A tu per tu con il produttore discografico Elio Cipri, per parlare del suo impegno professionale e del difficile momento che il mondo della musica sta attraversando
Esperienza e passione da vendere per Elio Cipri, un nome noto a tutti gli addetti ai lavori, nonché un autentico professionista del settore che, nel corso dei decenni, si è occupato di musica a 360 gradi, trattandola con cura e rispetto. Abbiamo il piacere di approfondire la sua storia, ospitandolo in questo dodicesimo appuntamento della rubrica “Protagonisti in secondo piano“.
Hai scritto pagine importanti della musica italiana, ricoprendo ruoli diversi, ma com’è cominciato tutto?
«Nell’ottobre del ’63, quando mio zio mi portò a fare un’audizione alla Fonit Cetra. Cantai “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” davanti a Domenico Modugno, mi presero e mi mandarono alla prima edizione de “Un disco per l’estate” dell’anno successivo. Arrivai secondo dopo “Sei diventata nera”, con un brano che si intitolava “Spara Morales”. Vendetti 400 mila copie, che in quegli anni non erano considerate molte, ma se le rapportiamo ad oggi sono tantissime.
Dopo altri due 45 giri di scarso successo, mi accorsi di non divertirmi più e cominciai a pensare di cambiare mestiere, restando sempre in ambito musicale. Chiesi alla mia etichetta discografica un posto di lavoro, mi assunsero come ragazzino di bottega, il classico tutto fare. M’inventai il ruolo del promoter, cominciai portando i dischi in radio, all’epoca c’era un solo canale, e nell’arco di poco tempo diventai responsabile di promozione della Fonit Cetra, ai tempi la casa discografica italiana più importante».
Più di 50 anni di impegno nel settore, come sei riuscito a mantenere intatto l’entusiasmo e non farlo diventare un lavoro come tutti gli altri?
«Questo accade quando c’è di mezzo la passione, in più di carattere sono molto tenace, la mia bravura è stata quella di capire subito i meccanismi di questo lavoro. Mi ha aiutato molto il mio modo di essere, la simpatia, cercavo di accontentare sempre tutti, sorridevo, non mi negavo mai a nessuno. Con gli artisti ho sempre avuto un bel rapporto, non solo con i miei, ma anche con quelli delle altre etichette. Mi sono imposto nella mia azienda da subito, sono stato un battitore libero, nessuno doveva dirmi cosa fare. Sempre educato, seguivo gli schemi, ma non prendevo ordini da nessuno».
Come si è evoluto il tuo mestiere negli anni?
«Purtroppo nel 1997 la Fonit Cetra chiuse i battenti, ma per mia fortuna entrai in RTL come capo ufficio stampa, intraprendendo la mai carriera radiofonica. Ho poi aperto una mia etichetta, la Red Fish, con la mia socia Donata Brusasco, una giornalista molto importante. Poco dopo essere andato in pensione, mi hanno chiamato da Radio Italia anni ’60 per sanare le sorti di questa emittente, devo ammettere di essere riuscito a portarla ad un successo incredibile in soli 3 anni. Abbiamo aumentato gli ascolti, in più tutti gli artisti della musica leggera italiana vengono a trovarci in continuazione. Un gran bella soddisfazione».
Hai due figli: Giorgio e Cecilia, alias Syria, che tutti conosciamo, Il primo ha seguito le tue orme, la seconda ha intrapreso la strada che avevi poi lasciato. Sei soddisfatto delle loro scelte?
«Sì, proprio perchè le scelte sono state le loro. E’ stata Cecilia a scegliere di cantare, io non volevo. Sai, per lei ero un padre scomodo, all’epoca ero un personaggio molto influente nel mondo della musica, ero potente, ero invadente. Quando vinse Sanremo, in molti tirarono fuori la storia che ero amico di Pippo Baudo, mentre non ho mai mosso un dito per lei, mi sono limitato a darle consigli. Anche Giorgio ha fatto tutto da solo, pensa che quando fu assunto alla BMG non sapevano nemmeno che fosse mio figlio, perchè si era presentato come Giorgio Cipressi, il mio/nostro vero cognome, se ne accorsero dopo. Ha seguito le mie orme, è un ragazzo eccezionale, bravissimo. Lo cercano tutti. Una soddisfazione più grande non potevano darmela, sia Giorgio che Cecilia».
Segui il Festival di Sanremo dal 1967, come lo hai visto cambiare in questi anni?
«Moltissimo, la prima volta che ci andai c’erano solo una segretaria e un ufficio stampa, i pass erano fatti a mano. Oggi è cambiata completamente l’organizzazione e tutto quello che c’è intorno, ma sento di avere le chiavi della città, perchè per me Sanremo non ha segreti. Quest’anno è stato triste non esserci dopo ben cinquantaquattro anni, ma il momento che stiamo vivendo è questo».
A proposito di attualità e di pandemia, di recente sei stato protagonista tuo malgrado di un episodio balzato alle cronache, ci racconti com’è andata e come stai?
«Bene, sto bene. Un signore, che sicuramente avrà avuto dei problemi, si è presentato davanti alla nostra postazione radiofonica senza mascherina. Al mio invito di indossarla ha iniziato a dire che non gli importava nulla, così ho alzato la voce. Lui mi ha preso per il collo e mi ha dato un cazzotto in faccia. Ho ricevuto tanto affetto e un sacco di messaggi, ringrazio tutti di cuore».
L’intero settore ha risentito molto dello stop forzato della musica live, pensi che non sia stato fatto abbastanza per i lavoratori del mondo dello spettacolo?
«Assolutamente sì, scrivilo pure, chi li ha tutelati? Con cinquecento euro possono mangiare? L’unica cosa è stata fatta da Laura Pausini per raccogliere un po’ di fondi, ma poi non è stato mosso più un dito. Chi ha pagato davvero sono i poveri ragazzi che gestiscono i service, quelli che non riescono a reinventarsi, mentre gli artisti un modo lo trovano».
In conclusione, che ruolo può avere la musica in un momento così complicato?
«A livello emotivo aiuta moltissimo perché la musica è vita. Per sopravvivere e sorridere ci vuole la musica, a tutti i costi».