Massimo Pastore: “fare un teatro veramente popolare, un teatro, cioè, che parli con sincerità, con onestà al popolo e gli permetta di confrontarsi con la complessità del reale, con le sue contraddizioni, con il suo mistero”
Musica a Teatro: Massimo Pastore, l’umanità costante – Il nostro lavoro parla dei tempi attuali, parla soprattutto di quello che siamo diventati e di ciò che rischiamo di diventare, che forse è peggio di quello che siamo adesso
Massimo Pastore è nato a Trapani, ha studiato composizione con il maestro Eliodoro Sollima e regia teatrale con Michele Perriera. Di quest’ultimo, è stato anche collaboratore alla Scuola di Teatro del Comune di Marsala.
In seguito, ha iniziato a occuparsi di formazione teatrale per i giovani presso diverse istituzioni scolastiche della Sicilia e, dal 2012, ha avviato un laboratorio teatrale permanente nella sua città all’interno dell’associazione “TAM – Teatro Abusivo Marsala”.
Ha composto le musiche di scena per diversi lavori teatrali, ha collaborato in qualità di attore con Pierfrancesco Diliberto, in arte PIF, al film “In guerra per Amore” e con Giacomo Bonagiuso alla messa in scena dei testi “Conseguenze dell’amore” e “Mobbidicchì”.
Nel 2014 ha realizzato con il Liceo Classico di Marsala il documentario “28 gradini: il dovere della memoria”, una ricostruzione dei fatti dell’11 maggio 1943 frutto di una rigorosa ricerca storica basata su testimonianze dirette e su documenti inediti.
Il documentario è stato inserito nel catalogo del Museo della Resistenza di Torino.
Ha al suo attivo numerose regie di opere teatrali del repertorio classico e contemporaneo tra le quali si ricordano “Macbeth” e “La tempesta” di W. Shakespeare, “Le troiane” e “Le mosche” di J. P. Sartre, “Lo stato d’assedio” di A. Camus, “I giganti della montagna” di L. Pirandello, “Antigone” di J. Anouilh, “Qui è quasi giorno” di Michele Perriera.
Secondo te quale ruolo ha o dovrebbe avere un teatrante oggi, soprattutto un regista o un drammaturgo?
Si è parlato molto in questi giorni della definizione che Piera Degli Esposti scrisse per la voce “attore” del dizionario Zanichelli. Proprio in quella definizione, l’attrice scomparsa qualche giorno fa, parla di un compito fondamentale dell’attore: quello di consolare e, aggiunge subito dopo, di calarsi nel proprio buio profondo per poi risalire con la luce che questo viaggio porta inevitabilmente con sé.
Mi ritrovo molto in queste parole che, in qualche modo, riprendono la grande lezione del mio maestro, Michele Perriera. Vorrei aggiungere, però, che, proprio per i tempi che stiamo vivendo, tempi “devastati e vili” – parafrasando il titolo di un bellissimo romanzo di Giuseppe Genna della fine degli anni ‘90 – ritengo fondamentale per un teatrante, un regista, un drammaturgo, insomma per chiunque oggi si assuma la responsabilità di salire sulla scena o di scrivere per essa, un ruolo ineludibile: quello di testimone.
Uso questo sostantivo pensando alla sua radice greca che rimanda alla figura del martire. In questo senso, mi sento molto vicino alla lezione di Grotowski e del suo “attore santo”. Per chiarire meglio, ritengo che oggi chiunque lavori per la scena non possa non porsi il problema della funzione civile, formativa che un simile mestiere comporta.
Non si tratta di fare un teatro più o meno impegnato, astruso, d’élite: si tratta al contrario di fare un teatro veramente popolare, un teatro, cioè, che parli con sincerità, con onestà al popolo e gli permetta di confrontarsi con la complessità del reale, con le sue contraddizioni, con il suo mistero.
Per far questo, per essere sinceri e onesti, non si può mai scegliere la strada della banalizzazione, della semplificazione. Per concludere, sono convinto che oggi più che mai il teatro non possa abdicare alla sua funzione “politica”, nel senso più nobile di questa parola. Tutto il resto è semplice intrattenimento, divertente e spensierato quanto si voglia, ma pur sempre usato come diversivo e come sedativo.
La musica in teatro pensi abbia una funzione importante?
Più che importante, direi fondamentale. Come si sa, parola e musica erano nel teatro greco, assieme alla danza, inscindibili. Del resto, come diceva Nietzsche, se la musica spiega la parola, la danza spiega la musica.
Devo essere sincero: mi capita a volte di assistere a spettacoli teatrali dove la funzione della musica è ridotta a sottofondo per rendere più efficace, più accattivante un monologo del protagonista o un dialogo particolarmente “commovente”.
Mi sembra uno spreco e anche un tradimento della grande lezione che, in questo ambito, ci hanno dato maestri come Bob Wilson.
Per quanto mi riguarda, nei miei spettacoli cerco di usare la musica più che per accompagnare le parole e i movimenti per rivestirli di una dimensione “altra” o, per meglio dire, per illuminare le ombre inevitabili che ogni parola e ogni gesto portano con sé.
Ecco, direi che penso alla musica in scena come a una sorta di controluce o a un faro di taglio, come si dice in teatro. Forse per questo, in alcuni miei lavori ho cercato di far inventare le musiche di scena direttamente agli attori, con le loro voci.
Usi musica durante i laboratori? Di che tipo?
Sempre. Tutti i miei laboratori iniziano con il cosiddetto riscaldamento, un momento di decontaminazione delle scorie del quotidiano che tutti i ragazzi si portano inevitabilmente dietro, e dentro, quando arrivano nello spazio di lavoro.
Uso diversi tipi di musica, spesso suggerita sul momento da uno sguardo particolare di qualcuno dei partecipanti, da una paura, da una gioia che credo di leggere nella espressione dei loro visi o da una particolare intenzione scenica che intendo perseguire.
Può trattarsi di una canzone di Mina o di un brano del repertorio classico, non c’è una regola per me. Uso il brano che più mi sembra più evocativo per il lavoro che voglio, che vogliamo fare.
Hai o ti piacerebbe avere un compositore di compagnia, come ad esempio Carpi per Strehler?
No, non ho un compositore di compagnia. Mi è capitato però durante la quasi decennale collaborazione con Michele Perriera di scrivere io delle musiche per alcuni suoi lavori, come quelle per “Pugnale d’ordinanza”, “Buon appetito” (messo in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma) e “Come, non lo sai?”, che fu anche l’ultima sua regia.
In queste occasioni, ricordandomi dei miei studi musicali, ho lavorato a stretto contatto con il regista e ho avuto la possibilità di sperimentare il mestiere di chi scrive per la scena. Penso comunque che un’esperienza come quella che vide legati per quasi cinquant’anni Fiorenzo Carpi e Giorgio Strehler al Piccolo di Milano sia oggi quasi impossibile.
Troppa poca attenzione, specialmente in Italia, sia nei confronti nella musica che del teatro per poter sperare di mettere assieme due figure così impegnate nella sopravvivenza quotidiana attraverso il loro lavoro, come quelle di un musicista e di un regista.
Eppure, non vi sarebbe campo più adatto a una simile collaborazione. Del resto, viviamo in un Paese in cui l’insegnamento musicale, la storia della musica, la storia del teatro sono fanalini di coda nei programmi delle nostre scuole, anzi a volte sono del tutto assenti o considerate discipline marginali, senza nessuna importanza.
Dovessi scegliere Un compositore classico chi sceglieresti? E invece un cantautore?
Ho una particolare predilezione per Brahms e la sua produzione da camera. È un compositore che mi affascina per la sua ricerca continua di tenersi ancorato alla forma come disciplina, per riprendere il titolo di un famoso saggio di Massimo Mila.
Agli inizi degli anni 2000, grazie a Sergio Lanza, mio maestro di composizione sperimentale al conservatorio di Trapani, ho scoperto l’immenso tesoro della musica contemporanea e mi sono dedicato, in particolare, allo studio delle opere di Xenakis e Ligeti.
Per quanto riguarda il mondo della canzone d’autore, il primo nome che mi viene in mente è quello di Ivano Fossati, di cui, dopo il ritiro dalle scene, sento molto la mancanza.
E poi c’è il compianto Gianmaria Testa, la cui opera è purtroppo ancora poco conosciuta al grande pubblico, ma che secondo me rappresenta una delle migliori espressioni musicali dell’universo cantautorale italiano.
In quali tuoi spettacoli la musica ha avuto una funzione essenziale? Con musica dal vivo cosa hai messo in scena?
Nel 2015 ho messo in scena una riscrittura del Macbeth di Shakespeare e il corredo musicale, chiamiamolo così, del lavoro prevedeva un’ampia antologia di brani musicali che andavano dal canto gregoriano ai Pink Floyd.
Era un lavoro dove una componente essenziale della messa in scena era affidata ai movimenti coreografici degli attori e, fin dal primo quadro sulle note di “Time” dei Pink Floyd, cercava di ricreare il clima di solitudine e orrore che circonda il delirio dei due protagonisti, Macbeth e Lady Macbeth.
Due anni fa, invece, ho collaborato con il cantautore siciliano Ezio Noto alla messa in scena di un suo lavoro discografico dal titolo “Napordu”, davanti al Tempio di Hera, al parco archeologico di Selinunte.
La rappresentazione era prevista all’alba. Un’esperienza indimenticabile, arricchita dalla presenza in scena di un gruppo di musicisti straordinari e di un “coro” di attori non professionisti di straordinaria generosità e intensità.
A proposito di musica moderna o contemporanea italiana hai un musicista che ti ispira più di altri?
Giacinto Scelsi, il compositore ligure scomparso nel 1988, praticamente sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di estimatori, il cui unico momento di notorietà internazionale si deve, purtroppo, alla controversa polemica, all’indomani della sua morte, a proposito della paternità reale delle sue opere.
Al di là di questo, ritengo si tratti un compositore affascinante per la sua tensione continua alla ricerca quasi spasmodica dell’essenza pura del suono e per le frequenti contaminazioni con la musica orientale.
Parlami di come è nata la tua compagnia…dell’ultimo spettacolo e dei progetti futuri
Il TAM – Teatro Abusivo Marsala – l’anno prossimo compie dieci anni. È nato in riva alla scoglio che dà il nome a Capo Boeo, qui a Marsala, dall’entusiasmo di un gruppo di ragazzi che avevano partecipato a dei miei laboratori nei licei marsalesi e che volevano mettere in scena un lavoro dedicato alla primavera araba.
Non avevamo nessuna struttura ufficiale che ci “sponsorizzasse” e così ci siamo chiamati “abusivi”. Da allora, con un’opera di autofinanziamento, siamo andati avanti con l’avvio di un laboratorio permanente che ha permesso a molti ragazzi e molte ragazze di scoprire il teatro come loro vocazione.
“La variante Amleto”, il nostro ultimo spettacolo andato in scena proprio qualche settimana fa, prende ispirazione dalla lettura dell’Hamletmachine di Heiner Müller, piccolo capolavoro del teatro post-contemporaneo risalente alla seconda metà degli anni ‘70.
Nel testo di Müller, in realtà, non vi è una storia da raccontare: sono cinque scene che si susseguono senza soluzione di continuità e che hanno come protagonisti un Amleto e una Ofelia che ritornano – forse dal mondo dei morti, forse da un altrove indefinito – a raccontare la loro storia come dei vecchi attori.
Prendendo spunto da Hamletmachine, il nostro lavoro parla dei tempi attuali, parla soprattutto di quello che siamo diventati e di ciò che rischiamo di diventare, che forse è peggio di quello che siamo adesso.
È un lavoro duro, crudele, cattivo, acido. Nelle nostre intenzioni dovrebbe servire a sviluppare, a far nascere nello spettatore un desiderio di tenerezza, di solidarietà, di bellezza.
Tutte cose che, in qualche modo, sembrano compromesse, oscurate da questi tempi così difficili, dove – ad esempio – la stessa riflessione sul disastro ambientale incombente sembra passata in secondo piano, mentre invece meriterebbe un’attenzione urgente e necessaria quanto mai.
Lo spettacolo è anche arricchito da una serie di interpolazioni tratte da opere di Shakespeare. In particolar modo, il Riccardo III, il Macbeth, l’Amleto e due sonetti (il numero 1 e il numero 10).
Per noi questa messa in scena è un atto d’amore, un dono che offriamo ai nostri spettatori, che vogliamo, sì, scuotere, ma con l’intento di far nascere in loro una struggente malinconia per quello che siamo stati, per quello che sembriamo aver dimenticato: il cammino che ci ha portato fin qui; la speranza che ha ispirato i nostri giorni migliori; gli affettuosi gesti di solidarietà che hanno guidato le nostre azioni più nobili.
Queste “dimenticanze” ci costringono dentro una dimensione di cattiveria e di solitudine, riducono il nostro presente a un orizzonte molto triste che il teatro a vocazione civile (come quello che cerchiamo di fare noi) dovrebbe cercare di scongiurare.
Mi verrebbe da dire che, mettendo in scena la nostra “variante”, cerchiamo in realtà di suggerire una “costante” di umanità per questo “inverno del nostro scontento”.
Ringrazio Massimo Pastore e rimando chi fosse interessato ad approfondimenti alla pagina