Maggio 1968: Jimi Hendrix sbarca in Italia per pochi concerti e qualche mese più tardi, a settembre, pubblica “Electric Ladyland”. Oggi, a 50 anni di distanza e in occasione della ristampa del disco, lo storico del pop-rock Enzo Gentile traccia una cronaca argomentata su una fase del chitarrista di colore che ha rivoluzionato la musica contemporanea.
Non è la prima volta che Enzo Gentile affronta il caso Hendrix, anzi dal 1990 si sono susseguite diverse pubblicazioni ma nessuna aveva mai analizzato in maniera così dettagliata l’unico soggiorno italiano del geniale chitarrista di Seattle: «Mi è piaciuta l’idea di aver messo nel microscopio come un entomologo quella settimana italiana, inquadrando e contestualizzando esclusivamente quel momento. Naturalmente potendo usufruire anche del prezioso archivio di Roberto Crema che gestisce il sito Jimi Hendrix Italia e tiene da anni rapporti con numerosi collezionisti».
Come è stata vissuta dal pubblico nostrano la prima e unica esperienza italiana di Hendrix quando venne nel nostro paese nel maggio del ’68, mentre si ascoltavano in classifica canzoni come Zum zum zum, Luglio col bene che ti voglio e La bambola? «Mise piede in Italia il 23 maggio 1968 e se si considera che solo pochi mesi dopo si assisterà al primo allunaggio, in un certo senso si può dire che, all’inverso e con un anno di anticipo, sia sbarcato all’aeroporto di Malpensa “un alieno” o come fu definito “Il diavolo nero, il negro che suona la chitarra con i denti”, tanto più se pensiamo ad un’Italia ancora massivamente intrattenuta dai musicarelli, o da manifestazioni come il Festival di Sanremo, Canzonissima o il Cantagiro. A suffragare quella atmosfera extraterrestre giocavano anche alcuni titoli e testi delle canzoni di Hendrix, contrassegnati da elementi fantascientifici di cui era appassionato, a loro volta enfatizzati dal sound di un altro emisfero, anzi di un altro mondo. Non a caso la foto di Hendrix che scende dalle scale dell’aereo a Malpensa, scatto utilizzato per la copertina del libro, ben illustra questo fenomeno come in parte percepito dalle cronache del tempo».
I media di allora come accolsero l’evento “Hendrix”?
«Si consideri che il pubblico complessivo di tutti i concerti si aggirò intorno alle 3000 persone: se allora erano poche, oggi veramente un’inezia. D’altra parte quel pubblico era fatto di amici, conoscenti e compagni di scuola radunatisi col passaparola, non esistevano radio e tv private e tanto meno social e i giornalisti quasi non se ne accorsero. Un po’ perché non esisteva una stampa specializzata, i quotidiani avevano pagine dedicate allo spettacolo, alla televisione, al cinema e alla lirica ma non certo al pop rock in senso lato. Non furono pubblicati servizi specifici sul tour a parte rari casi (che presentiamo nel libro) e non abbiamo precise recensioni dedicate ai concerti, uscì solo qualche articolo di costume e alcuni reportage con i giovani che si accalcano per vedere questo chitarrista dai capelli afro.
Molte di più le fotografie di privati e artisti che all’epoca poterono più facilmente avvicinarlo – una quantità di materiale che nemmeno io sospettavo – rispetto a ciò che si trova negli archivi della tv di Stato: la RAI non credeva che quel tipo di produzione avesse una risposta significativa di pubblico. Non c’erano molti concerti in Italia in quegli anni e anche quei pochi non venivano seguiti: non mandarono troupe né per i Beatles nel 1965, né per i Rolling Stones nel 1967 e dunque nemmeno per Hendrix nel 1968, pertanto purtroppo, a parte qualche breve brano amatoriale, non abbiamo riprese “alternative”».
Nel libro vengono confermati alcuni aneddoti storici come l’incontro con Maurizio Vandelli a Milano a Villa Bodoni e smentiti altri leggendari come il joint con Patty Pravo. Documentandoti, cosa ti ha sorpreso di più scoprire?
«Ho parlato con molti personaggi che oggi sono grandi professionisti ma che all’epoca ancora erano semplici studenti appassionati di musica, i quali dopo aver visto il concerto di Hendrix decisero fermamente di seguire il suo esempio: Dodi Battaglia, Andrea Mingardi, Eugenio Finardi o Maurizio Solieri, che suonerà con i massimi cantautori italiani e persino un giovanissimo Carlo Verdone, che riporta la sua testimonianza nell’introduzione, tutta gente che davanti ad Hendrix venne come illuminata. Dalle dichiarazioni di tutti coloro che si sono avvicinati ad Hendrix si delinea un’esperienza pari alla scintilla di un sacro fuoco: esercitò un’ispirazione, un magnetismo e una suggestione potentissima».
Data la qualità della sua strumentazione rispetto ad oggi e soli 4 album all’attivo o comunque in vita, in cosa è consistita la sua eredità musicale e qual è il motivo per cui lo ricordiamo ancora a 5 decenni di distanza?
«C’era una potenza che usciva anche da quei miseri amplificatori e da quegli strumenti che non ha paragoni: persino oggi, se vediamo i filmati di quel periodo, ci accorgiamo di come quel trio fosse un esercito sul palco. Senza dimenticare una serie di composizioni, per l’epoca molto avveniristiche eppure assolutamente comprensibili, che non a caso ancora oggi rimangono nella memoria. Stiamo parlando di musica rock con elementi blues e funky, una miscela assolutamente accessibile, eppure dal sapore avveniristico: è un equilibrio che hanno dimostrato di avere veramente pochi. Se riascoltiamo molte di quelle incisioni non sono datate, in quella musica c’è ancora un graffio, un ringhio ancora molto originale: non sembra che siano passati 50 anni».
Tanto che dopo 50 anni celebriamo anche Electric Ladyland, terzo e ultimo album della Jimi Hendrix Experience, pubblicato pochi mesi dopo il tour italiano, nel settembre 1968 e oggi ristampato. Secondo alcuni si tratta del miglior lavoro di Hendrix: che impatto ebbe quando uscì e cosa rappresenta nella sua discografia?
«Si ricorda per lo scandalo della copertina con Hendrix contorniato da ragazze svestite inizialmente censurata e poi pubblicata solo in alcuni mercati ma anche perchè fu uno dei primi album doppi, formato fino ad allora utilizzato solo da Dylan, Zappa e i Cream, mentre quello dei Beatles sarebbe venuto solo a novembre. Era una dimensione non proprio agevole per il mercato ma Hendrix volle coprire 4 facciate di vinile, peraltro nell’anno che segue il 1967 in cui erano già usciti altri due album per un totale di 4 LP in 15 mesi. Ebbe una produzione molto intensa ma mai a scapito della qualità, persino nei casi in cui andò a pescare nel repertorio altrui, reinventando, trasformando e metabolizzando brani secondo la sua chitarra al punto da non potersi nemmeno più definire cover, come All along the watchtower di Dylan, irriconoscibile rispetto all’originale.
Electric Ladyland coglie Hendrix in una fase evolutiva tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69 quando smembra gli Experience e pensa all’embrione di un’altra band – sul palco di Woodstock si presenterà con una formazione di sei elementi che però abbandonerà presto. Rappresenta un anello di congiunzione tra la prima stagione della Jimi Hendrix Experience e qualcosa che poi non avrà tempo di compiersi: dagli appunti che ci ha lasciato si scopre che avrebbe voluto fare un’altra musica, senza più replicare il solito repertorio in concerto, andando persino oltre le stesse improvvisazioni o i materiali più recenti. Si vocifera anche di tanti incontri e collaborazioni che avrebbero dovuto concretizzarsi con altri artisti: sono convinto che, se avesse potuto, da lì a qualche anno avrebbe sicuramente aperto un nuovo fronte nell’area del jazz o della musica più estrema».
La carriera postuma di Hendrix si è sempre posta in bilico tra operazioni commerciali e pubblicazioni d’archivio. Ad uno storico del pop rock chiedo: in che misura quella discografia ha arricchito di fatto la figura di Hendrix e quanto ha rappresentato un semplice sfruttamento d’immagine?
«Molti album come First rays of the new rising sun (1997) e altri non intaccano la sua immagine ma uscirono comunque senza la sua approvazione definitiva. Sapendo quanto un album come Electric Ladyland fosse stato rielaborato e rimuginato, tutto mi fa pensare che la maggior parte delle versioni pubblicate da fonici e ingegneri di fiducia nei dischi successivi, per quanto prodotti di qualità, non fossero idealmente qualcosa di definitivo. Qualsiasi brano può essere utile per allargare la conoscenza dell’artista, anche se di fatto non so quanto avremmo sentito la mancanza di molti di quei dischi: amo moltissimi live che sono stati pubblicati anche se non ritengo che dal punto di vista della storia di Hendrix fossero tutti indispensabili.
Con Hendrix in vita molto probabilmente molti demo e outtakes non sarebbero usciti o comunque lui ne avrebbe preso spunto per farci qualcos’altro, dato che spesso molte registrazioni accantonate venivano poi rielaborate e risistemate su nuovi progetti. Progetti però che avrebbe potuto pianificare solo Hendrix, rispetto a chi, pur con cognizione di causa, abbia solo interpretato ma senza quella chiave autorale che Jimi aveva sempre dimostrato di saper controllare benissimo, anche rispetto allo studio di registrazione. Bisognerebbe sempre pubblicare materiale d’archivio con una certa autocritica, domandandosi ogni volta: “C’è bisogno anche di questo?” Condivido sempre il piacere dell’ascolto e della ricerca, che non sempre però, per forza di cose, deve necessariamente tradursi in un prodotto».