Il batterista di Celentano” ma anche dei Ribelli di Demetrio Stratos e di Lucio Battisti. Senza contare le innumerevoli esperienze con altri artisti, da Patty Pravo a Lucio Dalla. Musica361 ha incontrato sabato scorso al Memo Restaurant Gianni Dall’Aglio, autore della sua unica autobiografia.
Ogni artista ha un momento nella vita in cui decide di fare i conti con la sua carriera. Il celebre batterista Gianni Dall’Aglio ha deciso di farlo qualche anno fa, dando alle stampe Batti un colpo. Non solo una biografia ma la testimonianza di un’era della musica popolare italiana, ispirata dal drammatico episodio familiare che apre il libro: «Nella vita ti accadono eventi imprevedibili che però ti danno l’opportunità di ripercorrere a ritroso tanti momenti. Così ho potuto rendermi conto di dove sono arrivato oggi».
Sfogliando le prime pagine si scopre un Dall’Aglio bambino un po’ problematico: «Spesso in casa c’erano situazioni di conflitto perché miei genitori, pur amandosi, erano persone molto diverse, cosa che mi aveva reso molto sensibile e legato soprattutto a mia madre. Temevo di perderla, per questo avevo trovato dei rituali per scongiurarne la morte. Episodio poi risolto con una specie di miracolo, come spiego, ma che mi segnò per tutta la vita».
Poi la scoperta della batteria al circo con il padre: «Era uno strumento che già esisteva dentro me, forse l’avevo assorbito nel contesto prenatale del ventre di mia madre. A scuola facevo fatica a memorizzare una poesia però imparavo una canzone la prima volta che l’ascoltavo».
Proprio grazie a questa dote comincia a suonare e il destino gli fa incontrare a tredici anni Celentano, di cui diventa inaspettatamente batterista. Con lui si esibirà persino di fronte al Papa, in Russia e all’ultimo concerto (ad oggi) all’Arena di Verona: «Nel libro c’è la prima foto in assoluto in cui abbraccio Adriano dopo aver suonato con lui la prima volta. In quel momento pensavo che non lo avrei mai più rivisto. E invece sono stato al suo fianco per 50 anni. Non conosco casi come il mio. Frank Sinatra si portò il suo batterista storico solo per 30 anni».
Poi sorride e aggiunge: «È sempre stato come un fratello maggiore, ci ha sempre legato un rapporto di amicizia che ha più della parentela. Gli sono veramente grato, mi ha dato tantissimo fin dai tempi dei Ribelli».
Momenti e anni irripetibili come il 1966, anno in cui Dall’Aglio perde la madre e cerca più visibilità per i Ribelli: «Era il momento dei gruppi beat ma Adriano, legato alla figura del cantante supportato da un gruppo alla Elvis, non credeva in questa nuova ondata musicale dall’Inghilterra. I Beatles – che vidi al Vigorelli a Milano e filmai in alcuni momenti poi ceduti a Michele Bovi in RAI – invece portarono una nuova ventata e noi intendevamo rimarcare quel tipo di identità. Chiesi ad Adriano di lasciarci liberi e lui con grande generosità mi cedette il marchio dei Ribelli».
Parlare dei Ribelli significa ricordare anche l’incontro col grande Demetrio Stratos al Santa Tecla che per un momento sembrò rappresentare la svolta: «Aveva una voce eccezionale ma ancora poco compresa in Italia, tanto che Pugni chiusi (1967) si piazzò solo quarta al Cantagiro riscattandosi però negli anni». Una canzone nata dalla disperazione della perdita della madre e influenzata da Georgia in my mind di Ray Charles: «La scrissi da autodidatta sul pianoforte che avevo a casa, poi Demetrio mi consigliò di cambiare l’inciso.
Il paroliere Luciano Beretta, il primo che la ascoltò mi disse “Uè Gianni, quest chi l’è un success!” E fu così, date le numerose cover, da Piero Pelù a Nick Connect, anche se i diritti mi furono riconosciuti solo recentemente». Un inno alla generazione sessantottina ma quella romantica e non arrabbiata, specifica: «Alcuni la scambiavano per un testo politico ma in realtà parla d’amore: eravamo Ribelli di nome ma sentimentaloni di fatto».
L’insuccesso al Cantagiro fece sì che la casa discografica impose ai Ribelli solo cover fino al declino e alla separazione da Stratos che fonderà gli Area. «L’ultima volta che lo vidi era l’inverno 1979, mi aveva chiesto di noleggiargli un clavinet Hohner. Mi raccontò, con la consueta simpatia, che stava sperimentando. Ci salutammo con un abbraccio, mai avrei immaginato che sarebbe stata l’ultima volta».
Proprio l’anno prossimo si festeggeranno i 40 anni dal Concerto per Demetrio (13 giugno 1979) dal quale i Ribelli rimasero esclusi: «In quegli anni in cui la musica era stata imbrigliata in ruoli estranei alla musica stessa, una certa faziosità degli organizzatori reputò i Ribelli un “gruppo di non-cultura”. Allora rimasi molto male ma oggi sono quasi felice di non aver partecipato. Quello che più importa è che la voce di Demetrio non vada dimenticata per questo ad ogni concerto dei Ribelli gli dedico sempre un momento».
Come non ricordare poi la prima volta che incontrò Lucio Battisti al Clan quando il cantautore si presentò insieme a Mogol per proporre a Celentano alcune canzoni. «Adriano le apprezzava ma non le riteneva nelle sue corde e le propose a noi Ribelli. Per una lira fu la prima che registrai con Lucio».
Da allora Dall’Aglio “lasciò il segno del tempo” in tanti altri capolavori come nel finale di Non è Francesca oppure quando Battisti portò a Sanremo Un’avventura in coppia con Wilson Pickett. Racconta riguardo la registrazione: «Pur sapendo che si trattasse di una canzone di Lucio ero convinto che quella mattina l’avrebbe incisa Pickett. Continuavo a guardare la porta per capire se da lì a un attimo sarebbe entrato».
Nessuna foto con Battisti ma nella memoria sicuramente indelebile l’unico duetto dal vivo tra Lucio e Mina nell’aprile 1972 a Teatro 10, momento «che io e gli altri affrontammo con incoscienza. Ogni volta che lo rivedo però sento ancora l’emozione che contagiava reciprocamente noi e il pubblico, la bellezza di quelle stesse canzoni che ci eccitavano. Solo pochi anni fa mi sono reso conto a quale evento avessi partecipato e vedendomi per l’ennesima volta da spettatore ho pensato “che bravi quei ragazzi”».
Dall’Aglio suonò per Battisti in molti altri dischi, assecondandone l’istinto musicale: «Era molto esigente, spiegava a voce quello che voleva e noi musicisti dovevamo rifarlo. Quando registrai Il mio canto libero mi disse che dovevo suonare “rilassato ma nervoso” (sorride). Penso sempre che i musicisti di oggi abbiano certamente più tecnica ma riescono meno ad interpretare la creatività rispetto ad artisti come Lucio». Banco di prova decisivo in questo senso fu Anima Latina: «Cambiava continuamente idea riguardo i modelli ritmici e le percussioni: Anima latina è stato un esame molto difficile per me, canzoni e arrangiamenti definitivi sono venuti poco per volta».
Una collaborazione durata fino a La batteria, il contrabbasso eccetera (1976), anche se «non soddisfatto degli arrangiamenti prog del Volo, decise di reincidere tutto con altri musicisti: aveva una gran brama di ricerca». L’ultimo ricordo a metà degli anni ’80 quando «proprio Adriano mi propose di andare a trovarlo a Molteno un pomeriggio. Si misero a parlare del momento musicale e io ero lì ad ascoltarli come privilegiato testimone. Professionalmente ho inciso il suo primo disco ed ero all’ultima esibizione dal vivo al programma radiofonico Supersonic nel dicembre del ’72 ma quella è stata l’ultima volta che l’ho visto di persona».
Nel libro non mancano altri incontri, con Enzo Jannacci, Lucio Dalla oppure con gli idoli Little Richard e Chuck Berry con i quali suonò a Fantastico 8 o il flirt con Patty Pravo e quello sfiorato con Timi Yuro: «Ricordo il mio primo successo con le donne a 13 anni. Suonavo da poco con Celentano e nella mia piccola città s’era sparsa già questa voce. Un gruppo di ragazze, per la prima volta nella mia vita, si era appostato per aspettarmi e una vedendomi mi aveva urlato dietro mettendosi le mani nei capelli come una fan dei Beatles».
Da allora sono passati decenni ma Dall’Aglio si è reso conto solo recentemente di quello che ha vissuto perché per molto tempo «ho avuto la paura che questo bellissimo sogno una mattina svegliandomi svanisse. Mia madre diceva: “Vedi quelli che suonano in televisione e hanno 30 anni? Sono già vecchi, poi la gente non li chiama più”. Man mano che passava il tempo invece mi dicevo “sono ancora qui che suono” e così ho passato una vita da professionista. Un mestiere “rilassato ma nervoso” che dà e toglie e a volte fa sognare troppo. Però il più bello che ci sia al mondo. Se non avessi potuto suonare avrei fatto senz’altro l’artigiano perché a me piace creare con le mani. E fortunatamente con le mie mani ho avuto il privilegio di creare musica: non avrei mai potuto desiderare un mestiere migliore».