Teatro del Buratto compie una nuova tappa teatrale nel proprio percorso di attenzione alle tematiche giovanili legate alla sfida e al disagio del diventare grandi, del realizzarsi nel passaggio all’età adulta trovando nuove interazioni nella relazione con sé stessi, con gli altri e con la società.

Un percorso fatto di scelte difficili, cadute e conquiste, errori e vittorie, che da tempo stiamo raccontando attraverso alcune nostre produzioni, basandoci in particolare sul confronto con i giovani delle scuole secondarie e con i loro referenti adulti (genitori, docenti, educatori).

Ad esse ora si affianca questa novità ideata dal giornalista Luca Cecchelli, uno spettacolo che trae spunto da una figura affascinante e inquieta, avvolta dal mito del rock che rivive nella sua personalissima voce: Janis Joplin.

 

Lo spettacolo sarà in scena per delle anteprime su invito e su prenotazione,

il 1, 2 e 3 ottobre 2020, h.21,00 – Teatro Bruno Munari via Giovanni Bovio, 5 Milano –

Posto unico € 10,00 Info e prenotazioni: prenotazioni @teatrodelburatto.it –  tel. 0227002476 –  www.teatrodelburatto.it

 

Boris Riccardo D’Agostino, l’arte del disegnare un suono

La professione di sound design è un lavoro molto affascinante che richiede una variegata e approfondita conoscenza di numerose discipline sia musicale che tecnologiche.

Inoltre, chi intraprende questa arte, è colui che modella qualcosa fino a riuscire ad ottenere un risultato imprevedibile, ed ha la capacità di costruire e disegnare delle dimensioni sonore che nella sorgente di partenza non esistevano. E cosi con la matita in mano proprio come fa un musicista quando scrive della musica il sound designer con la tecnologia e le sue tecniche scrive il tessuto sonoro dentro un racconto di un film.

Boris Riccardo D’Agostino: professione Sound Design
Boris Riccardo D’Agostino

Cosi, chi si occupa di questo mestiere non solo è progettista ma anche creatore di un suono, ha la capacità di manipolare rumori adatti a ogni evento, effetti sonori per ogni ambientazione e personaggio.

Io ho avuto il grandissimo piacere, di conoscere un giovane professionista pieno di talento e sentimento per la professione del sound design, Boris Riccardo D’Agostino.

Nato e cresciuto a Fiumefreddo di Sicilia, venuto a Roma con tanta passione per il suo lavoro e il grande amore per la musica. Con grande entusiasmo vanta al suo attivo più di 200 prodotti al suo curriculum, tra cortometraggi, spot pubblicitari, film e documentari.

Ciao Boris, raccontami del tuo percorso. Come sei arrivato ad intraprendere la professione di sound design?

In realtà nasco come grafico pubblicitario. Ma ho sempre avuto una grande passione per la musica, infatti, in parallelo al mio lavoro ho coltivato questo grande amore.

Ho conseguito gli studi da grafico giù in Sicilia, nella mia terra d’origine. Poi mi sono reso conto che dovevo prendere più sul serio questa mia inclinazione per il suono e la musica, ho provato a mandare la domanda di ammissione per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma.

Così mi sono imbarcato su un treno con la mia valigia con tantissima voglia ed emozione, ma con poche speranze di entrare. Arrivato a Roma per il colloquio di ammissione rimasi subito colpito da quel contesto di cui ne ero estremamente ammaliato, ma continuavo a non riporre molta speranza.

Mi sbagliavo! Mentre ero sul treno di ritorno per la mia amata Sicilia mi arrivò la chiamata di uno dei colleghi conosciuti durante gli esami per dirmi che ero stato ammesso al corso. Ero alle stelle e incredibilmente sorpreso.

Raccontami di più di questo rapporto con la musica…

Questa passione l’ho sempre avuta sin da piccolo. All’età di 13 anni ho iniziato ad avvicinarmi alla musica rap, facendo anche piccole esperienze in programmi radiofonici.

Poi con tanta pratica e dedizione mi sono addentrato anche nel mondo della composizione musicale. Infatti prima di diventare un professionista nel sound design nel cinema nasco come compositore.

Sono partito che non avevo nessuna formazione tecnica, la mia maestra è stata sempre la pratica e soprattutto la tanta voglia di esprimermi. Questo mio percorso mi è sempre tornato molto utile.

Inoltre, ho avuto la grandissima soddisfazione di ricevere una nomination al Montreal International Wreath Awards Film Festival (MIWAFF) in Canada, con Alice In the Land that wonders” della regista Giulia Grandinetti. Ho fatto parte del gruppo dei compositori ed inoltre mi sono occupato del lavoro del mixaggio, confezionando il film. È un progetto a cui tengo molto, dove ho messo tantissimo sentimento.

Che significato ha per te il suono in un film?

All’inizio non conoscevo bene il linguaggio cinematografico, per me molte cose erano nuove. Non avevo mai visto con i miei occhi il mondo del cinema da cosi da vicino, infatti, inizialmente per me quel linguaggio era difficile perché sconosciuto.

Quando pensi al suono nel cinema si fa sempre riferimento alla musica o alla colonna sonora, ma invece ci sono dei suoni che sono fondamentali per descrivere un racconto. Il mio punto di forza forse, è proprio che non sento un limite o confine tra musica e suono.

Raccontami dei tuoi lavori, ho visto che hai vinto Widescreen di Miami?

Devo dire che le esperienze lavorative sono state tante e tutte molto piacevoli, lasciandomi sempre bei ricordi. Si, con grande soddisfazione e sorpresa con il film “Pipinara” di Ludovico Di Martino abbiamo ottenuto il premio Best Sound Design, nel 2018.

È  stato veramente inaspettato, ci abbiamo lavorato tanto e tutti noi abbiamo messo veramente del sentimento. Ho lavorato notte e giorno, a tal punto che al momento di consegnare trovai il modo di nascondermi dentro la sala mix del centro sperimentale e trattenermi un po’ dopo l’orario di chiusura…

Per perfezionare ancora quel disegno sonoro, per raffinare al massimo quella consegna e renderla più vicino alla perfezione possibile.

Ma di bei ricordi ne ho veramente tanti, ho avuto anche la fortuna di registrate con il Coro di San Lorenzo in Lucina un’opera inedita del Maestro Ennio Morricone, con il quale il Maestro Lucci lo ha omaggiato.

Con grande emozione nel mio piccolo ne ho fatto parte.

Uno dei tuoi ultimi lavori?

Cattivo Sangue di Simone Hebara. Un film ideato da un gruppo di giovani ragazzi di Ostia, sai io venendo dal mare mi sono subito sentito legato in qualche modo a loro.

È un progetto dove hanno lavorato per tanti anni. Quando sono stato chiamato, era ancora tutto in stato embrionale, ma già con tanto sentimento dietro.

Un film particolare, che strizza l’occhio verso una cinematografia coreana. Sai, per me una cosa fondamentale è l’empatia che si crea nel gruppo di lavoro, perché se c’è una buona connessione riesco a disegnare attraverso i suoni tutti i sentimenti di ciò che si vuole raccontare.

Inoltre, in questi giorni a Venezia, nella settimana della critica, è stato presentato “Le Mosche” di Edgardo Pistone, un cortometraggio dove mi sono occupato del missaggio.

Boris Riccardo D’Agostino: professione Sound Design 1
Boris Riccardo D’Agostino

Da come racconti il tuo lavoro emerge tantissima passione e amore. Ma come quando si è adolescenti il primo amore non si scorda mai, il tuo primo amore a livello professionale qual è?

Come ho già detto prima, ne ho tanti. Ma uno che mi porto nel cuore è “Rock My Trumpet” con la regia di Ado Hasanovic.

Io e Ado abbiamo frequentato insieme il Centro Sperimentale, lui come regista io come sound designer. Si è subito creato un ottimo feeling tra di noi. Sarà che eravamo entrambi “stranieri” io venivo dalla Sicilia e lui da Sarajevo.

Ma ovviamente non è solo per questo, la cosa che mi entusiasmò e che mi fece impazzire alla follia forse fu proprio la musica.

Questo film racconta di un jazzista che cambia casa e da quel momento gli accadono tantissime cose. Mi ha talmente appassionato che pensavo alla storia giorno e notte.

Mi misi a comporre la musica pensando alla storia e cosi quando la presentai agli insegnanti del centro decisero di utilizzare la mia musica. Aveva toccato tutte le mie più grandi passioni la musica e il cinema.

Secondo te esiste un parallelismo tra la musica e l’arte del sound design?

Secondo me, si! La musica è composta da note e ritmica dichiarate, mentre, il suono è formato da toni e anche essa ha una ritmica ben precisa, ma la differenza che la musica al contrario del suono è ciclica.

Esistono vari tipi di suono, ci sta quello bello e quello più sporco e imperfetto. Ma se quello sporco drammaturgicamente ha più valore e ha una funzione più emozionante io farò di tutto per riportare quel sentimento che si cela dietro al suono.

Spesso le cose non calcolate o casuali sono le più belle. Il suono crea il film, ma il suono è anche l’unica cosa sempre autentica all’interno di un racconto.

 

Articolo  a cura di Melissa Brucculeri 

China: “Il mio obbiettivo è arrivare al pubblico, attraverso il lato più emotivo delle persone”.

In una realtà spesso orchestrata dalle grandi case discografiche, esistono eccellenze che se pur meno famose di altre, spesso propongono song migliori e meno commerciali. A Roma, per esempio, abbiamo incontrato China, un giovane capitolino che da molto tempo scrive e canta i testi delle sue canzoni. Nato un po’ ai bordi di periferia, China esprime tutta la sua grinta nei vari sound nei quali si cimenta, a cominciare dal rap e dal pop. Dopo anni di produzione indipendente, oggi il giovane fa parte della Clandestin Recordz, una neonata etichetta discografica che gli ha dato fiducia e con la quale collabora da qualche mese.

China: Canto prima di tutto me stesso

China quando hai cominciato a fare musica, e in che modo? 

Il mio primo approccio musicale avviene in età adolescenziale, quando frequentavo le scuole medie. In un primo momento attraverso il freestyle e successivamente attraverso i primi home studio, registrando le prime take. Durante le scuole superiori, nasce un’amicizia con Claudio Tarantino, anche lui artista romano, con il quale ho iniziato ad approcciarmi verso la cultura hiphop. Successivamente con la conoscenza del produttore attuale, amico fidato Triple Me, nascono i primi veri progetti musicali, come “41 Motivi” mixtape.

 

Le tue canzoni sono autobiografiche o vuoi raccontare qualcosa? 

Le mie canzoni sono prevalentemente autobiografiche, perché ora come ora ho la necessità di raccontare me stesso, ciò che ho passato e le mie emozioni. Il mio obbiettivo è arrivare al pubblico, attraverso il lato più emotivo delle persone. In futuro non escludo la possibilità di realizzare progetti che abbiano altri contenuti.

China: Canto prima di tutto me stesso 1

Perchè l’idea di chiamarti China? 

Il nome China deriva dal soprannome “er cinese” o “er Cina”, che fin da piccolo mi è stato dato dagli amici del mio quartiere romano, per via dei miei tratti somatici. Ho deciso di usare China come nome d’arte, associando il mio soprannome all’inchiostro che si utilizza per scrivere (la china).

 

Molto spesso questo tipo di musica è associata alle scorribande, perché secondo te? 

È un argomento delicato e potrei parlarne per ore. Parto dal presupposto che secondo me è sbagliato associare il rap solo alle scorribande, perché è un genere nato in America come forma di protesta. Non a caso la parola “rap” significa colpire. Tra i primi collettivi, pionieri, del periodo delle Posse (gruppi musicali anticonformisti ndr), ho memoria di Assalti Frontali e Ondarossa Posse, proprio perché rappresentano la prima forma di protesta musicale sulla scena rap italiana. Il fenomeno delle scorribande, a mio avviso, in Italia non è mai esistito. 

 

Hai un artista a cui ti ispiri, o China è un prodotto originale?

China è un prodotto originale, proprio perché autobiografico. Impronto i miei testi con una scrittura cantautorale, usando il mio lato più poetico. Sono alla continua ricerca di nuovi sound e nuove sperimentazioni.  La mia ultima uscita “Lividi” ne è l’esempio, ho scelto di mescolare sonorità grunge in un brano rap.

China: Canto prima di tutto me stesso 2

Da poco sei entrato alla Clandestin Recordz, come mai questa scelta? 

Lavorando da indipendente da anni, ho sempre pensato che fare un’esperienza con un’etichetta discografica, mi avrebbe arricchito. Ho scelto di lavorare con Clandestin Recordz perché è un team che ha abbracciato il mio progetto lasciando libera espressione alla mia arte.

 

Come mai il mercato discografico è in crisi? Colpa delle piattaforme web o sovraffollamento di artisti? 

La discografia presenta una leggera crisi, dovuta all’avvento degli stream, al quale il mercato ha fatto fronte, aderendo ai digital store, abbassando il costo della musica (registrazioni, sponsor, pubblicazioni) e provocando una diminuzione della vendita di copie fisiche dei prodotti. Tutto questo ha portato a un sovraffollamento di artisti e di conseguenza meno visibilità.

 

La vita non è sempre semplice, e i più grandi talent sono nati dalla strada o dal nulla. È

un rituale o una realtà inoppugnabile? 

La vita non è semplice e penso che sia una realtà comune. Gli artisti che più hanno lasciato il segno provengono da realtà difficili, dalle quali sono riusciti a far emergere il loro lato più creativo, usando il loro background personale per raccontarsi attraverso la musica.

 

Gianni Lupo

 Marco Spoletini, pluripremiato:  due David di Donatello, due Nastro d’Argento e tre Ciak d’Oro

La creazione di un film è l’insieme di applicazioni tecniche che rende reale l’immaginario artistico dell’autore.

Se alla base del linguaggio cinematografico troviamo l’inquadratura, la scena e la sequenza, dall’altra, il contributo del montaggio rende tutte queste componenti piene di senso narrativo attraverso l’accostamento di varie scene.

Il ruolo del montaggio conferisce alla rappresentazione cinematografica significato e logica del racconto.

Marco Spoletini: professione Montatore Cinematografico
Marco Spoletini con il team di lavoro per il film di Matteo Garrone

Ma non solo, mette insieme scene e frammenti a volte distanti tra loro, così da guidare lo spettatore verso un percorso visivo.

Un’affinità tra questo mestiere e la musica è il tempo, perché come in uno spartito il montatore è colui che scandisce una sequenza all’interno di un racconto cosi da trasmettere emozioni allo spettatore.

Ho avuto il grande piacere di intervistare uno dei più noti montatori del panorama italiano: Marco Spoletini.

Un grande professionista pieno di sensibilità e disponibilità.

Trent’anni di carriera che lo hanno portato a lavorare con moltissimi registi noti, uno tra questi Matteo Garrone.

Pluripremiato con due David di Donatello come migliori montatore, nel 2009 per Gomorra e nel 2019 con Dogman, due Nastro D’Argento e tre Ciak d’Oro.

Come ti sei avvicinato al mestiere del montatore?

Diciamo che nasce un po’ per caso. Ho frequentato l’Istituto Rossellini di Roma.

Dopo essere stato bocciato all’esame di operatore ho scelto la sezione di montaggio per non perdere l’anno, e con grande sorpresa ho scoperto che era il ruolo che mi appassionava di più.

Così, mi sono diplomato come montatore Cinematografico, subito dopo ho fatto domanda al Centro Sperimentale di Roma, accolta con successo.

Da qui si sono consolidate le mie basi tecniche.

Inoltre mi entusiasmava l’idea del “montautore” come dico io, che con il suo contributo dà vita al racconto.

Il mio ruolo per certi versi, è quello di uno spettatore interattivo, che riesce ad agire sulla materia e deve essere anche convinto emotivamente del materiale che ha a disposizione.

La tua carriera è molto vasta, ma ho visto che hai lavorato su tutti i film di Garrone?

Si, con Garrone ho lavorato su tutti i suoi film, sono un collaboratore storico.

Abbiamo condiviso veramente molto insieme, partendo dai suoi primi cortometraggi in cui eravamo tutti un po’ alla ricerca di una personalità.

Siamo cresciuti passo dopo passo, fino ad arrivare a grandi traguardi come Gomorra.

Raccontami di più di Gomorra. Com’è stato anche il rapporto con il lavoro del montaggio sonoro?

Gomorra sicuramente è un film con una struttura molto complessa.

Essendo un racconto di più storie che si intrecciano, questo infatti, è stato un elemento che ha reso articolata la creazione narrativa. rispetto ad un film come Dogman.

Parto da una piccola premessa, io a volte sono molto istintivo e senza tante regole matematiche.

Ma nonostante questo, ho scoperto che il montaggio ha una metrica che si avvicina molto alla musica anche quando questa non c’è, ad esempio proprio come in Gomorra.

Dove non è presente una colonna sonora, ma c’è uno scandire del tempo che ricorda gli atti di un’opera.

Marco Spoletini: professione Montatore Cinematografico 2
Marco Spoletini con un David di Donatello

Solitamente quali sono i tempi di lavorazione del montaggio di un film?

Ovviamente, dipende da film. Solitamente i miei tempi vanno da due a un massimo di quattro mesi.

Ma su film ci si può lavorare all’infinito, non finisce mai, lo si può solo interrompere.

Come un po’ per la composizione musicale, credo.

Qual è il tuo approccio con il contesto musicale? E se ti capita di essere ispirato dalla musica mentre monti?

Non ho altri riferimenti musicali quando monto, se non quelli del musicista che viene scelto.

Nel mio lavoro l’ispirazione musicale cerco di evitarla, per evitare di essere influenzato ovviamente posso dare delle indicazioni e un confronto tra il regista e il musicista.

Posso dare un’indicazione un consiglio della scelta della strumentazione con strumenti ad arco piuttosto che un pianoforte.

Marco Spoletini: professione Montatore Cinematografico

Il mio rapporto con la musica è sempre di collaborazione continua tra il regista e il musicista, con cui devono sempre interagire di volta in volta nella costruzione del film, per far sì che la musica entri dentro la storia senza sovrastare le immagini, infatti, il mio intento è seguire sempre un ritmo naturale della scena.

Ci sono vari tipi di approccio, partendo da quello più classico, dove la musica parte dopo una battuta e preannuncia il motivo della sequenza, diciamo che questo è quello che amo di meno.

Invece mi piace molto, quando la musica si insinua dentro la scena in modo quasi invisibile e indisturbato, in modo che non predomini il racconto delle immagini.

Nella fase del montaggio si vede quanta collaborazione e sintonia si crea per la buona uscita di un film.

Partendo dalla sceneggiatura fino ad arrivare alla musica, occorre un continuo scambio per far sì che il contesto musicale compenetri e si unisca con le immagini in modo naturale.

Ad esempio, per il film L’imbalsamatore di Garrone insieme alla Banda Osiris si era creato un feeling perfetto.

 

Il cinema è una grande macchina formata da tante piccole particelle che devono andare unicamente tutte nella stessa direzione per arrivare alla creazione di un film. Cosa intendi tu per collaborazione?

Penso, che la costruzione di un film, la si deve immaginare come una serie di strati.

Strati composti da immagini che predominano, i dialoghi, i rumori, gli ambienti e tutte le atmosfere che si vanno a creare.

La musica non è nient’altro che uno di questi strati che si deve fondere con tutto il resto, senza mai dominare le scene, deve essere semplicemente uno degli strati del film.

Il tuo lavoro detta uno ritmo e dei tempi del racconto proprio come fa un musicista…

Si, quando si costruisce la sequenza di immagini bisogna seguire un ritmo.

La sequenza delle immagini ha una cadenza e un andamento ben preciso per far sì che funzioni il racconto di un film.

Marco Spoletini: professione Montatore Cinematografico

Spesso lavoro su sessioni di suoni di montaggi molto complessi.

La prima cosa che cerco di fare è riportare suoni di ambienti nel modo più naturale possibile, in modo che chi lo vede lo sente già vicino a quello che sarà il prodotto finale.

Inoltre, in un film il suono a differenza dell’immagine, anche se ricostruito in una fase di montaggio è uguale a quello che sentiamo tutti noi a differenza dell’immagine che è bidimensionale.

Credo che la cosa bella di questo lavoro non è solo la soddisfazione professionale,

ma anche il lato emotivo che si cela dietro questo tutto, composto sempre da gente diversa e piena di storie, ma soprattutto di sentimenti.

 

Articolo a cura di Melissa Brucculeri

 

Angelo Bonanni: vincitore di tre David di Donatello e amante del suono in tutte le sue forme.

Il suono, ancor prima di diventare musica, può riecheggiare alle nostre orecchie regalandoci emozioni svariate. Le onde, la pioggia, la neve non sono musica bensì suoni, molto piacevoli. I suoni sono straordinari ed è ancor più meraviglioso il fatto che per sua natura fisica, si espanda fino ad un certo punto fino a cedere tutta la sua energia e terminare. In questo modo possiamo ascoltare la presenza di più suoni contemporaneamente senza che si confondano e si sovrappongano tra di loro.

Questo tema l’ho approfondito con un tecnico del suono professionista, Angelo Bonanni. Vincitore di tre David di Donatello e amante della musica in tutte le sue forme.

Angelo Bonanni: professione tecnico del suono
Angelo Bonanni con il David di Donatello

Come nasce la professione da tecnico del suono?

Ho sempre amato la musica, infatti nasco come musicista. Suono la chitarra, poi negli anni è nato anche il grande amore per la musica elettronica. Non a caso mi sono laureato come ingegnere del suono. Poi alla fine degli anni ‘90 fino ai primi anni 2000 ho aperto una piccola casa discografica, con la quale ho iniziato a produrre e registrare tracce di varie band. Quella che è arrivata più lontana è quella degli Ex-Otago.

In contemporanea svolgevo anche piccoli lavori radiofonici con registrazioni di vocali pubblicitari e piccoli jingle. Il mio primo contatto con il cinema è stato con un fonico, il quale mi ha portato con sé sul set di un film. Da qui ho iniziato a lavorare come microfonista. Mantenendo sempre la passione sia per la musica che per l’ingegneria del suono.

Un passaggio naturale …

Sono sempre stato un amante del cinema, ma non avrei mai pensato all’ipotesi di intraprendere la carriera di fonico di presa diretta. Ovviamente conoscevo la figura, però mi interessava più il contesto musicale. Poi questa piccola opportunità di andare sui set mi ha fatto scoprire che invece quel mondo mi affascinava molto, soprattutto perché sono riuscito a coniugarlo con la mia passione dell’informatica e delle nuove tecnologie. In quegli anni la registrazione sonora cominciava a diventare digitale e questo ha facilitato il mio ingresso nel mondo del lavoro. Trovavo molto naturale il modo di adoperare le nuove tecnologie che stavano nascendo, non ho mai avuto grandi difficoltà.

Ti saresti mai aspettato di vincere non un David di Donatello ma bensì tre?

No, non me lo sarei mai aspettato. Ogni David ha una sua storia. La prima cosa da dire è che il premio è cambiato negli anni.

Il primo è stato nel 2015 con “Non essere cattivo” di Claudio Caligari. Quell’anno la giuria giudicava ancora la miglior presa diretta. Un film molto particolare, con un regista importante che mi ha regalato grandi insegnamenti e una persona significativa nella mia vita. Ma soprattutto è stato un film dove gli attori hanno sfoggiato grandi performance. Da questo punto di vista la presa diretta è stata fondamentale proprio per far sì che l’interpretazione arrivasse allo spettatore in modo intatto. L’approccio è stato quello di lasciare gli attori il più liberi possibile.

Angelo Bonanni: professione tecnico del suono 1
Angelo Bonanni sul set del film “Veloce come il vento”

L’anno successivo, nel 2016, il premio si è trasformato in miglior suono. Ero in concorso con il film “Veloce come il vento” di Matteo Rovere. Dove oltre ad esserci una fantastica interpretazione di Stefano Accorsi, c’è stato un lavoro dei suoni non indifferente, perché tratta di una storia di corse d’auto. Un film che si è prestato molto bene a questo nuova categoria di premio, dove veniva giudicato il suono nel suo complesso. Grazie anche all’ottimo lavoro di Mirko Perri sound design, abbiamo tirato fuori un film che suonava benissimo.

Nonostante il grande affetto per il primo David, dal secondo in poi mi si sono aperti nuovi scenari. Appassionandomi cosi a film più strutturati dove la complessità del suono era maggiore a differenza dei classici film d’autore improntati molto sulla recitazione degli attori. Da qui mi sono ritrovato in un circuito di registi con in mente un sound design ben specifico, come Sidney Sibilla, Cupellini e Mainetti. Arrivando al terzo David con “Il primo Re” sempre di Matteo Rovere. Anche questa è stata un’esperienza molto interessante e sperimentale che mi ha dato grandi soddisfazioni.

Quale connessione ci sta tra la musica e il tuo lavoro?

Il mondo del tecnico si sposa con musica in modo un po’ trasversale. All’inizio non immaginavo che queste due arti potessero essere cosi affini. Perché il lavoro della presa diretta è cercare di prendere tutti i suoni nella maniera più pulita possibile però per saperlo fare devi conoscere e riconosce molto bene i rumori.

È corretto secondo te usare il termine rumori?

Secondo me no! La definizione fisica del rumore significa un suono che non si ripete nel tempo. Io ho sempre preferito chiamarli suono qualunque essi siano. Mi capita di ascoltare delle cose completamente informi dal punto di vista fisico però traendone incredibilmente piacere come se fosse della musica sinfonica.

Articolo a cura di Melissa Brucculeri

Laura Gigante, le note dell’attore: “La musica per me è fondamentale, mi aiuta ad entrare in un personaggio ma anche ad uscirne.

L’attore è colui che veicola un messaggio attraverso l’arte del proprio corpo. Questa espressione implica la possibilità di rappresentare la propria specificità e diversità, in quanto portatore di un’emozione da comunicare mediante il corpo e la voce. L’arte della recitazione ha bisogno di estrema empatia e di una perfetta sincronia tra il corpo e la mente.

 

Laura Gigante: professione attrice 1
Laura Gigante e Matilda Lutz in Mi chiamo Maya (2015)

Nell’articolazione di un film a dare un impatto ancora più incisivo è anche il contesto sonoro. Il legame che si crea tra la musica e la messa in scena di un racconto diventa un qualcosa di magnifico.

La musica non solo espande la scena al di là del visibile, ma trasforma anche la performance dell’attore, rendendola emotivamente più intensa, sia per lui che per il pubblico.

Ho avuto il piacere di incontrare una giovane attrice, Laura Gigante. Di origini napoletane ma nata e cresciuta a Modena. Una ragazza semplice e spontanea. La sua carriera nel mondo del cinema è esordita con il film Albakiara nel 2008. Inoltre ha lavorato con tantissimi professionisti come Andrea Gagliardi, Stefano Prolli e Tommaso Agnese.

Ciao Laura, come nasce la passione per la recitazione?

Tutto è iniziato all’età di 19 anni, quando mi trasferii a Bologna per frequentare il DAMS. Un giorno andai a fare un provino, era partito tutto per guadagnare qualcosa come comparsa. Così mi ritrovai con il regista Stefano Salvati e Carlo Lucarelli a parlare della mia vita.  Rimasero molto colpiti da me e ad essere sincera anche io, non mi aspettavo di ricoprire un ruolo da protagonista. Da quel momento ha preso corpo il mio primo film Albakiara.

Raccontami dell’esperienza del film Albakiara?

Intensa! Perché molti spunti del film sono stati presi dalla mia vita. Il mio lavoro da attrice è iniziato dal primo giorno di scrittura della sceneggiatura. Dopo quasi due anni, tra le varie vicissitudini sono partite le riprese. Così mentre il film prendeva corpo, io frequentavo varie accademie a Bologna, come Bsmt e Galante Garrone. Una delle cose che mi ha emozionato di più è stata proprio la musica. Perché in quegli anni ascoltavo molto Vasco Rossi e nella maggior parte del film predominavano le sue canzoni. Infatti, il titolo del film si rifà alla sua celebre canzone Albachiara.

Dopo questo tuo primo debutto da protagonista?

Dopo Albakiara, ho intrapreso una carriera nel genere horror. Ho avuto una parte in Ubaldo Terzani Horror Show, con la regia d Gabriele Albanesi. Ho collaborato anche con i Manetti Bros. Poi ho avuto delle scene in “Poli Opposti” di Max Croci e in “Universitari” di Federico Moccia.

Nel 2005 ho interpretato una parte nel film “Mi chiamo Maya” di Tommaso Agnese. Un ruolo molto introverso e dark, insieme alla protagonista Matilda Lutz. Il mio personaggio, quello di Bea, mi ha stravolto completamente sia fuori che dentro. Avevo un look completamente diverso dal mio, mi sono dovuta rasare i capelli e cambiare colore, non mi riconoscevo più. Mi è servito molto per entrare nel ruolo di Bea ascoltare i Led Zeppelin e uno dei miei preferiti Fabri Fibra, lui mi accompagna sempre.

Laura Gigante: professione attrice
Laura Gigante nel videoclip di Salmo “Faraway”

Tra i tuoi vari lavori sei stata anche la protagonista del videoclip di un brano di Salmo “Faraway”

Adoro la musica rap. Collaborare con Salmo e la sua crew per il video Faraway è stato pazzesco. Un’esperienza sicuramente nuova per me, ma anche la più bella in assoluto.  È stato un lavoro dove abbiamo messo tutti tanta passione. Ho avuto la possibilità, grazie ai registi, due ragazzi veramente in gamba, Niccolò Celaia e Antonio Usbergo, di improvvisare quasi sempre e di vivermi il personaggio in piena libertà. A lavoro finito ho proprio goduto nel rivederlo!

Quando studi una parte ti capita mai di utilizzare la musica per immergerti nel personaggio?

La musica per me è fondamentale. Certo, mi aiuta ad entrare in un personaggio ma anche ad uscirne. Perché sai, a volte uscire da un ruolo non è sempre facile e in questo caso la musica è un vero tocca sana. Ad esempio, dopo una dose di Fabri Fibra, per uscire dal vortice negativo ho bisogno di musica reggae. Mentre se ascolto musica malinconica, come quella del grande Pino Daniele, dopo ho bisogno di sana allegria, che non mi faccia pensare. La musica ci può condurre anche verso una profonda ed intima visione introspettiva di noi stessi. È un’energia potente che mi accompagna in ogni momento.

Articolo a cura di Melissa Brucculeri

 

 

Il regista è come un direttore d’orchestra

Saverio Di Biagio: professione regista
Saverio Di Biagio regista

Saverio Di Biagio: il regista è come un direttore d’orchestra.

La musica è lo strumento che aiuta le immagini a trasmettere emozioni, a sottolineare momenti bui nei film drammatici o rafforzare delle scene per renderle “scene chiave”. La musica è dunque un racconto, non di forma visiva, ma bensì sonora. La colonna sonora non è solo un accompagnamento, ma diventa parte integrante del film stesso. Come un compositore deve dirigere la sua orchestra così anche il regista con la stessa grazia deve coordinare la grande macchina del cinema.  Queste due forme d’arte si accomunano per la loro sensibilità, perché a volte il regista riesce a cogliere e immortalare immagini che sono piene di sentimenti ed emozioni.

Per raccontare più nel profondo questo binomio vincente, ho incontrato un talentuoso e appassionato regista, Saverio Di Biagio. Da anni ormai impegnato nel mondo del cinema. È stato docente della Scuola d’Arte cinematografica G. M. Volontè. Inoltre con la sua opera prima “Qualche Nuvola” è stato in concorso alla 68th edizione del Festival di Venezia.

 

Come nasce la passione per questo mestiere?

Nasce da un percorso formativo. Negli anni ho provato a fare diversi studi come: architettura, lettere, scenografia e costumi. Prima di intraprendere questo lavoro, non capivo ancora bene quale forma espressiva mi intrigava di più. Poi nelle mie varie esperienze mi sono avvicinato al teatro come direttore di scena. Ho iniziato a lavorare in piccoli e medi spettacoli teatrali, fino ad arrivare a fare delle tournée più grandi, la così detta scala montagne, perché ogni giorno stavi in una città diversa, ero sempre in movimento.

 

Come sei passato dal teatro al cinema?

Tutto è partito da quando ho conosciuto un noto regista cinematografico, Gianfranco Mingozzi, al quale ero molto affezionato. Venne a vedere uno spettacolo dove io facevo il direttore di scena. Proprio in quel contesto, mi notò e mi disse che dovevo fare l’aiuto regista. Io rimasi sorpreso perché non sapevo neanche cosa facesse l’aiuto regista, e lui mi disse che ero un po’ come il prezzemolo, stavo bene dappertutto. Così mi propose di andare con lui su un set come aiuto regista, era il 1995.

Da lì ho iniziato a capire che il ruolo del regista era quello più affine con le mie capacità, perché combinava un po’ tutto quello che avevo studiato in precedenza.

 

Raccontami dei tuoi film. Come è stata anche a scelta e la creazione delle musiche?

Il mio primo lungometraggio è stato “Qualche nuvola” che ho scritto e diretto, è come un figlio per me.

Racconta un mondo che conosco bene, la periferia. Cosa vuol dire nascere in periferia, sognare di fare dei salti di classe in avanti e di essere insoddisfatti della propria estrazione sociale. Un film che fa ridere molto ma allo stesso tempo anche riflettere. Un film sentito e vero che abbiamo fatto con tanto amore.

Nel 2004, ho ricevuto la mansione speciale del Solinas nelle commedie. Dopo questa grandissima soddisfazione, ho avuto ancora più tenacia nel realizzarlo a tutti i costi. È  stata un’esperienza unica, e ringrazio anche il team con cui ho lavorato.

Per quanto riguarda il contesto musicale, ho avuto la gran fortuna di lavorare con il compositore Francesco Cerasi. Bravissimo e appassionato del suo mestiere. Con Francesco si era creata una sintonia perfetta, abbiamo parlato tanto di musica e di sentimenti. Sai, spesso dietro un’immagine ci sono emozioni scritte nell’acqua che le vede solo chi riesce a cogliere, e lui in questo è formidabile. È riuscito a supportare le immagini senza sovrastarle.

Il secondo film, “La ragazza dei miei sogni” invece è un urban fantasy. Le musiche le ha realizzate Alfonso Corace. Anche con lui è nato un bel rapporto e un ottimo scambio di idee. Tra i vari esperimenti è riuscito a rappresentare con la musica il racconto, proprio come me lo immaginavo.

Saverio Di Biagio: professione regista 1
Saverio Di Biagio regista

Ora su cosa stai lavorando?

Sto portando avanti vari progetti. Insieme a un gruppo di giovani professionisti del cinema abbiamo istituito una società, la Woterclock, con la quale stiamo realizzando molti lavori. Inoltre sono impegnato nella creazione del mio prossimo lungometraggio. Tratta un argomento molto attuale e crudo, ma ho trovato una chiave molto poetica per raccontarlo, ma non posso dirti di più!

 

Il lavoro del regista e quello del compositore per alcuni aspetti si accomunano molto. Secondo te quale può essere un elemento di congiunzione tra queste due arti?

Immagini e musica è una combinazione quasi sempre perfetta. La cosa interessante è che possono coesistere insieme ma anche separatamente. Ma quando si uniscono le immagini giuste con la giusta musica si crea un’alchimia unica, che regala emozioni indescrivibili allo spettatore. Sicuramente un punto d’unione è il sentimento che si cela dietro queste due forme d’arte, forse ancor meglio la chiave è l’amore.

 

Articolo a cura di Melissa Brucculeri

Stefano Giambanco professionista dell’arte della scenografia, lavora da ormai più di trent’anni su set di film, fiction e pubblicità.

 

La funzione scenografica ha un ruolo fondamentale nel racconto di una storia. Una location significa non solo la scelta del contesto del luogo, ma si riferisce anche al tempo. Tempo inteso come luogo storico, un passato recente o remoto, il presente o un’epoca futura come nel caso della fantascienza. La scenografia ha la potenza di impreziosire e cogliere la vera essenza di un racconto, come una bella cornice con un quadro.

Nella progettazione di una scena, la bravura dello scenografo sta anche nel manipolare lo spazio e gli oggetti che ha a sua disposizione.

Questa disciplina così ampia, fluida e versatile sposa bene con molte forme d’arte, come la musica ad esempio.

Il rapporto tra musica e scenografia spesso è complementare. Con la loro unione si creano emozioni e bellezza.

L’ambientazione colma il vuoto dove le parole non riescono ad arrivare, perché le parole non arredano lo spazio.

Nell’intraprendere questo viaggio nel mondo della scenografia ho avuto il piacere di essere accompagnata da Stefano Giambanco. Professionista dell’arte della scenografia, lavora da ormai più di trent’anni su set di film, fiction e pubblicità.

Stefano Giambanco, professione scenografo: le vibrazioni di uno spazio
Stefano Giambanco

Raccontami della tua professione. Come nasce la tua carriera da scenografo?

Totalmente per caso, perché non avendo potuto fare studi specifici, in quanto all’epoca mia fine anni 70 oltre all’Accademia delle Belle Arti non c’era una formazione in quest’ambito. Dopo essermi diplomato a 18 anni, mia madre non mi ha mandato all’artistico, io a quel punto ho detto e ora cosa mi invento?! Ho frequentato un liceo assurdo con un’impronta militare, dove finiti gli studi si poteva intraprendere la carriera nell’aeronautica militare. Ma non era proprio la scuola che faceva per me, infatti al secondo anno ho mollato.

E poi che è successo?

Ho deviato facendo il geometra. Mi hanno insegnato a costruire, ci stava molta pratica, infatti è stata la mia base di architettura, che mi è tornata molto utile. Sicuramente mi sarebbe piaciuto fare l’accademia delle belle arti ma ho comunque accumulato una parte tecnica molto specifica che ha fruttato nel tempo.

Non sapevo che volevo fare lo scenografo, io volevo fare l’artista, punto! Non avevo ancora le idee ben chiare.

Finiti gli studi, sono entrato per caso, in un giro di restauratori di opere d’arte, avevo 19 anni. Ho imparato il mestiere facendo molta gavetta sui ponteggi dove mettevo mani su affreschi di noti artisti che risalgono al 400’. Ho studiato sul campo, rubando con gli occhi. Ma con il passare del tempo avevo capito che ero portato per qualcosa di più dinamico.

Un giorno, una mia amica che all’epoca frequentava l’accademia d’arte drammatica, mi disse che un amico della madre, scenografo, cercava un’assistente per un film sugli antichi romani, e così mi presentai.  Rimasi folgorato da questo mestiere, e avevo capito che era il lavoro adatto a me. Mi sono lanciato senza una preparazione specifica, ma tutte le esperienze precedenti mi sono tornate utilissime.

Sei uno scenografo affermato che ha lavorato su tanti set di film e fiction, ma quale tra queste esperienze hai un ricordo anche legato alla musica?

Mi sono divertito molto sul set del film “Ogni lasciato è perso” con la regia di Piero Chiambretti. Un film assurdo, che ho amato anche da un punto di vista scenografico, dove ho dato sfogo alla creatività andando anche un po’ sopra le righe. Un racconto autobiografico di sè stesso, di quando è stato lasciato dalla sua fidanzata e lui era impazzito dal dolore.

Mi ricordo di quando facevamo i sopraluoghi. Giravamo io e lui in macchina alla ricerca delle location, mentre mi faceva da cicerone per Torino metteva sempre molta musica, essendone un grande amante. Poi ovviamente durante le riprese avevamo tutti bisogno di concentrazione quindi si cercava molto silenzio. È stata una grande esperienza.

E poi ovviamente un altro ricordo che mi ha lasciato il segno è stato sul set di “Radiofreccia” con Luciano Ligabue.

Raccontami di più di Radiofreccia. Com’è stato lavorare per un artista che veniva proprio dalla musica e non dal cinema?

Spettacolare. Pensa che prima del film non avevo mai sentito la musica di Luciano Ligabue. Ascoltavo i classici cantautori come De Gregori, ma Ligabue non l’avevo mai approfondito. Mi piaceva anche molto l’elettronica tedesca. Diciamo che avevo abbandonato la famosa chitarra dei campeggi.

In Radiofraccia ero il direttore artistico, quindi ho curato sia i costumi che la scenografia. Luciano è un personaggio incredibile, molto rocker. Mi sono affezionato perché ho passato quasi un anno insieme a lui, tra preparazione e riprese. È stato fichissimo anche entrare nel vivo nella sua vita. Un’esperienza anche a livello emotivo molto forte, incredibile! Si era creata un’atmosfera unica e indimenticabile.

Mi ricordo di quando giravamo, lui aveva prima le canzoni in testa e poi le scene. Infatti quando abbiamo letto il copione ci ha fatto sentire la colonna sonora che era già pronta.

Quando è finito ho pensato, un altro film cosi con quell’atmosfera e quell’energia di primo pelo con tutti non l’ho più provata. Ho vissuto bellissime esperienze in tantissimi altri lavori, ma così emozionante con un artista appunto che veniva dalla musica non l’ho più vissuta.

Tu suoni qualche strumento?

Si, da piccolo. Mi divertivo molto a suonare la chitarra nei campeggi, dove intrattenevo le comitive. Suonavo i classici: Battisti, De Gregori e Pino Daniele. Poi per un periodo ho iniziato a suonare anche le percussioni. Mi esibivo nei concerti del liceo, andavo a suonare al liceo artistico Giulio Romano di Roma.

Qual è secondo te un elemento essenziale per chi intraprende questo mestiere?

La cosa più importante nel mio lavoro, ma anche in tanti altri, è sicuramente la curiosità. Soprattutto per chi sceglie di prendere un percorso artistico e creativo come lo è anche nella musica. Questo credo che sia una componente fondamentale, non smettere mai di cercare e ricercare nuovi stimoli.

 

Articolo a cura di Melissa Brucculeri

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