#Notedicarta: “Chi ha paura dei Rolling Stones? Eccessi e successi della più grande rock’n’roll band del mondo descritti dalla stampa italiana”

“Chi ha paura dei Rolling Stones? di Alberto Pallotta
“Chi ha paura dei Rolling Stones? di Alberto Pallotta

Rolling Stones o Beatles? Senza dubbio questa domanda rappresenta una delle più grandi rivalità della storia della musica. Di fatto, però, la meteora dei Beatles si snoda attraverso appena dieci anni della storia della musica internazionale, dal 1960 al 1970, contro una carriera, quella dei Rolling Stones iniziata nel 1962 e ancora attiva.

E poco importa, come sostengono i beatlesiani di ferro, che le loro canzoni sono “per sempre” perché questo succede per la maggior parte delle band nate in quel magico decennio, quel decennio in cui si formarono Pink Floyd, Led Zeppelin, Queen, Deep Purple, AC/DC, Genesis, Dire Straits, Jethro Tull, Eagles, The Who, Black Sabbath e l’elenco potrebbe allungarsi ancora aggiungendo, ovviamente, Rolling Stones e Beatles.

Ma, per tornare alla domanda iniziale, le due band britanniche hanno rappresentato non solo due lati della stessa medaglia, quella della musica, ma anche i due lati della società del tempo. Jagger era il vicino di casa indesiderabile e indesiderato, quello che avrebbe messo a dura prova la virtù delle figlie.

“Chi ha paura dei Rolling Stones? di Alberto Pallotta book cover
“Chi ha paura dei Rolling Stones? di Alberto Pallotta book cover

Brutto, sporco e cattivo, insomma, come lo furono gli Stones. Dall’altro lato il visetto grazioso di McCartney che, seppur con i capelli lunghi, portava in dote quell’aria di bravo ragazzo che avrebbe convinto la madre a lasciar uscire con lui la figlia.

Dal punto di vista musicale, poi, diventa difficile confrontare due band che, a parte una labile identità comune riguardante il blues e il rithm’n’blues, hanno sviluppato il proprio percorso artistico verso il pop, seppur inglese, dei Beatles e quello più rock degli Stones.

Che i Rolling Stones abbiano spesso pagato il prezzo della loro cattiva fama è da sempre noto, ma ora Alberto Pallotta, scrittore e critico cinematografico romano, grande conoscitore del gruppo britannico, con il suo “Chi ha paura dei Rolling Stones? Eccessi e successi della più grande rock’n’roll band del mondo descritti dalla stampa italiana” edito da Arcana edizioni, lo mette nero su bianco, qualora ce ne fosse bisogno.

Trecentoventi pagine, suddivise in capitoli ognuno dei quali dedicato a un episodio o a un aspetto iconico relativo alla band.

Il libro di Pallotta ripercorre le ragioni che stanno dietro la loro cattiva fama, dalla loro nascita nel 1962 nel segno di Robert Johnson e Muddy Waters, al primo articolo apparso sulla stampa nazionale nel 1964, dai continui scontri con la censura e con le forze dell’ordine, alle

“Chi ha paura dei Rolling Stones? di Alberto Pallotta
Rolling Stones

ripercussioni che quella nomea ebbe sul pubblico italiano, generalmente conservatore e suscettibile di fronte alle disavventure degli Stones che culminarono con l’omicidio di uno spettatore durante lo storico concerto di Altamont quando, il 6 dicembre 1969, i Rolling Stones salirono sullo sgangherato palco di un concerto organizzato al circuito di Altamont, in California, come risposta della costa occidentale degli Stati Uniti al festival di Woodstock, avvenuto poco prima.

Quasi 300mila le persone che avevano già assistito alle esibizioni degli artisti che avevano preceduto gli Stones, i quali, essendo una delle band rock più famose del mondo, erano gli ultimi a suonare.

Durante lo show Meredith Hunter, un giovane afroamericano fu accoltellato a pochi metri dal palco e questo evento lo trasformò in uno degli eventi più tristemente noti della storia del rock, segnando il momento in cui, secondo molti critici musicali, si chiusero tragicamente gli anni Sessanta della cultura hippie e del pacifismo.

La stagione del grande rock ha solo sfiorato il nostro Paese, dove il pop è stato sempre più amato e la musica dei Beatles è stata sempre ritenuta più tranquilla e orecchiabile. Da noi, tanti anni fa, erano pochissimi quelli che conoscevano l’inglese e il prodotto anglosassone, nei suoi termini incomprensibili, metteva a disagio la massa.

“Chi ha paura dei Rolling Stones? di Alberto Pallotta Rolling Stones - 1962 - debutto live - Photo (C) Rumor
Rolling Stones – 1962 – debutto live – (Photo © Rumor)

Erano molto più confortanti le cover di brani famosi, tradotti, spesso, con tutt’altro significato, nella nostra lingua. Se i Beatles erano dei rivoluzionari, degli innovatori, gli Stones erano dei sovversivi che attingevano dal blues. Entrambi erano frutto di corposi movimenti generazionali, ma tra loro erano molto diversi”, scrive Pallotta.

Unico limite, che però non inficia la qualità del lavoro di Pallotta sono le fonti. Pallotta ha compiuto la sua (peraltro encomiabile) ricerca attingendo agli archivi di pochi quotidiani e nella sua ricerca, e quindi suo libro, mancano diverse testate nazionali su cui scrivevano autorevoli critici musicali, i rotocalchi e la stampa specializzata.

Il fatto che, tra le fonti, non ci sia “Ciao 2001” rappresenta una pecca non di poco conto.

A proposito della domanda iniziale, invece, io non ho alcun dubbio sulla risposta e, per onestà intellettuale nei vostri confronti, ve la scrivo: Rolling Stones.

“George Harrison – What is life” a cura di Ashley Kahn. Scopriremo il George ambientalista, il George generoso altruista che vorrebbe accumulare denaro per poi regalarlo

#Notedicarta: George Harrison - What is life
#Notedicarta: George Harrison – What is life (Getty Images: Paul Vicente)

Sono passati poco più di vent’anni dalla scomparsa del “quiet Beatle”, come era definito George Harrison. Classe 1943, dal 1960 al 1970 Harrison è stato il chitarrista solista e cantante dei Fab Four.

Nel 1988 fu uno dei fondatori dei Traveling Wilburys, una superband che, oltre a lui, era formata da Bob Dylan, Jeff Lynne, Roy Orbison e Tom Petty.

Che sia chiaro, “George Harrison – What is life” non è una biografia di quel chitarrista che, nel 2011, risultò all’undicesima posizione nella classifica stilata dalla rivista “Rolling Stones” dei 100 migliori chitarristi di sempre.

E non è nemmeno l’agiografia di un fan sfegatato che ha deciso di rendere omaggio al suo beniamino.

#Notedicarta: George Harrison - What is life The Beatles
#Notedicarta: George Harrison – What is life – Beatles

Ashley Kahn, che ha curato il volume pubblicato in Italia con la traduzione di Seba Pezzani da “Il saggiatore”, è uno storico della musica, giornalista e produttore americano e il suo volume raccoglie interviste e incontri con il chitarrista, suddivisi in cinque parti, che vanno dal 1962 al 2001.

Si tratta, dunque, di una raccolta, completa e organica dell’Harrison-pensiero che, inevitabilmente, svela il suo amore per la spiritualità e per l’India, amore che l’ha accompagnato fino al momento del suo ultimo respiro.

Ma non solo. Il ritratto, se possiamo permetterci di chiamarlo così, che esce dalla lettura del libro, ci svela un Harrison divertente e, a tratti, sagace.

#Notedicarta: George Harrison - What is life book cover
George Harrison – What is life di Ashley Kahn – book cover

Forse un po’ ingenuo nel raccontare nelle diverse occasioni il suo pensiero ma, forse proprio per questo, mai costruito, senza inutili sovrastrutture o tracimazioni di egocentrismo.

Il Beatle tranquillo, a distanza di tempo, ha di nuovo l’occasione per parlarci di sé, del suo rapporto con i Beatles, come ad esempio risulta da un’intervista che rilasciò nel 1970 in cui, con molta sincerità, non esitò e parlare dei problemi con il bassista, Paul McCartney, dei limiti sul piano creativo che riconosceva alla band e di quanto questo fosse il risultato delle problematiche creative vincolate al monolite Lennon/McCartney.

#Notedicarta: George Harrison - What is life da giovane
George Harrison – What is life

Ricordiamo che, nel decennio in cui è stato il chitarrista dei Beatles, Harrison ha firmato per la band 25 canzoni.

Scopriremo il George ambientalista, il George generoso altruista che vorrebbe accumulare denaro per poi regalarlo, ma anche il George preoccupato per l’assenza di controllo sul catalogo della band, per cui ogni canzone rischia di essere in balia di chiunque tanto da poter finire indifferentemente nelle soundtrack pubblicità oppure pubblicata in album con tracklist stravolte senza che nessuno possa più fare nulla.

L’importanza dell’Harrison compositore è evidenziata anche dalla scelta contenuta nel titolo del libro che cita, appunto, “What is life”, un suo brano del 1970 che fu, al tempo, il secondo singolo estratto del suo “All Things Must Pass”.

#Notedicarta: George Harrison - What is life Harrison con i Beatles in una sessione di studio
Harrison con i Beatles in una sessione di studio

In quasi settecento pagine, Kahn ha il merito di costruire un lungo percorso all’interno della personalità di Harrison che appare, sicuramente per la gioia dei suoi estimatori, un artista serio, attento ai dettagli musicali, appassionato di filosofia e di meditazione ma anche, come già indicato, divertente perché dotato di un umorismo acido e, talvolta, sarcastico.

#Notedicarta: William S. Burroughs, sicuramente il più trasgressivo tra gli scrittori beat

“William S. Burroughs e il culto del Rock'n'roll”
William S. Burroughs e il culto del Rock’n’roll -Burroughs and David Bowie

William S. Burroughs impiega diffusamente la tecnica narrativa del cut-up che caratterizza opere come “Il pasto nudo”, “La scimmia sulla schiena”, “I ragazzi selvaggi” e “Le città della notte rossa”.

Burroughs, personaggio con una personalità multiforme, per decenni si è impegnato in esplorazioni creative, psicologiche e farmacologiche.

La sua opera è originalissima, espressione di una personalità unica, di particolarissime attitudini e di uno stile di vita volutamente provocatorio, contestatore e anticonformista.

Se non conoscete bene chi sia stato, e chi riesca a essere tutt’oggi, Burroughs, questo “William S. Burroughs e il culto del Rock’n’roll” di Casey Rae uscito per Jimenez edizioni è il libro che fa per voi.

Casey Rae, l’autore, è un critico e docente universitario che riesce a dimostrare quanto il personaggio Burroughs, e la sua letteratura, abbiano influenzato la cultura underground e molti musicisti come i Beatles, Lou Reed, Bob Dylan, David Bowie, Kurt Cobain e molti altri.

I musicisti che da Burroughs hanno tratto ispirazione sono in effetti moltissimi e alcuni di questi erano suoi amici, altri, pur appartenenti a un’epoca molto diversa e lontana da quella dell’autore ne sono rimasti affascinati tanto da arrivare al punto di citarlo nei titoli delle canzoni oltre che a considerarlo un punto di partenza per il proprio lavoro.

“William S. Burroughs e il culto del Rock'n'roll” - book cover
“William S. Burroughs e il culto del Rock’n’roll” – book cover

Si tratta, senza dubbio, di uno dei libri migliori sul rock anche se non parla strettamente di rock. Ovvero, parla di rock in modo specifico, ma questo saggio è sostanzialmente una biografia di William Burroughs attraverso le sue interazioni col rock.

Rae non idealizza e non demonizza Burroughs ma riesce a raccogliere e raccontare storie che pongono in risalto innanzitutto l’aspetto umano dei personaggi che contribuiscono a tracciare il ritratto di Burroughs, le loro relazioni e le alchimie che hanno condotto ognuno di loro verso un certo percorso artistico condizionato, come già dicevo, da Burroughs.

“Per alcuni, Burroughs è un prete tossico che offre saggezza hardboiled, portavoce di un underground narcotico.

Per altri è un mago oscuro le cui conoscenze filosofiche occulte hanno aperto la strada agli stregoni do it yourself di oggi.

“William S. Burroughs e il culto del Rock'n'roll” Burroughs and Kurt Cobain
“William S. Burroughs e il culto del Rock’n’roll” – Burroughs and Kurt Cobain

Altri ancora, in particolare musicisti e autori di canzoni, traggono ispirazione dai suoi metodi creativi, incluso il cut-up dei testi e il tape splicing” scrive Rae nell’introduzione del suo libro e le sue parole suonano più come una minaccia svelata che non come un’affermazione.

Molti già conoscono le vicende che lo hanno portato a dominare le prime pagine dei giornali anche quando non si parlava dei suoi lavori, come il fatto che amasse vivere in un bunker a New York oppure la storia della sparatoria che lo vide coinvolto in un episodio di cronaca nera nel 1951.

Burroughs, da sempre ossessionato dalle armi, aveva sempre con sé un revolver, una “Star 380 automatica” e, giocando con la moglie Joan Vollmer a fare Guglielmo Tell, completamente ubriaco, sparò basso e la colpì alla tempia uccidendola.

Oppure che nel 1976 Burroughs avrebbe dovuto unirsi a Dylan per un tour, cui partecipò anche Ginsberg, invece rifiutò perché, pare, non gli venne offerta una diaria.

Non sta a me raccontarvi quanto contenuto libro anche perché ci sono troppi aneddoti, troppe cose che sicuramente troverete stimolanti.

Si tratta di un libro che spazia moltissimo dalla musica alla letteratura con alcune incursioni anche nella pittura.

William S. Burroughs e il culto del Rock'n'roll
William S. Burroughs e il culto del Rock’n’roll

Scritto in modo coinvolgente, è ricco di note per chi volesse approfondire ulteriormente la figura di Burroughs se ritenesse le 368 pagine divise in otto capitoli in cui Rae sviluppa il suo libro non fossero sufficienti soprattutto alla ricerca di una risposta alla domanda “L’attuale cultura della distorsione temporale è forse anch’essa una eredità di Burroughs?”

#Notedicarta: “70 volte Vasco. Storia di una rockstar” di Marco Pagliettini e Massimo Poggini

 

“70 volte Vasco. Storia di una rockstar”
“70 volte Vasco. Storia di una rockstar”

È uscito per “Baldini+Castoldi”, in concomitanza del suo compleanno, un libro che ripercorre la carriera e la storia di Vasco attraverso settanta date significative. Si intitola “70 volte Vasco. Storia di una rockstar” ed è stato scritto da Marco Pagliettini e Massimo Poggini.

Pagliettini, classe 1970, è un giornalista che collabora e scrive per testate locali liguri. Gestisce un blog monotematico, a tema Vasco, su spettakolo.it.

Massimo Poggini, invece, fondatore e direttore di spettakolo.it, è un giornalista di lungo corso che nella sua carriera ha intervistato tantissime star nazionali e internazionali.

Ha scritto numerosi libri dedicati alle più grandi rockstar e band del panorama musicale e a lui si deve il primo libro su Vasco, quel “Una vita spericolata” edito da “Sugarco” uscito nel 1985.

“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” - Vasco Rossi - 45 giri Jenny-Silvia
“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” – Vasco Rossi – 45 giri Jenny-Silvia

Non si tratta di una vera e propria biografia ma di un lungo viaggio attraverso 70 eventi e ne celebra il percorso, artistico ed umano, attraverso le sue canzoni e i suoi concerti più memorabili.

Dagli inizi quando a “Punto Radio”, in una piccola radio locale, una di quelle allora definite “radio libere”, quasi per gioco, il giovane Vasco Rossi da Zocca, passa da fare il disc-jockey a fare il cantante.

Era il 15 giugno 1977 quando Rossi incide il suo primo 45 giri che contiene sul lato A “Jenny è pazza” e sul lato B “Silvia” e da quel giorno inizia a barcamenarsi tra porte chiuse in faccia ed etichette minori.

“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” - book cover
“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” – book cover

Ma Vasco Rossi è di fatto una novità, in quel panorama musicale italiano perché suona musica rock e ha deciso di sdoganare il genere.

Per farlo, partecipa al Festival di Sanremo nel 1982 con “Vado al massimo” e l’anno successivo con “Vita spericolata” e, nonostante tutto, inizia il suo incredibile successo perché diventa subito una star, anzi una rock-star.

Icona della musica rock italiana, il rocker di Zocca attraversa momenti bui e vicende personali turbolente come da copione di molti “belli e dannati” della musica.

Ma il mito, quello di Vasco Rossi, persiste ancora oggi, a 70 anni compiuti lo scorso 7 febbraio.

“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” - Vasco Rossi e Gaetano Curreri
“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” – Vasco Rossi e Gaetano Curreri

Il libro ci porta a respirare l’aria degli anni di Vasco, dai tempi in cui suonava canzoni per sé e pochi altri e Gaetano Curreri, frontman e autore degli Stadio, lo convinse a fare diventare la musica una professione, scelta che diede il via alla loro collaborazione che non si è mai arrestata.

Oppure quando arrivò, altra figura importante per la sua crescita artistica, il chitarrista Maurizio Massimo Solieri che, con il suo modo di suonare, fece diventare Vasco quello che è e lo dimostra l’assolo di “Albachiara”, che ne è l’esempio più evidente.

Si è trattato, sicuramente, di un rapporto artistico caratterizzato da divorzi e ricongiungimenti ma Massimo Solieri rivestì un ruolo essenziale nella crescita e nel consolidamento autorale e musicale di Rossi come dimostrano “C’è chi dice no”, “Canzone” e “Lo show” che sono solo alcuni dei brani composti dal chitarrista modenese per il rocker di Zocca.

Una carriera che ha portato Vasco Rossi a esibirsi ben 29 volte nello stadio di San Siro, contribuendo a trasformarlo da luogo simbolo per il calcio a luogo simbolo e iconico dei grandi concerti italiani, e non solo “Perché quando salgo su un palco, tutto funziona, tutto va al posto giusto” ha dichiarato lo stesso Rossi.

“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” - Vasco Rossi e Maurizio Solieri
“70 volte Vasco. Storia di una rockstar” – Vasco Rossi e Maurizio Solieri

Al limite dell’agiografia, il libro parte fissando dei punti fermi, quegli episodi che servono da spina dorsale al racconto.

Gli autori li contestualizzano e li rievocano anche attraverso citazioni di giornali e d’interviste con un linguaggio che ha il passo del cronista, mettendosi al servizio della narrazione senza protagonismi individuali.

480 pagine da leggere tutte d’un fiato non solo dal popolo di Vasco ma anche da chi l’ha sempre snobbato per capire meglio l’uomo, quell’uomo che oltre ai grandi successi che ognuno di noi canticchia sotto la doccia è riuscito a diventare punto di riferimento per migliaia di giovani che hanno deciso di mettersi davanti al microfono e imbracciare una chitarra.

#Notedicarta: Serge Gainsbourg cantautore, attore, regista, compositore e paroliere russo naturalizzato francese di origini ucraine

“Il senso per la parola di Serge Gainsbourg”
Serge Gainsbourg e Jane Birkin

Spero che la prima domanda non sia Serge Gainsbourg? Chi è?”. Lo spero di cuore perché se non sapete chi sia sicuramente siete i lettori ideali per questo libro di Marco Ongaro edito da Caissa Italia.

Per rispondere, però, alla domanda che non vorrei che vi faceste, sappiate che Serge Gainsbourg è lo di pseudonimo di Lucien Ginsburg, cantautore, attore, regista, compositore e paroliere russo naturalizzato francese di origini ucraine.

Però, forse, ricorderete “Je t’aime… moi non plus” che cantò in coppia con Jane Birkin e, in una prima versione, con Brigitte Bardot.

Cantante baritono noto per il repertorio provocatorio e che “eleva la decadenza ad arte raffinata” Serge Gainsbourg si cimentò sempre in un repertorio da chansonnier fondendo elementi jazz, pop e rock, questo dopo gli esordi jazz, cool jazz e yé-yé, stile che ha popolarizzato.

Viene spesso citato fra gli artisti lounge mentre altri lo considerano esponente della canzone d’autore, del pop barocco, del jazz e del pop-jazz. Secondo la rivista “AllMusic”, Gainsbourg è il principale artista French pop.

“Il senso per la parola di Serge Gainsbourg” - book cover
“Il senso per la parola di Serge Gainsbourg” – book cover

Il libro è scritto da Marco Ongaro, talento eclettico, cantautore (Targa Tenco nel 1987 per la miglior opera prima), autore, saggista, poeta e librettista d’opera.

Nelle sue pagine, l’autore senza trascurare di riassumere la biografia di Gainsbourg, di trattare i contenuti musicali della sua produzione, lo fa concentrandosi soprattutto sulle parole delle sue canzoni.

Proprio questo permettere di conoscere un aspetto assolutamente non trattato dalla precedente biografia uscita e narrare, al meglio, tutte le sfaccettature del grande cantautore francese.

Si tratta quindi di una biografia? Senza dubbio, ma si tratta di un lavoro che non cade mai nella aneddotica volgare o, ancor peggio, nella frivolezza del gossip anche se, ovviamente, non può mancare il racconto, cui è dedicato un capitolo, della storia d’amore tra Gainsbourg e Brigitte Bardot, ma viene fatto con i guanti di velluto e grande senso di rispetto come non può mancare una piccola stoccata a Gino Paoli per la sua “Sapore di Sale” decisamente molto simile alla “Le rock de Nerval” di Gainsbourg.

“Il senso per la parola di Serge Gainsbourg” con Brigitte Bardot
Serge Gainsbourg e Brigitte Bardot

La vita di Gainsbourg, tutta portata a trasformare se stesso in un Mito, certamente complicata che inizia nella Francia occupata dai nazisti, con il piccolo Lucien costretto a indossare un cappotto su cui era cucita una stella gialla.

Alla fine del conflitto lo troviamo a fervente Parigi quando Lucien vorrebbe fare il pittore ma il padre lo spinse a dedicarsi alla musica. I primi dischi, le prime polemiche, i primi amori. Passo dopo passo Lucien diventa Serge e riesce nella sua impresa, creare il “Mito Gainsbourg”.

“Il senso per la parola di Serge Gainsbourg” - Marco Ongaro
Marco Ongaro

Serge Gainsbourg è stato un vero e proprio giocoliere della parola perché è riuscito ad usarla piegandola alle proprie esigenze, contorcendola e distorcendola, sfruttando le assonanze e mescolandola spesso con altre lingue sia per ragioni fonetiche sia, sua dote principale, per sfruttarne al meglio la potenzialità espressiva.

La competenza con cui Marco Ongaro lo racconta è esemplare. Si tratta di un’analisi precisa e minuziosa, che abbonda di esempi e di spiegazioni, tant’è che il risultato ottenuto permette anche al profano di comprendere al meglio quanto narrato.

“Il senso per la parola di Serge Gainsbourg” - je t'aime moi non plus - 45giri cover
Je t’aime moi non plus – 45giri cover

Sicuramente non si tratta di un testo “leggero”, una lettura da prendere sottogamba, quasi come un romanzo giallo di Michael Connelly o di John Grisham perché non si corre mai il rischio di annoiarsi.

#Notedicarta: “Memorie di un capellone” di Gianfranco Caliendo de “Il Giardino dei Semplici”

#Notedicarta: “Memorie di un capellone”
#Notedicarta: “Memorie di un capellone” – Il Giardino dei Semplici – copertina Miele

Quattro milioni di dischi e oltre duemila concerti in Italia e all’estero. Questi sono i numeri, passati alla storia, che raccontano “Il Giardino dei Semplici”, una band fondata a Napoli nel 1974.

“Memorie di un capellone”, edito da Iacobelli editore, è scritto da Gianfranco Caliendo, fiorentino di nascita, che de “Il Giardino dei Semplici” è il co-fondatore assieme a Gianni Averardi.

Caliendo è stato, fino al 2012, autore, voce solista e chitarrista di questa band che, con la successiva e fortunata produzione di Totò Savio e Giancarlo Bigazzi, artisti di indiscutibile levatura e membri dei celebri Squallor, conoscerà il successo arrivando nel tempo, anche oltre i confini nazionali.

#Notedicarta: “Memorie di un capellone” Gianfranco Caliendo oggi - Miele band
Gianfranco Caliendo oggi – Miele band

Una storia che, dagli anni ’70 sino ad oggi, con l’energia e la poetica che li ha sempre contraddistinti Gianfranco Caliendo ed Il Giardino dei semplici, ci hanno regalato, attraverso una magistrale commistione di tradizione melodica ed altre influenze musicali, emozionanti successi come: Miele, Tu ca nun chiagne, M’innamorai, Concerto in La Minore e tantissimi altri.

Il libro, con l’introduzione di Giorgio Verdelli, autore, regista e produttore di documentari e programmi musicali, considerato uno dei maggiori esperti di musica internazionale, è un lungo racconto in prima persona in cui il “capellone”, Gianfranco Caliendo, con garbo e passione, ricorda la sua “formazione sentimentale” che coincide con quella musicale ma, soprattutto, ripercorre un viaggio alla “ricerca del tempo perduto” in chiave partenopea.

Il libro riesce a essere una splendida fotografia dei gusti musicali che i giovani, al tempo, avevano. Evidentemente il mercato musicale era meno articolato e più semplice di quanto non lo sia oggi ma, proprio per questo, quei gusti erano più complessi e la ricerca del “nuovo”, anche in virtù dei significativi movimenti musicali che iniziavano a contaminare il “bel canto” italiano, era all’ordine del giorno.

Non esisteva, al tempo, quella che oggi è definita “musica liquida” con accesso immediato tramite player digitali spesso gratuiti. Oltre alla radio, che proprio in quegli anni si apriva al fenomeno delle cosiddette “radio libere”, per poter ascoltare i nuovi artisti che si affacciavano al mercato musicale era necessario acquistare il “supporto”, vinile per chi se lo poteva permettere o musicassetta dal costo più accessibile.

#Notedicarta: “Memorie di un capellone” Memorie di un capellone - book cover
#Notedicarta: Memorie di un capellone – book cover

In quel momento quanti possedevano “l’originale” spesso realizzavano vere e proprie compilation incise si musicassetta scegliendo, sulla base del proprio gusto, quanto di meglio e più nuovo si affacciasse al mercato e la sua “distribuzione” ad amici e conoscenti ha rappresentato una divulgazione musicale che, sino a quel momento, l’Italia non aveva conosciuto.

La storia narrata da Caliendo inizia a snodarsi dal giugno del 1974 quando dal “covo di sovversivi e anarchici che era l’istituto tecnico Augusto Righi di viale Kennedy” scocca la prima scintilla che coinvolge Caliendo, in quegli anni di protesta e ribellione ma anche di ricerca, tra i concerti dell’isola di Wight, Woodstock e il “Palermo Pop ‘70”, quando vi vestiva con pantaloni a zampa di elefante e si facevano crescere i capelli.

Negli anni ‘70 “capellone” era un termine usato per indicare, al di là della lunghezza dei capelli, un movimento giovanile spontaneo e non politicizzato, che inseguiva dei valori in netta contrapposizione al boom industriale degli anni ’60 portatore quindi di rispetto per l’ambiente, emancipazione culturale e artistica, ricerca musicale e, soprattutto, costante desiderio di libertà.

Un racconto che si snoda tra cantine, locali, studi e palcoscenici, in cui Caliendo arricchisce la sua conoscenza e ha il privilegio di vivere esperienze al fianco di tantissimi grandi artisti e personaggi, e come sempre, durante il viaggio, gli incontri sono più importanti della meta e a questo si deve la formazione e la cesellatura del carisma del “capellone” Caliendo, caratteristica che lo accompagnerà nelle sue esibizioni sia in gruppo che in solo.

#Notedicarta: “Memorie di un capellone” Giorgio Verdelli - (Foto © Stefano Colarieti)
Giorgio Verdelli – (Foto © Stefano Colarieti)

Seguendo il racconto è possibile conoscere non solo le gioie ma anche i dolori, quegli aspetti più controversi della sua formazione artistica, le pesanti ombre dell’industria discografica del tempo piena di contraddizioni e compromessi oltre ad alcuni drammatici episodi che emergono dall’enorme bagaglio di aneddoti, molti dei quali inediti, che queste in queste pagine diventano una vera e propria diretta e sincera confessione.
La varietà di sfumature dei vari tasselli che compongono questo mosaico narrativo impreziosisce il volume che, in chiusura, contiene la discografia completa del gruppo, quella di Caliendo, una videografia, molto scarna ma al tempo si previlegiava la musica alla videomusica, un importante “indice dei nomi” e una raccolta fotografica che è un vero e proprio album di famiglia.

 “Parola Di Faber” di Laura Monferdini storica direttrice del “Museo” di Via del Campo a Genova

#Notedicarta: “Parola Di Faber” di Laura Monferdini
“Parola Di Faber” – Fabrizio De Andrè

Mentre aprivo la busta in cui è arrivata la copia di questo libro mi sono ritrovato a pensare: “Ma c’era bisogno di un altro libro su Faber?”

Oltre 600 pagine, questo è il peso del lavoro di Laura Monferdini, storica direttrice del “Museo” di Via del Campo a Genova, edito da Arcana. E ho iniziato a leggerle cercando, innanzitutto di rispondere alla mia domanda.

È inevitabile che nulla possa eguagliare l’emozione derivante dall’aver partecipato a un concerto di De André, magari di averlo incontrato e di aver potuto parlare con lui e anche di averlo ascoltato parlare sul palco tra una canzone e l’altra ma il lavoro dell’autrice travalica tutto ciò.

È un lavoro, principalmente, sulla memoria di un grande autore al quale corrisponde un grande amore per Faber, per la sua musica e le sue parole.

E poco importa se le sue parole viaggiano senza la musica che le accompagnano mano nella mano perché De Andrè ha rappresentato, non solo nel panorama musicale del tempo che ha vissuto ma in generale, un unicum.

Certo che la bibliografia è vastissima, certamente superiore alla sua produzione musicale, ma già dall’inizio della lettura la risposta alla mia domanda cominciava a prendere forma.

#Notedicarta: “Parola Di Faber” di Laura Monferdini book cover
#Notedicarta: “Parola Di Faber” di Laura Monferdini book cover

Si tratta di un certosino lavoro d’inchiesta, lungo e faticoso. Le fonti sono oltre 150 registrazioni su supporti di ogni tipo, nastri, cd e mp3. Un paziente lavoro di sbobinatura durato oltre un anno anche a causa di supporti, talvolta, di scarsa qualità che restituivano le parole senza la necessaria intellegibilità.

Nasce così un volume corposo, pieno zeppo di notizie inedite. Da quei nastri inediti emerge, se ce ne fosse ancora bisogno, la grande coerenza di pensiero di un artista che ha avuto successo senza averlo mai veramente cercato, di un poeta coraggioso che aveva deciso di stare dalla parte degli ultimi e dei perdenti, un intellettuale che non ha mai avuto paura di assumere posizioni politiche scomode, di un musicista che ha cambiato il corso della canzone non solo italiana.

Nelle parole di Faber c’è il suo anarco-cristianesimo ma soprattutto c’è l’uomo che non si rifugia in una torre dorata, che non si crea una confort zone ma che sta in mezzo alla gente, non solo quella che assisteva ai suoi concerti.

È proprio attraverso le sue parole cangianti, soppesate, che scorre parallelamente la storia dell’Italia dal 1975, l’anno della sua prima tournée, sino alla fine del secolo. Quella stessa Italia magistralmente descritta nella sua “Domenica delle salme”.

#Notedicarta: “Parola Di Faber” di Laura Monferdini 2
Laura Monferdini

Furono anni di grandi cambiamenti sociali, anni che diventarono poi “di piombo”, anni in cui gli studenti consideravano “fratelli” gli operai metalmeccanici e non strizzavano l’occhio agli industriali, esasperando il concetto proprio di lotta di classe.

Nei tour di De André, proprio grazie alla forza delle sue parole, rileggiamo la storia non solo di quei tempi ma quella dei giovani, quei giovani degli anni Settanta puri e al tempo stesso strafottenti e cinici ma che avevano un grande sogno, quello di cambiare il mondo.

A tutto ciò, come se non bastasse, si aggiunge il racconto delle serate memorabili, magistralmente descritte da Laura Monferdini, e quello dei testimoni, quelli che hanno vissuto quei concerti unici.

Alfredo Franchini, amico di Fabrizio, ha scritto l’introduzione al libro che si apre con le parole di Gianfranco Reverberi, che ha scavato nella sua memoria per cercare egli stesso quel mondo poetico genovese degli anni Sessanta.

#Notedicarta: “Parola Di Faber” di Laura Monferdini 3
Fabrizio De Andrè

Degna conclusione i ricordi di Cristiano De André, che ha condiviso il palco e duettato con il padre. Il volume si chiude con alcune appendici che approfondiscono ulteriormente la materia come quali siano le canzoni cui De André cambiava il testo durante i concerti, un’analisi del dialetto genovese parlato da De André, un lessico di “deandreismi” e un’ampia selezione di articoli di giornali.

La risposta è, quindi, “sicuramente sì” quindi, parafrasando lo slogan di una vecchia pubblicità con Sofia Loren, “accattatevill”.

“Miss O’Dell” di Chris O’Dell:  libro intimo, appassionato e coinvolgente, ricco di storie fuori del comune

Chris O'Dell - Harrison - Jagger
Chris O’Dell – Harrison – Jagger

Il titolo completo dell’opera è Miss O’Dell – My hard days and long nights with the Beatles, the Rolling Stones, Bob Dylan, Eric Clapton and the women they loved” e, di per sé, è già tutto un programma ma, prima di parlare del libro è d’obbligo parlare della casa editrice.

Si tratta di “Caissa Italia”, un editore romagnolo che propone titoli interessanti mai tradotti in italiano al momento della prima pubblicazione. Lo ho già fatto, in passato, per “Bob Dylan – A freewheelin’ time” di Suze Rotolo, “Wonderful tonight” di Pattie Boyd Harrison, “I’m your man – The life of Leonard Cohen” di Sylvie Simmons e “Dave Grohl – Times like this” di Martin James.

Ci propone ora la autobiografia di Chris O’Dell, la prima road manager donna nel maschilista mondo del rock. Basterebbero solo gli aneddoti e le fotografie a farne un documento imperdibile per gli appassionati.

Tutto inizia quando riesce a farsi assumere alla Apple come segretaria e fac-totum. Aveva vent’anni quando si trasferì a Los Angeles in cerca di fortuna, e fu lì che, grazie un amico, conobbe Derek Taylor, uno dei capi della Apple che si trovava a Los Angeles per affari. “Ma perché non vieni a Londra? Lì c’è la vita, è lì che accadono le cose oggi, è lì che ci sono i Beatles, la Apple, Carnaby Street e tutto ciò che vuoi!”.

Chris decise di vendere la sua collezione di dischi per riuscire ad acquistare un volo, solo andata, per Londra. Partì con un trolley e circa cento dollari in tasca. Era il 1968 e la “Apple” era stata fondata da poco tempo con l’intento di promuovere nuovi talenti. Ci rimase sino a quando non arrivò Allen Klein, all’inizio della fine anche per i Beatles. Miss O’Dell partì per altri lidi in cerca di alternative ma, se hai lavorato per i Beatles, non è difficile trovare lavoro.

Inizio per lei una nuova avventura che la portò a lavorare con Crosby, Stills, Nash & Young, con i capricci dei primi tre contrapposti a Neil il solitario, e in seguito con Carlos Santana.

 

#Notedicarta: “Miss O'Dell” di Chris O'Dell - book cover
“Miss O’Dell” di Chris O’Dell – book cover

Nel 1973 divenne tour-manager dei Rolling Stones nel Tour mondiale e fu la compagnia ideale per Mick Jagger: “Sembrava che per contratto tutte dovevano andare a letto con Mick”, scrive candidamente.

Anche Keith Richards la adorava, ma per altri motivi, tanto che, riporta nel libro, le fece il più grande dei complimenti: “Sai Chris, tu ti droghi come un uomo!”. E finì sulla copertina di “Exile On Main Street”.

A fine tour partì con Bob Dylan, per il tour della “Rolling Thunder Revue”. Era il 1976, e anche l’enigmatico Zimmerman non poté fare a  meno di cadere tra le sue calde braccia. Le sue vicende proseguirono fino agli anni Ottanta, tra un tour e un altro e, soprattutto, fiumi di alcol e di droghe.

Nel suo “curriculum” ci sono anche i Queen, e ricorda di quando si rinchiuse nel ripostiglio delle scope con Freddie Mercury a sniffare coca e a sbellicarsi di risate.

Miss O’Dell ebbe relazioni “intime” con Ringo Starr, Mick Jagger, Bob Dylan, Eric Clapton e Leon Russell, tutte ben documentate nel libro.

Andrebbero citati altri aneddoti, come quando dovette procurare l’armonica a Bob Dylan per il suo concerto all’Isola di Wight, oppure quando si ritrovò in un piccolo aereo privato nel movimentato volo di ritorno per Londra con John Lennon e Yoko Ono, che affrontarono le turbolenze cantando “Hare Krishna” per oltre due ore.

George Harrison le dedicò la splendida "Miss O'Dell", lato B di "Give Me Love"
Chris O’Dell – George Harrison le dedicò la splendida “Miss O’Dell”, lato B di “Give Me Love”

Tour manager, groupie, hippy, avventuriera, musa ispiratrice, rapace consolatrice di rockstar, Miss O’Dell è tutto questo e lo scrive senza nessuna censura e timore di essere smentita.

Oggi Chris è sposata, ha un figlio ed è tornata a Tucson, dove dirige un centro per tossicodipendenti, lei che in materia di droghe e di dipendenze è un’esperta.

Il consiglio è di approfittare di questa traduzione in italiano di Elena Montemaggi e revisionata da Caterina Ciccotti, per (ri)scoprire che, come scrisse Paul McCartney in “Get Back”,JoJo left his home in Tucson Arizona for some California grass” JoJo non era un uomo ma si trattava di Chris O’Dell e che nel 1973 George Harrison le dedicò la splendida “Miss O’Dell“, lato B di “Give Me Love”, e Leon Russell scrisse per lei la sua canzone più famosa “Pisces Apple Lady” perché proprio Chris era del segno dei Pesci. Buona lettura.

Nicolò Piccinni “un altro modo” di guardare il mondo, provando a mettersi nei panni delle altre persone, allenando la propria sensibilità

 

Nicolò Piccinni “un altro modo” di guardare il mondo
Nicolò Piccinni In questo momento mi sto concentrando sull’album e spero di poterlo fare quanto prima dal vivo

 

Classe 1989, è un cantautore e un attore che ha da poco pubblicato il nuovo album intitolato “Autrement”, sette tracce che esplorano “un altro modo” di guardare il mondo, provando a mettersi nei panni delle altre persone, allenando la propria sensibilità i cui arrangiamenti sono curati da “Gli Internauti”, band di torinese composta da: Francesco Cornaglia, Michael Pusceddu, Gabriele Prandi, Angelo “Errico Canta Male” Mossi e Federico Bertaccini. La maggior parte degli strumenti, compresa la voce in alcuni brani, è registrata in presa diretta in un’unica sessione, per creare una genuinità dell’impasto sonoro d’ispirazione low-fi.

L’abbiamo raggiunto al telefono e gli abbiamo chiesto di raccontare sé e la sua musica.

Ti sei laureato in cinema ma la nostra chiacchierata ci porta a parlare musica e quindi vorrei sapere se nasce prima la passione per il cinema o per la musica?

«Sono cresciuto con stimoli artistici differenti. Quasi in contemporanea sia il cinema sia la musica hanno sempre fatto, sin da bambino, parte di me. L’approfondimento, poi, è arrivato nel tempo e oltre agli aspetti artistici si sono sviluppati gli aspetti sociali, il “ciò” che ci accade attorno».

 

Nicolò Piccinni: “Autrement”, l'album cover
Autrement – cover album

Qual è la musica che ti ha accompagnato nell’infanzia?

«Sono nato nel 1989, quasi contemporaneamente all’uscita di un album di Francesco De Gregori, “Miramare”. I miei genitori mi raccontano di come ballassi sulle note di uno dei brani di quell’album, “Bambini venite parvolus”.

Negli ascolti “familiari” oltre a De Gregori c’erano Guccini, Ivan Graziani, De Andrè e altri. Ma non solo perché c’erano anche i Led Zeppelin, i Queen, Peter Gabriel».

Regista, attore, cantautore e musicista. Cosa vuoi fare da grande?

(ride, ndr) Nella musica porto il teatro e nel teatro porto la musica. Forse il punto d’incontro di tutto questo è quello che voglio fare».

Nicolò Piccinni, musicista tuo omonimo, è stato uno degli ultimi grandi rappresentanti della scuola musicale napoletana e uno dei più importanti compositori del Classicismo. C’è un legame genealogico tra voi?

«Ritengo che sia casualità. La particolarità sta anche nel fatto mio nonno fosse originario della città di Bari, la stessa del maestro Piccinni. La discendenza diretta rimane quindi nel mito».

Hai trovato affinità con il maestro Piccinni tanto da utilizzare il suo Autrement come titolo del tuo album?

«Ho scoperto tardivamente questa leggenda popolare legata al maestro e al termine di derivazione barese. Dopo aver elaborato l’album e le sue canzoni mi sono reso conto che quella “storia” calzava a pennello con le tematiche dell’album. Quando hai binari troppo precisi, forse, ti senti costretto a tirare dritto e raggiungere il traguardo prefissato. Forse esistono modi diversi di fare le cose, lasciandosi portare da ciò che ti circonda in quel momento».

Nicolò Piccinni & Gli Internauti
Nicolò Piccinni & Gli Internauti

L’album è arrangiato da “Gli Internauti”. Come nasce il vostro incontro?

«In realtà, con alcuni di loro sono letteralmente cresciuto e c’è una storia di amicizia che nasce negli anni dell’adolescenza. È arrivato un momento, nel 2017, in cui ho cominciato a unire musicisti attorno ad un progetto, che è poi rimasto in sospeso a causa della pandemia che si chiama “Mare Amare” e proprio in questo ambito è nata la band. “Autremont” è stato, quindi, un altro modo di fare musica in una situazione non prevista. Tra l’altro questo album è la prima uscita ufficiale della band e, speriamo, che sia solo la prima di un lungo percorso».

Salvaguardia dell’ambiente e degli animali, amori tossici, violenze domestiche, solitudini, tossicodipendenze. Il tuo modo di mettere insieme le parole per “fare” musica è evidentemente legato al sociale.

«Senza dubbio. A parte il momento dell’infanzia o della prima adolescenza in cui si hanno meno sovrastrutture, l’impatto sonoro della musica è predominante. Poi arriva la consapevolezza che le parole di quel brano può contenere anche un messaggio sociale indipendentemente dal genere musicale cui appartiene il brano. Le storie hanno una potenza ancestrale di comunicare e quando una singola storia diventa universale allora si raggiunge un obiettivo incredibile. Questa consapevolezza è stata, probabilmente, una cosa che mi ha molto influenzato».

Continuo a suonare blues con Andrea Borasco e continuo con i miei spettacoli molto articolati e tematici: poesie e canzoni
Continuo a suonare blues con Andrea Borasco e continuo con i miei spettacoli molto articolati e tematici: poesie e canzoni

Progetti futuri. Live? Teatro? Cinema?

«In questo momento mi sto concentrando sull’album e spero di poterlo fare quanto prima dal vivo. Sto continuando a scrivere perché le canzoni “spuntano”. Non so ancora se sono io che le acchiappo mentre girano attorno a me o se escono da dentro. Altri progetti si muovono in maniera parallela, com’è sempre stato per me. Continuo a suonare blues con Andrea Borasco e continuo con i miei spettacoli molto articolati e tematici: poesie e canzoni. Insomma, il “cassetto” non è vuoto e, soprattutto, io continuo a tenerlo aperto».

 “Sweet Home Pistoia – 40 anni di Festival Blues” un libro di storia della musica, un libro da leggere ma, anche da guardare

#Notedicarta: “Sweet Home Pistoia"
“Sweet Home Pistoia” – Pistoia Blues Festival – B B King

Era il 1980 quando si tenne la prima edizione del “Pistoia Blues”. Da subito il festival si caratterizzò per il cast “stellare” tanto che, in quel 1980, salirono sul palco Roberto Ciotti Blues Band, Andy J. Forest Blues Band, Susanna DeVivo, Guido Toffoletti Blues Society, De Funkt, Queen Ida, Joe Williams And The Count Basie Alumni, Alexis Korner, B.B. King, Maurizio Angeletti, La Strana Officina, Andy Way Blues, Pino Daniele, Mighty Joe Young, Fats Domino, Muddy Waters e Dizzy Gillespie.

Si è trattato, da subito, di una manifestazione che ha avuto pochi eguali anche a livello internazionale. L’ultima edizione risale al periodo pre-pandemia, ossia al 2019 quando si celebrò la 40° edizione con ospiti quali Ana Popovic, Ben Harper, Black Stone Cherry, Eric Gales, Noel Gallagher, Robben Ford e Thirty Seconds to Mars.

Sia nel 2020 sia nel 2021, purtroppo, le “blue note” non hanno potuto riecheggiare a Pistoia e si attende l’annunciata edizione 2022 che, dovrebbe, “riaprire le danze”.

 

#Notedicarta: “Sweet Home Pistoia" (Foto © Gabriele Acerboni)
“Sweet Home Pistoia” – Pistoia Blues festival – edizione 2018 (Foto © Gabriele Acerboni)

Negli anni è diventato il festival blues e rock di riferimento in Italia anche grazie ad uno scenario tra i più suggestivi d’Italia.

Il titolo del libro parafrasa quello del celebre brano blues scritto da Robert Johnson e che è diventato una delle più diffuse canzoni blues su Chicago, grazie alle interpretazioni di Robert Johnson stesso, Magic Sam, Junior Parker e The Blues Brothers.

“Sweet Home Pistoia”, edito da Volo Libero è curato da Enzo Gentile, noto critico musicale, e autore di diversi libri riguardanti la musica, che, oltre a scrivere i testi, ha coordinato l’intera operazione editoriale.

#Notedicarta: “Sweet Home Pistoia" - Cover book
“Sweet Home Pistoia” – Cover book

Si tratta di un omaggio non solo alla musica blues ma anche al coraggio e alla determinazione di Giovanni Tafuro, storico patron della manifestazione che, in occasione dell’uscita del volume, ha dichiarato che contiene “Volti, suoni, incontri, storie di artisti, collaboratori, amici, amministratori e spettatori. Un’avventura che ha attraversato la mia vita… e che mi auguro possa continuare ancora a lungo”.

Il libro, voluto dall’Associazione “Blues In” e dall’amministrazione comunale di Pistoia, racconta le quaranta edizioni con schede anno per anno, a partire da quella del 1980, attraverso fotografie, storie, dati, articoli, dichiarazioni e testimonianze di artisti e giornalisti, raccolte appositamente per l’occasione.

#Notedicarta: “Sweet Home Pistoia" patron del festival Giovanni Tafuro
“Sweet Home Pistoia” – Pistoia Blues Festival Giovanni Tafuro – patron del festival

Un libro da leggere ma, anche da guardare, per scoprire i grandi interpreti internazionali che hanno calpestato il palco pistoiese.

Si tratta di un libro di storia della musica, raccontata da chi ne ha tessuto la trama, ne ha sviluppato la struttura e l’ha resa possibile, viva, longeva.

Un libro che, oltre a ripercorre cronologicamente la vita del festival ripercorre anche la storia della città che lo ospita da sempre, Pistoia.

Pistoia Blues Festival - Thirty Seconds To Mars
Pistoia Blues Festival – Thirty Seconds To Mars

Un libro da leggere tutto d’un fiato mentre dal vostro player, sia esso un impianto hi-fi oppure uno smartphone, suonano i grandi del blues italiano e internazionale, in una nottata immersa nei sogni di concerti ineguagliabili e che, speriamo, possano quanto prima ridiventare una sana abitudine.

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