Peppe Voltarelli: cantautore cosmopolita che canta in dialetto calabrese

“Sta città” è stata scritta a Roma ma riguarda tutte le città e nessuna in particolare

Dentro la Canzone: Peppe Voltarelli “Sta città”
Peppe Voltarelli “Sta città”

Essere cosmopoliti, innamorati del mondo e di paesi lontani e al tempo stesso sentirsi talmente legato alla propria terra da scegliere di omaggiarla cantando in dialetto.

Ciò che può sembrare strano o addirittura inconciliabile al contrario ha trovato totale appagamento nelle parole e nella musica del cantautore Peppe Voltarelli che, nonostante abbia viaggiato moltissimo (e ne avverta ancora la necessità) non si è mai staccato veramente dalla sua Cosenza.

Nel 1990 ha fondato a Bologna la band folk-rock “Il Parto delle nuvole Pesanti” con cui ha suonato fino al 2005, quando ha iniziato a dedicarsi alla carriera da solista, ma anche al teatro e al cinema divenendo protagonista del road movie “La vera leggenda di Tony Vila” girato in Argentina, una delle terre cui si sente più legato.

Arrivano poi le collaborazioni con artisti del calibro di Roy Paci e Sergio Cammariere e numerosi riconoscimenti, tra cui ben tre targhe Tenco (nel 2010, 2016 e 2021). Proprio lo scorso anno è uscito con un nuovo lavoro “Planetario” uno spettacolo di teatro-canzone scritto e interpretato dallo stesso Voltarelli che si esibisce con voce, fisarmonica, chitarra e pianoforte.

Tra i suoi pezzi più rappresentativi (anche della sua filosofia di vita) c’è “Sta città” un brano ipnotico composto mentre si trovava a Roma ma dedicato a tutte le città ma nessuna in particolare.

Dove vivi adesso?

Dal 2011 vivo a Firenze dove sono arrivato per registrare un disco con alcuni membri della Bandabardò, poi mi sono trovato bene e ho deciso di restare.

Come è stato passare a cantare da solista?

Sono stato quindici anni in una band punk-folk mentre da solo ho iniziato a fare cose più teatrali anche ispirato alle esperienze cinematografiche che parallelamente stavo vivendo, come il film “La vera leggenda di Tony Vilar”.

L’ultimo lavoro è uno spettacolo di teatro-canzone?

Sì, è un riassunto dei miei viaggi, con le città, gli incontri e le amicizie che di volta in volta ho stretto e che ho trasformato in canzoni, da qui il titolo “Planetario”. Negli ultimi quindici anni ho viaggiato molto e mi piaceva raccontare ciò che i miei occhi ed il mio cuore hanno visto attraverso la musica.

Musicalmente non hai abbandonato la matrice folk…

No, l’attitudine è sempre stata rock e legata alla sua storia come il punk ma passando anche dal blues mentre gli anni in cui ho vissuto a Bologna ho scoperto l’importanza del dialetto calabrese che porto sempre con me.

Come riuscire a coniugare il rock con la tradizione popolare?

Il rock è sempre stata una mia grande passione ed io, essendo cresciuto in un piccolo paese di provincia ho sempre percepito la distanza dai grandi centri, da qui la mia attrazione per i posti lontani e difficili da raggiungere.

Ma di tutti i luoghi visitati quale ti ha influenzato di più?

L’Argentina dove ho avuto la casa discografica e molti amici con cui mi sento ancora oggi e musicisti con i quali tuttora collaboro. Poi sono molto legato anche agli Stati Uniti e al Canada. Mi piace l’idea di mescolare culture e lingue diverse.

“Sta città” rientra in questo approccio filosofico?

Sì, proprio così. Il pezzo è nato in un periodo in cui vivevo tra l’Italia e la Germania e avvertivo la sensazione di scontrarmi con la città in cui mi trovavo, una relazione complicata. Avevo voglia di stare in mezzo alla gente ma al tempo stesso una parte di me si trovava a combattere questa cosa.

Un dualismo?

Esatto, dualismo che nel brano si traduce in una sorta di suono onomatopeico che si ripete sin dall’inizio.

Riflette anche il tuo rapporto di amore-odio con l’Italia?

Sì, per me è sempre stata la mia base operativa (che amo molto) ma anche un posto da cui, dopo un po’, prendere le distanze.

L’hai fatta ascoltare anche all’estero?

Il videoclip è stato girato a Berlino, la canzone tradotta anche in ceco, ed è stata prima in classifica. La cosa particolare è che il dialetto è molto acclamato all’estero e accolto con diffidenza nel nostro Paese.

Peppe Voltarelli “Sta città”
Peppe Voltarelli

A quale città ti riferisci nel brano?

A tutte ma nessuna in particolare.

Progetti?

Sto portando in giro “Planetario” e lavorando a due progetti: uno di canzoni in dialetto, l’altro di inediti in italiano e poi non vedo l’ora di riprendere a suonare anche all’estero. La prossima estate terrò concerti in Svizzera, Francia, Repubblica Ceca e Spagna.

Dentro la Canzone: Emmegi, “Dove esisti anche tu parte 2” un progetto partito nel 2019

Emmegi: “Dove esisti anche tu parte 2”
Emmegi: “Dove esisti anche tu parte 2”

Certe volte il destino ha in serbo per noi piani che si riesce a comprendere ed apprezzare appieno solamente guardandoli in prospettiva, proprio come succede con le opere d’arte la cui vera grandezza traspare se osservate da una certa distanza.

Michelle Guimaraes, in arte Emmegi (dalle sue iniziali) ha 25 anni, è nata in provincia di Como da genitori brasiliani e all’età di tre anni si divertiva a battere mestolini e stoviglie alla ricerca di un suono che le piacesse. Già allora alla ricerca di musica.

Quella musica che più avanti l’avrebbe presa per mano come si fa con una cara amica salvandola dai pregiudizi della gente e soprattutto aiutandola ad accettarsi, perché la vera sfida, alla fine, è l’accettazione di sé.

Inizia a scrivere per uscire dal guscio della sua timidezza e della sua adolescenza difficile ispirandosi al suo idolo J-Ax che non ha mai abbandonato ma al quale oggi accompagna una linea melodica percepibile nel brano “Dove esisti anche tu” (2019) e ancora più sensibilmente in “Dove esisti anche tu parte 2” (2021) in cui alla denuncia dell’omofobia si accosta una ritrovata speranza, la luce dell’amore che risplende su ogni cosa.

Quanto c’è in te delle tue origini brasiliane?

Molto poco in realtà. Penso sia semplicemente nel mio sangue, parlo la lingua ma in me non ci sono molte caratteristiche riconducibili a quella realtà.

Quando hai iniziato a scrivere?

Avevo circa dodici anni, professionalmente intorno ai diciannove.

Perché hai realizzato una parte seconda di “Dove esisti anche tu”?

Non era previsto inizialmente. La prima parte è stata molto più studiata, avevo chiaro nella mia testa di voler affrontare il tema dell’omofobia. La second parte invece, è nata molto casualmente.

In che senso?

Mi trovavo al pianoforte e stavo ascoltando una canzone di un artista spagnolo che parla di amore che mi ha fatto nascere dei pensieri sull’amore e LGBT. Ma trattandosi di un pezzo allegro ho deciso di conservare questo mood. Così dopo aver parlato della part più oscura dell’argomento nel 2019, in questo nuovo brano ho pensato di descrivere la parte più luminosa e bella.

Insomma, hai aperto una finestra?

Si, ho voluto dare una speranza anche perché se ci concentriamo sempre e solo sulla parte negativa rischiamo di dimenticare ciò che di bello c’è dietro ogni storia.

Quanto è cambiata Emmegi in questi due anni?

Inconsciamente quando ti affacci al mondo della musica in modo più professionale cambi a prescindere. La passione rimane come punto fermo ma inizi a fare le cose in maniera più ragionata; perciò, sotto l’aspetto psicologico sono cambiata moltissimo anche grazie alle opportunità che mi sono capitate.

Emmegi: “Dove esisti anche tu parte 2”
Emmegi: “Dove esisti anche tu parte 2”

E musicalmente?

Sotto questo aspetto non sono cambiata ma evoluta.

Cosa, già nel 2019, ti ha ispirata?

In parte le mie esperienze personali per quanto siano state diverse rispetto a quelle raccontate in “Dove esisti anche tu”. Personalmente non ho mai subito violenze fisiche però ho avuto problemi sul fronte psicologico perché mia madre faceva fatica ad accettare la mia omosessualità.

Siete riuscite a superarla?

Sì, è una cosa recente e probabilmente ha influenzato positivamente il mio nuovo pezzo.

Cosa si dovrebbe fare secondo te per superare l’omofobia?

L’omofobia come termine in sé non ha molto senso, perché tradotto significa paura dell’omosessuale. Io sono contro (più che all’omofobia in quanto tale) alle reazioni che genera.

È un problema di accettazione?

Si, noto che si fa difficoltà ad accettare anche la nuova generazione, cosa che dovrebbe risultare molto semplice. Il fatto che l’omosessuale possa esternare la propria natura spesso spaventa le altre persone che non hanno lo stesso coraggio di esprimersi o cacciar fuori la propria personalità, nascondendosi anche per questioni banali solo per timore di essere giudicati.

Cosa significa accettarsi?

Significa essere sulla buona strada per vivere appieno la vita.

Emmegi
Emmegi: “Dove esisti anche tu parte 2”

Tu ci sei riuscita?

Sì, anche se per mia natura tendo ad essere molto insicura, ma ci sto lavorando.

Sei polistrumentista?

Ho suonato pianoforte, chitarra e batteria ma mi sono innamorata del pianoforte e ho proseguito da autodidatta su questa strada.

Progetti?

La musica si rinnova ogni giorno e io devo capire esattamente quale sia la mia direzione musicale. Poi, ovviamente sto pensando ad un album selezionando i brani giusti per questo progetto. Ne ho molti pronti (sono miei testo e musica) realizzati in collaborazione con Nicky Noise che cura l’arrangiamento.

Cosa ti aspetti da questo anno?

Sul piano personale un po’ di meritata tranquillità, musicalmente di riuscire a completare Emmegi.

Guglielmo: “Leggero” per dare un calcio a paure e rimpianti a colpi di rock. Dal tema dell’overthinking nasce la sua esigenza di scrittura

 

Dentro la canzone: Guglielmo “Leggero”
Guglielmo “Leggero” (Foto © Matteo Cannazza)

Quante volte ci siamo chiesti se la musica sia ascrivibile a puro intrattenimento o meriti qualcosa di più? Solo una combinazione matematica di suoni e parole o felice alchimia in grado persino di lenire le ferite?

Senza dubbio, si tratta di un dolce sollevamento dell’anima che assicura ossigeno alle nostre arterie più segrete. Ma non è solo un fatto di cuore, la musica risveglia anche la mente regalandole di volta in volta sollievo o energia, a seconda della necessità.

Guglielmo Fineschi, in arte solo Guglielmo ha ventisei anni ed è un cantautore senese (tifoso della contrada del Leocorno) cresciuto a pane e rock che ha saputo trasferire la passione per questo genere nelle sue canzoni, alimentandola con una travolgente elettricità ritmica ma anche attraverso contenuti interessanti.

Per Guglielmo la musica è una sorta di terapia in grado d salvarci dai nostri stessi pensieri che talvolta, come lame affilate torturano e feriscono la mente. Nel suo ultimo singolo “Leggero” il giovane artista canta “Io mi staccherò la testa e la porterò su qualche vetta, con un destro la calcerò nel cielo, almeno il corpo mio vivrà leggero”. E ora alzi la mano chi negli ultimi due anni non ha maturato un pensiero simile.

Hai mostrato sin dall’inizio la tua impronta rock?

Si, il punk rock è il mio stile ed il mio mondo.

Hai mai partecipato a contest?

Nel 2018 ho vinto “Rock My Life” che mi ha dato la possibilità di aprire i concerti dei Rhumornero e dei Finley.

E talent?

Perché no, mi piacerebbe. Non mi precludo niente!

Quando hai iniziato a comporre?

Intorno ai diciotto anni e man mano sono diventato sempre più consapevole. Dopo di che, mi sono dovuto fermare per un lungo periodo. Ho ricominciato lo scorso anno ad uscire con i miei prodotti.

Perché?

Per difendere un amico ho subito un’aggressione che per alcuni mesi mi ha lasciato degli strascichi che poi, fortunatamente, sono riuscito a superare. Il punto è che questa vicenda mi ha privato di un anno di esibizioni e quando sono riuscito a ripartire nel 2019, dopo poco è arrivata la pandemia.

Come hai affrontato il lock-down?

Da un punto di vista mi è stato utile perché ne ho approfittato per scrivere. Ho talmente tanti pezzi pronti che potrei già incidere due album.

Chi ti ha accompagnato in “Leggero”?

Vincenzo Cristi (voce e chitarra dei Vanilla Sky) che ha curato la produzione e l’arrangiamento del pezzo.

Hai scritto tu “Leggero”?

Sia musica che testo.

Dentro la canzone: Guglielmo “Leggero”
Guglielmo “Leggero” Cover (Manuel Soldatelli)

È stata scritta prima o durante la pandemia?

La canzone è nata proprio durante la pandemia perché io, come probabilmente la maggior parte delle persone, ho avvertito questo senso di pesantezza ed il desiderio di prendere la mia testa a calci.

Perché secondo te?

Perché questo periodo ci ha costretti a restare da soli con noi stessi, ed in queste occasioni la mente inizia a viaggiare. Persino troppo.

E dove ti conduce?

In un luogo dove viene messa in standby la parte razionale della nostra mente lasciando spazio ad angosce, paure e rimpianti.

Ti è stato di aiuto scriverci un pezzo?

Assolutamente sì. Che si tratti di una poesia o di una canzone l’intento è sempre quello di sfogare le proprie energie o inquietudini. Io vedo la musica un po’ come fosse un sacco da boxe, e soprattutto è dotata di un potere catartico.

Quello dell’overthinking non è un tema nuovo per te, giusto?

È vero. L’avevo già affrontato in “A piedi scalzi” dove tratto proprio questo argomento e l’instabilità mentale che ne può conseguire.

Cosa è per te la musica (oltre ad un sacco da boxe)?

Una terapia. Ho iniziato a scrivere canzoni per me, per un’esigenza personale, più tardi è arrivata l’idea di pubblicarle.

Quindi si torna all’overthinking?

In effetti sì. La mia scrittura è nata proprio così, non è quindi un caso che io tratti spesso questo tema.

Canti solo in italiano?

No, anzi è molto più facile scrivere pezzi rock in inglese. Pensando all’album inizialmente ero convinto di inserire il 50% di pezzi in italiano ed il restante in inglese. Ora, confesso di essere più indeciso.

Dentro la canzone: Guglielmo “Leggero”
Guglielmo (Foto © Martina Rizzo)

Perché?

Perché al di là della musicalità della lingua inglese, ci tengo moltissimo a far conoscere e capire i miei testi, cosa che l’italiano può garantirmi più facilmente. Anche perché da sempre ascoltare canzoni in cui posso riflettermi riesce a farmi star meglio, così quando ho iniziato a scrivere ho sperato di poter suscitare lo stesso effetto sugli altri.

Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente ispirato?

La lista sarebbe piuttosto lunga ma sicuramente ne fanno parte Kurt Cobain, i Guns’N Roses, Machine Gun Kelly, Travis, Green Day, Linking Park (che però forse ho ascoltato persino troppo). Tra gli artisti italiani cito Vasco Rossi, Fabrizio Moro, Gazzelle e i Cara Calma.

Progetti futuri?

Sicuramente quello discografico e poi ho voglia di provare tutto, dai contest ai talent. Penso infatti che ogni esperienza rappresenti una possibilità di crescita ulteriore. Ma principalmente ho voglia di suonare live, è la cosa che manca di più in assoluto.

“senza_cri” scritto volutamente minuscolo per mantenere un profilo basso e stupire con la musica

Dentro la Canzone: senza_cri, "Bordi"
senza_cri “Quando canto non penso a niente, mi lascio andare e sto benissimo”

Dentro la Canzone: senza_cri, “Bordi”Il nuovo singolo è per una persona che le è sempre vicino partendo dai “Bordi”

Sottrarre anziché aggiungere, mantenendo un profilo basso, perché ad aggiungere ci pensano voce, arte e contenuti. La musica è un’alchimia di suoni e colori, una giostra di emozioni in grado di trasformare l’ambiente in cui si trova, e chiunque abbia a che fare con lei.

Senza_cri, al secolo Cristiana Carella, è una cantautrice brindisina di appena 21 anni, una rappresentante dei millennials che ha fatto propria la filosofia del “low profile” e che vanta un bagaglio di esperienza e maturità già ricco e pesante.

Cresciuta a pane e musica sin dalla tenera età, a quindici anni ha iniziato a scrivere canzoni di suo pugno. E poi sono arrivati i palcoscenici importanti. La scorsa estate si è esibita nel prestigioso contesto del Tenco Ascolta e persino al teatro Ariston di Sanremo per la serata finale del Premio Tenco 2021.

Vincitrice di Area Sanremo, l’abbiamo ritrovata il 15 dicembre cantare “A me” su RAI 1 nella serata Sanremo Giovani. Da poco è uscito il suo primo Ep, un “Salto nel vuoto” di nome e di fatto, perché traccia dopo traccia Cristiana, caleidoscopica e sensibile, ha voluto mostrare ogni parte di sé mettendo a nudo i propri pensieri intorno a temi come la vita, la morte, l’amore. In “Bordi” ha dato spazio a sonorità rock per ringraziare chi le è sempre vicino. A partire, appunto, dai bordi.

Il tuo è stato un super 2021, ne sei consapevole?

Sì e anzi devo dire che mai mi sarei immaginata di poter cantare sul palco del Tenco, poterlo fare e ricevere apprezzamenti dal pubblico è stata un’emozione incredibile, anche perché mi ha dato l’opportunità di ammirare da vicino grandi artisti ed un posto che è stato toccato nel tempo da mani sicuramente più grandi delle mie. Poi c’è stato Sanremo Giovani, altra grande emozione.

In “Bordi” hai tirato fuori un’anima rock, ma tu come sei realmente?

Non sono mai la stessa, semplicemente perché è così nella vita di tutti i giorni. Io cambio continuamente e con me la mia musica, e mi piace abituare le persone a comprenderlo perché anche chi mi ascolta, pur inconsciamente, non resta mai identico a sé stesso.

Cosa invece resta uguale?

I nostri valori, quelli rimangono lì ma tutto il resto è in continua evoluzione. Ecco perché anche nella musica non voglio fare mio un genere soltanto ma esplorare tutto.

C’è una traccia in particolare in cui ti senti totalmente te stessa?

Io sono in tutte le tracce, tuttavia per scrivere “Camaleonte” ho dovuto esaminare un mio problema poiché nella canzone affronto il tema della rabbia che sono consapevole di non riuscire a gestire benissimo.

E ti ha aiutata?

Moltissimo, così come “Edera” mi ha aiutata ad affrontare la morte al punto che questo brano è diventato una vera e propria terapia per me.

Temi importanti…

Ovviamente avrò modo di occuparmi anche di argomenti più leggeri ma per il mio debutto volevo dare qualcosa di impattante.

Di cosa parla “Bordi”?

Di una persona che amo molto e che mi aiuta sempre. A volte non ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo ad incontrare questo genere di persone. Nel mio caso si tratta di qualcuno cui ho voluto dedicare questa canzone non solo per dire grazie ma anche che starò al suo fianco finché vorrà e sarò la sua spinta tutte le volte che avrà voglia di volare.

Dentro la Canzone: senza_cri, "Bordi"
senza_cri, “Bordi” – I nostri valori, quelli rimangono lì ma tutto il resto è in continua evoluzione

Ma perché “bordi”?

È come quando stendi una maglietta, per appenderla al filo con le mollette non la prendi dal centro ma dai bordi.

Dunque, significa sostenere?

È un’immagine che ho realizzato per dare agli altri l’idea del sollevare e tirare su. Questa persona (come accadrà a molti altri) mi dà una mano partendo proprio dai bordi, ovvero dall’inizio del problema, e lo fa in modo involontario ma del tutto naturale perché sa come potermi aiutare.

Oltre a ringraziarla intendevi dire qualcosa?

Sì, che posso aiutarla anch’io ma deve lasciarsi andare perché può succedere che ci sia bisogno di qualcuno che ci ama. Poi l’uomo è un animale sociale ha sempre necessità di interagire con gli altri.

Tutto ciò è stato ostacolato dalla pandemia, come l’hai vissuta?

Un periodo terribile perché ci ha privato della possibilità di avvicinarci al prossimo. Speriamo passi al più presto, ne abbiamo tutti bisogno.

Anche per fare live?

Certo, ho una voglia matta di incontrare le persone, per me è una priorità.

Come nasce invece il video di “Bordi”?

Da me stessa. Funziona veramente così, mi vedi parlare fuori dal palco piccolina che mi guardo intorno, poi salgo là sopra e mi trasformo al punto che non mi sento tanto in me. Quando canto non penso a niente, mi lascio andare e sto benissimo. Così ho voluto riprodurre tutto questo esibendomi live in un teatro sul quale mi imbatto per caso.

Finché da ultimo non entra l’addetto delle pulizie…

Che mi riporta coi piedi per terra, smontando il sogno. Così torno me stessa e scappo via dal tetro.

Dentro la Canzone: senza_cri, "Bordi"
senza_cri, “Bordi”

L’impressione è che tu quando canti dai tutta te stessa, è così?

Sì, mi concentro sulla voce e sul pezzo. Pensa che una sera prima di salire sul palco, si avvicinò a me un’altra cantante (con cui sono tuttora in ottimi rapporti).

Indossava un vestito bellissimo e dopo averle fatto i complimenti mi chiese “E tu cosa ti metti?” ma io con i miei pantaloncini e una maglietta in realtà ero già pronta.

La verità è che serve tutto, compreso l’abito giusto, ma io ero talmente presa dall’esibizione che non avevo calcolato per niente l’outfit. Alla fine, però, il mio look mi ha portato ugualmente fortuna.

Perché hai scelto di chiamarti senza_cri?

Mi piace mantenere un basso profilo, così se colpisco riesco a farlo con effetti speciali! Tuttavia, più che sceglierlo, è stato il nome a scegliere me.

Al liceo non amavo molti i social perché preferivo vivere i miei amici nella realtà, così una mia compagna di scuola mi creò un account dandomi come password senza_cri, in modo da esserci senza esserci.

Alla fine, i miei amici hanno iniziato a chiamarmi così e ho deciso di tenermi questo nome perché lo sento veramente mio.

Progetti?

Pandemia permettendo dovrei partire da maggio coi live e non vedo l’ora!

Dentro la Canzone: Grazia Di Michele, “Le ragazze di Gauguin”: un evergreen che non passa mai

Grazia Di Michele “Le ragazze di Gauguin”
Grazia Di Michele Live teatro Golden

Coraggiosa, attenta ai temi dell’universo femminile e ora impegnata col progetto “Poesie di carta”.

Mettere al servizio la propria sensibilità e il proprio coraggio per scrivere, cantare e stimolare la riflessione intorno a temi importanti. Essere cantautori è un dono meraviglioso con cui ci si concede agli altri, ma essere cantautrici ha in sé qualcosa di rivoluzionario.

Oggi ormai siamo abituati a declinare questa definizione anche al femminile ma nel 1977 era talmente insolito che il termine non era stato neppure coniato.

In quell’anno veniva pubblicato “Clichè”, primo album di Grazia Di Michele che avrebbe precorso i tempi ponendo una donna a scrivere testi nei quali, peraltro, non si giocava a fare rime scontate ma al contrario si parlava di aborto, omosessualità femminile e di tutta una serie di temi che solo una donna poteva affrontare.

A questo primo lavoro sarebbero seguiti altri quattordici, varie raccolte e un bagaglio importante di esperienza televisiva e teatrale. A proposito di universo femminile, Grazia ha dedicato il celebre pezzo “Le donne di Gauguin” all’altra metà del cielo, ispirata dal modo in cui l’arte ha nel tempo immortalato la donna; attualmente si trova impegnata nel progetto “Poesie di carta” in cui la sua sensibilità ha incontrato quella dell’artista Marisa Sannia di cui è riuscita a recuperare brani e stralci di spettacolo che non aveva avuto il tempo di far conoscere al pubblico.

Un piccolo tesoro reso ancora più prezioso dall’invisibile ma palpabile amicizia che lega non semplicemente due donne, ma due cantautrici.

Stai già portando in giro lo spettacolo?

Dopo il debutto a San Teodoro, pochi giorni fa abbiamo fatto tappa a Roma mentre il 30 partirò per il tour in Sardegna.

Come è stata l’accoglienza?

Meravigliosa in Sardegna, dove tutti conoscono Marisa e anzi è forte l’orgoglio di aver dato in natali a questa creatura meravigliosa, ma devo dire che anche a Roma è stato bellissimo.

Grazia Di Michele “Le ragazze di Gauguin”
Grazia Di Michele Sono in tour da due anni con Mariella Nava e Rossana Casale con le quali sto ultimando un album che uscirà in tarda primavera

Quindi un amore che va oltre i confini geografici?

Sì, Marisa ha superato la territorialità perché il progetto si basa sul lavoro che aveva fatto su Garcia Lorca, infatti ci sono molti brani in spagnolo, altri in sardo e altri ancora in italiano.

Come hai scoperto Marisa Sannia?

La conoscevo per la sua eleganza ed il suo talento ma quando ho ascoltato “Rosa de papel”, suo disco postumo, me ne sono innamorata. Subito mi sono chiesta cosa potessi fare per farlo conoscere a tutti.

E che riposta ti sei data?

Che dovevo ricostruire il suo mondo. Per prima cosa contattai il marito che mi ha concesso l’esclusiva del copione dello spettacolo su Garcia Lorca al quale Marisa aveva dedicato gli ultimi tre anni della sua vita senza riuscire a portarlo in scena. A quel punto ho chiamato il suo produttore-arrangiatore che ha recuperato i suoi musicisti storici e, trovandoci in pieno lock-down, abbiamo registrato a distanza.

E una volta insieme sul palco come è andata?

È stata perfetta alchimia, questa è una storia di destini incrociati.

Oltre alla musica cosa ti lega a Marisa Sannia?

Molto anche sul piano caratteriale, abbiamo toni pacati ma parole forti, un modo di stare al mondo schivo evitando gossip e chiacchiere inutili. Amiamo entrambe la poesia e anche lei, come me, era una cantautrice che componeva con la chitarra.

Parliamo delle donne, quanta strada c’è ancora da fare per la parità di genere?

Molta, basti pensare alla tragedia dei femminicidi, dove vediamo solo la punta di un iceberg. Purtroppo, spesso la parità è soltanto formale, c’è tanto da fare e senza perdere ulteriore tempo dovremmo partire dai genitori e dalla scuola, che ancora adotta testi ricchi di stereotipi da abbattere.

Cosa dovremmo fare?

Educare i ragazzi alla bellezza, all’arte e alla cultura.

Grazia Di Michele “Le ragazze di Gauguin”
Grazia Di Michele – Quando ho iniziato il mio percorso non esisteva neppure la parola cantautrice

A proposito di donne, nel 1986 pubblichi “Le ragazze di Gauguin”…

È stato il mio modo di raccontare le donne patendo da donne, il brano fu i scritto con mia sorella Joanna, con cui ho lavorato anche all’ultimo album “Sante Bambole Puttane, e con il musicista Riccardo Giagni..

Qual è il significato del brano?

Era un modo di raccontare come gli uomini vedono le donne nell’arte, citando grandi pittori ed il modo in cui hanno ritratto la figura femminile nelle loro opere. Oltretutto fu un pezzo “rivoluzionario” perché in quel periodo andava tutto un altro tipo di sonorità.

Ti aspettavi questo successo?

No, dico la verità. Per quanto cose bellissime siano capitate anche dopo, ad esempio col pezzo “Madre terra”. Un brano nato come una mia esigenza di scrittura e che ora viene utilizzato addirittura nelle scuole per fare lezione ai bambini sulla situazione ambientale. A volte, come accaduto con queste due canzoni, in modo del tutto spontaneo e affatto calcolato succedono cose meravigliose.

Grazia Di Michele “Le ragazze di Gauguin”
Le ragazze di Gauguin È stato il mio modo di raccontare le donne patendo da donne, il brano fu i scritto con mia sorella Joanna

Progetti?

Oltre a quello di Marisa Sannia, sono in tour da due anni con Mariella Nava e Rossana Casale con le quali sto ultimando un album che uscirà in tarda primavera, faccio parte del trio terra con un pianista ed una cantautrice con i quali propongo il concerto “Terra”, ovvero il viaggio musicale di Cristoforo Colombo dalla Spagna all’Amazzonia. Inoltre, porto avanti le mie masterclass sulla creazione dello stereotipo femminile attraverso le canzoni. Del resto, ne so qualcosa, quando ho iniziato il mio percorso non esisteva neppure la parola cantautrice.

Dentro la Canzone: Lorenzo Palmeri, “Nuvola” è il nuovo singolo dell’architetto- musicista. “Per me sono temi fondamentali cercare sé stessi e non danneggiare gli altri”

Lorenzo Palmeri: "Nuvola" - cover
Lorenzo Palmeri: “Nuvola” – cover

Da una parte il rigore delle linee, la proporzione degli spazi, la disciplina dell’architettura; dall’altra la musica con le sue regole matematiche sì, ma anche col suo flusso di emozioni capace di sollevarti da terra e trascinarti via come un fiume in piena.

Due mondi apparentemente lontani, sfere che sembrano destinate a non doversi toccare e dal cui incontro nascono invece universi bellissimi che vale la pena scoprire.

Lorenzo Palmeri, architetto e musicista milanese ha da poco pubblicato il quarto album “4 (crediti cosmici dance floor)” dove, a proposito di incontri, il ritmo della musica elettronica che conferisce al lavoro un’anima dance, si fonde perfettamente con la voce ed i contenuti cantautorali dell’artista.

Nell’album Palmeri parla della vita di tutti i giorni con profonda onestà e sguardo disincantato, e nel singolo “Nuvola” al di là della ricercatezza sperimentale del suono vi è la semplicità, almeno apparente, delle immagini del video.

L’auspicio cantato nel pezzo è che ciascuno possa trovare sé stesso, lottando, magari sbagliando, ma facendo tutto il possibile per riuscirci.

Nasce prima la passione per l’architettura o per la musica?

Ci ho pensato molte volte e sono giunto alla conclusione che per natura non può che nascere prima la passione per la musica. Intorno ai cinque anni ho incontrato una tastierina dimenticata in casa dai miei e così ho avviato un procedimento di consapevolezza in cui ho realizzato di amare la musica.

Quindi è arrivata prima la musica?

Sì, perché è legata ad una forma istintiva mentre l’architettura è un innamoramento culturale, più di tipo mentale. In effetti è molto difficile che quest’ultima ti commuova, è interessante, molto più influente sulle nostre vite di quanto si pensi, ma è comunque una costruzione che arriva dopo.

La musica invece ti travolge, e allora come far convivere queste due anime?

L’architettura è una disciplina e lo è anche la musica, ma la cosa che mi accende davvero è l’attitudine progettuale. Ho realizzato nel tempo che se devo trovare una definizione per descrivermi non è architetto, bensì progettista. Questa è la mia confort zone.

Alla fine, che cosa fa la differenza?
Non quello tecnicamente più bravo, ma colui che riesce a mettere l’anima in ciò che fa. Ecco, questa è per me l’attitudine progettuale che io continuo a coltivare perché mi interessa molto di più di tutte le altre cose.

È preferibile sbagliare secondo te purché lo si faccia col cuore?

Pensa che io sono diventato un cultore dell’errore, pur essendo un perfezionista (o forse proprio in virtù di questo) vado a caccia dell’errore, lo cerco, e da lì riparto. Oltretutto accontentarsi di ciò che si è raggiunto sarebbe tremendamente noioso.

In “Nuvola”, come nelle altre tracce, utilizzi moltissimo l’elettronica…

Sì, e poiché mi piace l’idea di avere dei suoni soltanto miei, molti sono frutto di un’elaborazione della mia voce.

Lorenzo Palmeri: "Nuvola" (Foto © Franco Caimi)
Lorenzo Palmeri (Foto © Franco Caimi)

Come ci riesci?

Prendo la mia voce e la lavoro, distorcendola, finché non diventa qualcos’altro. Alcuni suoni sembrano degli strumenti (un organo piuttosto che una chitarra) in realtà si tratta solo della mia voce campionata. Alla fine, è un gioco ma mi piace l’idea di attribuire un colore a ciò che faccio così che non possa essere riprodotto in modo identico da nessun altro.

Possiamo parlare di “concept album”?

In realtà c’è un doppio filo. Da una parte tratto la musica alla stregua di un nutrimento; perciò, ognuno di quei brani soddisfa una mia necessità vitaminica, lipidica, proteica come fosse un cibo e riascoltandoli cerco di trarne energia.

In secondo luogo, questo album racconta un momento complesso e l’uscita da questo momento, l’ordine delle canzoni è un messaggio, tanto è vero che c’è un brano preciso che rappresenta il passaggio da una zona all’altra. Credo che ascoltando il disco dall’inizio lo si possa percepire.

“Nuvola” di cosa tratta?

Della speranza che ogni persona riesca a riconoscersi e cercare sé stesso.

Perché cercare sé stessi?

Perché per me è una cosa prioritaria proprio come non arrecare danno al prossimo. Tutto il resto è periferia di questi due concetti.

Ma come ci si riesce, specie di questi tempi?

C’è sicuramente un’uniformità molto accentuata, poi dipende da come si sente una persona all’interno degli stereotipi, nell’attimo in cui inizia a starci male allora deve cercare di uscirne, al contrario se non si accorge che la stanno schiacciando rimane ferma dove si trova.

Ti è capitato di cercare te stesso?

È tutta la vita che lo faccio, per me la ricerca di sé è uno dei temi fondanti da sempre. Forse è una delle cose su cui ho lavorato di più.

Lorenzo Palmeri: "Nuvola" (Foto © Elisabetta Bello)
Lorenzo Palmeri (Foto © Elisabetta Bello)

E alla fine ti sei trovato?

È praticamente impossibile. Si tratta di qualcosa in costante movimento, si cambia cercando di diventare più intelligenti, ma non è detto che ci si riesca.

Perché il titolo “Nuvola”?

Perché nasce da un’immagine. A me la musica fa vedere forme e colori e quella canzone mi restituisce l’immagine di una nuvola.

Progetti?

Sono impegnato nella promozione dell’album, sto pianificando alcuni concerti, usciranno altri video e attualmente sto registrando un disco di musica sperimentale con un gruppo internazionale, poi più avanti arriverà un altro album. È già tutto sul tavolo, per fortuna non conosco la noia.

Dentro la Canzone: Phebo, “Sogna anche tu”. Phebo insieme a Davide De Marinis canta un inno alla speranza che ha coinvolto ragazzi affetti da sindrome di down.

Phebo: "Sogna anche tu", inno alla speranza
Phebo: “Sogna anche tu”, inno alla speranza (Foto © Barbara Gallozzi)

“Mai smettere di sognare, io continuo a farlo anche a 43 anni”.

 “Chi rinuncia ai propri sogni è destinato a morire” ha detto una volta Jim Morrison.

Ed in effetti sognare, a qualsiasi età, rappresenta il motore in grado di innescare quella scintilla che non solo ci mantiene vivi, ma anzi alimenta l’energia e il desiderio di fare nuove scoperte.

Finché si è bambini sognare è un processo naturale e spontaneo, crescendo invece i molti condizionamenti della società e della vita tendono sempre più a rilegare questa attività in un angolo, sottraendole uno spazio cui invece non dovremmo mai rinunciare.

Il cantautore pescarese Tiziano Finarelli, in arte Phebo, che nella sua carriera ha dimostrato di sapersi districare sia come animatore di villaggi turistici che come cantante di pezzi dal contenuto sociale, ha scritto una canzone pensandola come un inno autobiografico all’ottimismo.

Finché qualcosa non lo ha portato a muovere lo sguardo in direzione di un orizzonte più ampio, coinvolgendo la Fondazione Italiana Verso il Futuro che si occupa di proiettare ragazzi down o affetti da disabilità cognitiva verso una propria indipendenza ed autorealizzazione.

I sogni ci raccontano chi siamo e chi possiamo diventare, per questo non coltivarli significa rinunciare un po’ anche a noi stessi. Questo il senso di “Sogna anche tu”, brano dal ritmo pop il cui DNA è fatto di dolcezza e speranza.

Come riesci a far convivere l’anima da animatore/imitatore con quella cantautorale?

In realtà si tratta di due percorsi separati che da un certo momento in poi ho cercato di racchiudere in un unico spettacolo. Mi riferisco allo show dei personaggi in cui ho portato in giro per l’Italia un riassunto della musica italiana interpretato con trucco e parrucco. Così ho provato ad inserire anche alcuni miei inediti, che devo dire hanno riscosso un certo successo.

Qual è la genesi di “Sogna anche tu”?

Inizialmente la canzone è nata come riflessione sul mio vissuto, quando sin da piccolo mio nonno mi spronava ad inseguire i miei sogni. Il titolo originale era infatti “Sogno”, proprio perché riguardava me.

E poi cosa è successo?

Quando ormai il pezzo era concluso e stava per uscire sono stato contattato sui social da un ragazzo affetto dalla sindrome di down che mi ha scritto di coltivare il sogno di cantare. Così ne ho parlato con Davide De Marinis ed insieme abbiamo pensato di coinvolgere un’amica comune che fa parte della Fondazione Italiana Verso il Futuro.

Di cosa si occupa la Fondazione?

Di rendere questi ragazzi più autonomi possibile, migliorandone la qualità della vita.

Da qui siete partiti insieme per la realizzazione del brano?

Sì, abbiamo deciso di ampliare la prospettiva facendola diventare una canzone di speranza, Davide ha effettuato alcune modifiche al mio testo per meglio adattarlo al nostro progetto, così è nata “Sogna anche tu”.

Sogna anche tu che, se non erro, è diventato anche un hastag…

Esatto, molti personaggi famosi di musica, cinema e spettacolo hanno partecipato inviando un video in cui dicono “Sogna anche tu”, una condivisine che mi ha fatto molto piacere.

Chi sono i protagonisti del video?

Ragazzi affetti da sindrome di down che hanno realizzato i propri sogni. Ad esempio, la coppia che vediamo all’inizio e che sognava le nozze, alla fine si è realmente sposata. Nella seconda parte c’è una ragazza che dipinge, ebbene, oggi i suoi quadri si trovano esposti in una galleria d’arte.

Come è stato realizzare il video?

Trascorrere una giornata insieme a questi ragazzi ti fa sentire povero dentro, talmente grande è la ricchezza che sanno trasmettere. Ti rendi conto di quanto noi diamo importanza a cose materiali dando per scontato tutto, quando in realtà non è così. Ho capito tante cose stando con loro.

Phebo: "Sogna anche tu", inno alla speranza
Phebo: “Sogna anche tu”, inno alla speranza (Foto © Barbara Gallozzi)

In cosa ti ha segnato questa esperienza?

Mi ha fatto sentire una persona migliore, ora riesco ad apprezzare moltissime cose grazie alla loro semplicità e purezza.

Ma tu sei un sognatore?

Io all’età di 43 anni continuo a credere nei sogni. È chiaro che crescendo vengono ridimensionati, ma ho sempre pensato che solo pensare di poter raggiungere il proprio sogno è già qualcosa che ti dà la forza di andare avanti. Non tutti riescono a realizzare i propri desideri, però capita che lungo il cammino si apra la possibilità di accedere ad altri progetti ugualmente importanti.

Quindi vale sempre la pena?

Sì, io ad esempio oltre ad essere un sognatore sono anche riconoscente per quello che ho ottenuto. Da ragazzo ascoltavo i brani di Davide De Marinis e mai avrei pensato di poter duettare con lui. È stato tutto spontaneo e naturale, un sogno che si è realizzato.

Phebo: "Sogna anche tu", inno alla speranza cover
Phebo: “Sogna anche tu”, inno alla speranza – cover

In questo c’è anche molta concretezza?

Con Davide mi sono trovato benissimo, lui è una persona molto semplice oltre ad essere un bravo artista. Ovviamente questa collaborazione ha aperto un circuito che mi ha permesso di pianificare in parte il futuro, compreso Sanremo. Per quest’anno non è andata ma il prossimo anno ci riproverò, non so dirti se da solo o con Davide, ma sicuramente presenterò un altro pezzo.

Sognare in questo contesto storico è possibile?

A maggior ragione in questa realtà i sogni devono essere amplificati, ad oggi sogniamo tutti di tornare alla normalità. Tante cose o situazioni prima considerate ordinarie o addirittura irrilevanti, oggi sogniamo di poterle vivere nuovamente.

Phebo: "Sogna anche tu", inno alla speranza 3
Phebo e Caterina la disegnatrice della cover

Progetti futuri?

Quando finalmente sarà possibile, riprenderò lo show dei personaggi perché c’è molta richiesta. Il progetto è quello di presentare uno spettacolo che va da Tiziano tour a Phebo in cui mi racconterò, inserendo tra le imitazioni dei cantanti anche i miei brani, cercando cioè di far incontrare le mie due anime artistiche e chiudere il cerchio.

Asja Cresci: fuori “Singhiozzo”, la paura di essere inadeguati di fronte all’amore. “Tiriamo fuori la Bridget Jones che in noi e non prendiamoci troppo sul serio”

Dentro la Canzone: Asja Cresci "Singhiozzo"
Dentro la Canzone: Asja Cresci “Singhiozzo”

Non è insolita l’equazione cibo, amore e musica ma Asja Cresci, ventiduenne cantautrice toscana nata a Piombino, nel suo singolo di debutto “Singhiozzo” non si limita a stabilire questa relazione, piuttosto denuncia con consapevole rassegnazione il proprio senso di inadeguatezza nel trovarsi di fronte ad un sentimento tanto bello quanto grande da farci sentire vulnerabili.

Ed in effetti è proprio così, l’amore ci libera e ci condiziona al tempo stesso, vorremmo mostrarci al meglio agli occhi della persona amata cercando quella perfezione che alla fine, anche qualora esistesse, con ogni probabilità risulterebbe noiosa e affatto stimolante.

La giovane artista l’ha capito al punto di non cercarla affatto, e dopo aver combattuto un po’ con sé stessa cede all’ironia e alla spontaneità. Con questo brano Asja canta il suo grido di ribellione rispetto a convenzioni amorose e cliché che a lei vanno stretti.

Quando hai iniziato a cantare?

Sin dalla tenera età poi nel 2018 ho partecipato a The Voice of Italy nel team di Cristina Scabbia.

Attualmente cosa fai?

Studio a Roma presso la Saint Louis Collage of Music dove ho scelto di specializzarmi in scrittura creativa.

Dentro la Canzone: Asja Cresci "Singhiozzo"n cover
Dentro la Canzone: Asja Cresci “Singhiozzo” – cover

“Singhiozzo” è il tuo primo inedito?

Sì, è nato da una mia idea ed è uscito per la Maionese Project di Davide Maggioni che cura la distribuzione di Artist First, è stato registrato alla Poli Recording Studios di Andrea Saponara a Roma, ed è prodotto da Lorenzo Nanni. Lavoravo a questo pezzo già da un po’, ma tra la pandemia e la necessità di trovare un’etichetta interessata è trascorso del tempo. Poi finalmente ce l’ho fatta e il 3 dicembre è uscito “Singhiozzo”.

Di cosa parla?

Della mia paura di essere inadeguata trovandomi di fronte all’amore.

E come si supera questa paura?

Con la spontaneità, il pezzo vuole essere un grido di ribellione di fronte al perfetto manuale d’amore. Il mio invito è di lasciar emergere la Bridget Jones che dimora in ognuno di noi, insomma prendersi un po’ in giro e non troppo sul serio, puntando piuttosto sull’autoironia che io stessa tendo ad utilizzare moltissimo.

A chi è dedicato il brano?

A tutti coloro che si sentono poco snodati nella ginnastica dell’amore.

Tu invece come te la cavi con questo tipo di ginnastica?

La verità è che (forse a causa del mio segno zodiacale in bilancia) da un lato credo nel colpo di fulmine e nell’amore romantico così come tradizionalmente siamo portati a dipingerlo; dall’altro la parte più cinica di me tende a rimproverarmi il fatto di essere un po’ Bridget Jones e quindi la mia goffaggine. Alla fine però l’accetto e anzi, pur riconoscendone il limite, la conservo volentieri.

Perché Singhiozzo?

Perché ritengo sia un atto estremamente naturale e spontaneo e non controllabile, perciò ho trovato fosse una perfetta metafora del mio modo di concepire l’amore.

Sei contenta di come è stato accolto il brano?

Sì, non mi ero creata molte aspettative ed invece devo dire che ho raggiunto numeri davvero soddisfacenti e allacciato importanti contatti.

Dentro la Canzone: Asja Cresci "Singhiozzo"
Dentro la Canzone: Asja Cresci “Singhiozzo”

A pochi giorni da Natale è uscito anche il video…

È stato girato in un ristorante giapponese di Bologna. Ho voluto fare una cosa abbastanza minimal (a discapito di come sono io nella realtà).

Il dualismo comportamentale di cui parli lo hai tradotto anche in immagini?

Esatto, ho riprodotto lo split mentale, partendo da una situazione di calma apparente per arrivare ad un momento di poca lucidità. Nella prima parte ci sono io all’interno del ristorante e tutto sembra essere sotto controllo, nella seconda strappo fiori in maniera animalesca e viene meno la lucidità. Così ho rappresentato sia la parte romantica, sia quella carnefice che albergano in me.

E invece chi è Cupido?

Alla fine sono io. Siamo noi stessi a decidere per noi, e talvolta facciamo scelte particolari cercando di incolpare chissà quale entità quando la responsabilità è unicamente nostra. Ma va bene così, salvaguardiamo la nostra goffaggine e prendiamoci un po’ meno sul serio. In fondo, potrebbe essere anche un buon proposito per iniziare il 2022.

Marquica: nel suo ultimo singolo canta la piaga de “La sposa bambina”

Dentro la Canzone: Marquica "La sposa bambina"
Dentro la Canzone: Marquica “La sposa bambina” (Foto © Alisson Marks)

Parte dei proventi del brano andranno ad EMERGENCY

Ci sono storie che sembrano uscire direttamente da un libro o dalla fantasia di un talentuoso regista, invece appartengono alla realtà al punto di trovarle scritte tra la cronaca dei quotidiani.

I confini del mondo appaiono sempre più sfumati da globalizzazione e multietnicità che portano con sé ciò che di buono e di negativo accade negli altri paesi, dove talvolta persino l’infanzia viene spogliata della sua naturale innocenza.

Nicoletta Marchica, in arte Marquica, cantautrice (anzi incantautrice come si definisce lei) è partita proprio da qui, da una storia che ormai nel 2022 non è accettabile venga considerata di ordinaria amministrazione e che si è consumata nella Milano da bere, capitale della moda e paradossalmente anche dei giocattoli, dato che vi hanno sede alcune dei maggiori negozi del settore.

Già, paradossalmente, perché il suo brano “La sposa bambina” racconta di Sheila, una bimba di dieci anni che suo padre voleva dare in sposa ad un uomo molto più grande di lei. È stata la madre, denunciando il marito, a salvare la sua bambina ed insieme un’infanzia che rischiava di andare definitivamente perduta.

Da quando la musica fa parte della tua vita?

Da quando avevo quattro anni, sono nata in Valtellina e mia sorella era solita creare ogni anno un evento che avesse a che fare con la musica.

Il tuo primo approccio con la scrittura?

A otto anni ho scritto la sigla per uno di questi spettacoli ed ero talmente piccola che tutti si prestavano volentieri ai miei esperimenti, poi da adolescente ho deciso di trasferirmi a Milano dove mi sono diplomata all’Accademia musicale Misic, Arts and Show e appena terminati gli studi ho partecipato al Motor Show, Tim Tour, Coca Cola Tour e molti altri importanti eventi musicali.

E poi?

Subito dopo ho iniziato a lavorare con i Dirotta su Cuba dal 2004 al 2008 dopo di che ho sempre lavorato come solista.

Il tuo ultimo singolo è tratto da una storia vera?

“La sposa bambina” è una canzone scritta da me, prodotta e arrangiata da Giovanni Ghioldi (basso e chitarra) ed eseguita insieme a Elia Micheletto (batteria) e Gianluca Guidetti (mix & master) ed è tratta da una storia realmente accaduta.

Come ne sei venuta a conoscenza?

Leggendo il quotidiano. Era il 2018, una mattina dopo aver portato mio figlio a scuola mi sono fermata a prendere un caffè al bar e sfogliando il giornale la mia attenzione fu attratta da un articolo in cui si raccontava la storia di Sheila che viveva, e tuttora risiede, a Milano.

Cosa ti colpì maggiormente?

Aver realizzato che per quanto possiamo pensare certe cose accadano solo molto lontano da noi, in realtà non è così. Questa storia era successa a Milano. Alla fine, le spose bambine sono esistite in Italia fino agli anni’80, in Sicilia è stato legale fino al 1985.

E subito dopo hai scritto il brano?

Ho pianto moltissimo dopo aver letto l’articolo così un amico che si trovava con me mi disse “Vai a casa a scrivere un pezzo” e in effetti scrissi subito tutta la canzone, di getto, testo e musica. A volte sono i contenuti a venirti a cercare, e questo è stato uno di quei casi.

C’è un lieto fine?

Per fortuna sì, come racconto anche nella canzone il padre aveva portato qui la famiglia dal Bangladesh stando ben attento di tenere tutti nascosti, al punto che Sheila non ha frequentato la scuola e non è mai uscita di casa, semplicemente perché destinata ad un uomo che avrebbe dovuto sposare.

Dentro la Canzone: Marquica “La sposa bambina”

Chi ha impedito la realizzazione di questo progetto?

La madre di Sheila. Quando ha appreso dal marito che intendeva dare in sposa la loro figlia ad un cugino quarantenne del Bangladesh, la donna è come impazzita decidendo di ribellarsi a questa ingiustizia. Così ha denunciato l’uomo, facendolo arrestare.

Un vero atto di amore materno…

Sì, anche perché ha corso un grosso rischio nel compiere questo gesto, un sacrificio estremo per amore della sua creatura.

L’uomo è stato quindi assicurato alla giustizia?

Pensa che nello stesso momento in cui ho finito di scrivere il pezzo, un mio amico mi ha chiamata per farmi sapere che il padre di Sheila era stato definitivamente arrestato. Quasi un segnale del destino.

Hai scelto di dare priorità alle parole?

In questo caso è vero, ma non è sempre così perché essendo molto legata anche alla musica pop, soul, funky in molti miei singoli la musica ha un ruolo determinante. Qui però, la melodia e il testo sono la cosa più importante, persino la batteria è stata suonata in modo delicatissimo.

Dentro la Canzone: Marquica "La sposa bambina"
Dentro la Canzone: Marquica “La sposa bambina” (Foto © Alisson Marks)

Per questo hai scelto di realizzare un video lyrics?

Dopo il lavoro super impegnativo di “40” ho deciso di fare una cosa più tranquilla anche perché onestamente non mi andava di coinvolgere delle bambine.

Così ho deciso di porre al centro solo le parole, accarezzate da una musica dolce e sottolineate da un bellissimo disegno di Lucia Pistritto. Quello che importa è il messaggio non l’immagine essendo una canzone di tramite.

A proposito di lieto fine, a chi destinerai parte dei proventi del brano?

Ad EMERGENCY, per sostenere il centro di maternità di Anabah, nel nord dell’Afghanistan e che ad oggi resta la sola struttura specializzata e gratuita della zona. Vorrei che si riaccendesse l’attenzione pubblica su questo paese e sulla necessità di aiutare le persone che vivono là, spesso in condizioni disperate.

Progetti?

Il mio ginecologo ha scritto un libro che tratta della terra e del cambiamento climatico, altro tema che mi sta molto a cuore, in cui si evidenzia la sconvolgente scoperta che nei feti materni si trovano microplastiche.

E poiché alla fine il libro lascia aperta la porta alla speranza, io ho pensato di scriverci un musical, i primi quattro pezzi sono pronti, il mio impegno per il 2022 sarà proprio cercare di realizzarlo.

L’Amore crede in noi più di quanto noi riusciamo a credere in Lui 

“Segnali di fumo” l’album di Saverio Grandi per urlare meno e comunicare di più

Dentro la Canzone: Saverio Grandi "Segnali di Fumo"

Dentro la Canzone: Saverio Grandi “Segnali di Fumo”La libertà di esprimersi, mettere in versi o su un pentagramma la propria vita, cantare emozioni e paure senza filtri ma con estrema sincerità. Non è semplice mettersi a nudo e non sempre si riesce realmente a farlo, ma talvolta capita che un’artista avverta questo tipo di esigenza, una sorta di urgenza comunicativa.

Saverio Grandi per il terzo album, fresco di pubblicazione, parte dalla propria esperienza personale ma anche dal mondo che ci gira intorno con tutta la sua frenesia imponendo una comunicazione gridata e becera alla quale lui contrappone i “Segnali di fumo” (anche titolo dell’album) che i nativi indiani usavano per comunicare e che i bianchi non riuscivano a capire.

I suoi brani, infatti, non sono urlati ma raccontati quasi sottovoce, facendo attenzione a porre in primo piano le parole.

Grandi è la firma che si cela dietro successi di Vasco Rossi, Laura Pausini, Stadio, Morandi, Raf, Fiorella Mannoia, Noemi, Ornella Vanoni, Marco Mengoni, Chiara Galiazzo e moltissimi altri artisti del panorama musicale italiano ma stavolta non poteva cedere i suoi pezzi, troppo personali, troppo autobiografici per non affidarli direttamente alla propria voce.

Unica eccezione “L’amore crede l’amore può”, bellissimo brano scritto da Pacifico ma musicato da Saverio in cui non si canta l’amore ma all’amore.

Cosa si prova ad essere l’autore di così tanti cantanti?

Mi sento più musicista che paroliere, sono diplomato in chitarra classica e la cosa per me più naturale è scrivere musica, poi mi dedico anche ai testi.

Ma che effetto ti fa sentir suonare o cantare le tue cose da altri?

Le prime volte aveva un effetto devastante, anche perché ho avuto la fortuna di inserire nei miei brani una percentuale importante d vita privata quindi, ascoltare le mie storie per me è sempre stata una specie di consacrazione, al di là che fossi io a cantarle o altri cantanti (oltretutto si è sempre trattato di artisti eccellenti).

Saverio Grandi "L'Amore crede l'Amore può"
Saverio Grandi “L’Amore crede l’Amore può”

I momenti in cui ti sei emozionato di più?

Il primo è quando insieme a Gaetano Curreri ho musicato “Un senso” di Vasco, la canzone che ha vinto due dischi di diamante e venduto circa 1 milione e mezzo di copie.

Il secondo quando abbiamo vinto il Nastro d’argento proprio con questo brano; il terzo è legato all’emozionante primo posto al Festival di Sanremo con gli Stadio. Ecco, questi son i tre momenti che ho fissato nella memoria.

Ti manca il palcoscenico?

In realtà non molto. Non sono esattamente un tipo da tour, ne ho fatto uno in passato con “Taglia 42” e ne ricordo ancor la fatica. Non mi sento un performer, io amo scrivere però è capitato in tre occasioni, tra cui recentemente, di avere tra le mani canzoni troppo personali per proporle ad altri.

Di cosa parla il tuo nuovo lavoro?

Un brano è dedicato a mio padre recentemente scomparso, uno alla mia generazione, un altro parla della libertà in amore in cui si cerca di spezzare una lancia contro il femminicidio. “Segnali di fumo” è un disco non solo digitale ma (cosa sempre più rara) anche acquistabile fisicamente.

Di quale comunicazione parli in “Segnali di fumo”?

Siamo circondati dal trash, ovunque. E poiché da tempo ormai nessuno dice più niente, se qualcuno lo fa sembra già un fenomeno. L’idea comune è che la comunicazione debba arrivare per forza a tutti e solamente alzando la voce, ma non è così, bisogna urlare meno e comunicare di più.

Tu a chi vuoi arrivare?

A nessuno in particolare, non ho un target di riferimento. Mi rivolgo a chi si ferma ad ascoltare i nove brani del mio album. Sono una persona priva di filtri che non deve convincere nessuno e che non ama prendersi troppo sul serio.

Qual è la gestazione di “L’amore crede l’amore può”?

Parte da una mia idea che però non riuscivo a buttare giù, così io ho scritto la musica mentre il testo porta la firma di Pacifico che ha fatto un lavoro straordinario e particolarmente poetico.

È quindi una canzone d’amore?

In realtà è una canzone all’amore.

Saverio Grandi "L'Amore crede l'Amore può" - Cover
Saverio Grandi “L’Amore crede l’Amore può” – Cover

Che tipo di amore è quello che canti?

Un amore che crede in te più di quanto non faccia tu. Gino (Pacifico) è bravissimo perché riesce sempre a trovare il lato poetico di ogni cosa ed anche qui è riuscito a raccontare l’amore come il motore del mondo e parte integrante della nostra vita quotidiana.

E quando capitano eventi spiacevoli?

L’amore è sempre lì ad aspettarci, proprio perché crede in noi più di quanto noi riusciamo a credere in lui. Il testo era talmente solido che è stato sufficiente sussurrarlo, non c’era bisogno di urlarlo.

Morandi una volta ha detto “quando le parole hanno poco peso cantale forti quando sono già pesanti cantale piano”.

Saverio Grandi "L'Amore crede l'Amore può" - L’idea comune è che la comunicazione debba arrivare per forza a tutti e solamente alzando la voce, ma non è così, bisogna urlare meno e comunicare di più.
Saverio Grandi “L’Amore crede l’Amore può” – L’idea comune è che la comunicazione debba arrivare per forza a tutti e solamente alzando la voce, ma non è così, bisogna urlare meno e comunicare di più.

Hai scritto “Segnali di fumo” durante il lock-down?

Sì, quasi tutte le tracce anche perché oltre alla pandemia mi sono capitate molte cose in quel periodo che hanno scatenato in me l’esigenza di scrivere, un modo per esorcizzare ansie e paure.

Pensi di presentarlo live?

Se riuscissi a ad organizzare qualcosa in piccoli club mi piacerebbe ma presentando un’esperienza multisensoriale in cui profumi e immagini proiettate accolgono lo spettatore riuscendo a coinvolgere più sensi possibili contemporaneamente. Non punto ad un concerto classico perché penso che il disco parli già da solo, piuttosto se domani dovessi esibirmi su un palco vorrei stupire.

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