Enzo Campagnoli ci racconta la sua esperienza da Direttore d’Orchestra svelandoci qualche segreto del Festival di Sanremo
Poliedrico, verace e appassionato, Enzo Campagnoli è da diversi anni conosciuto al grande pubblico televisivo. Direttore d’Orchestra, oltre che insegnante e arrangiatore, per 4 edizioni di Amici, nonché veterano di Napoli prima e dopo, di cui ha diretto i musicisti delle ultime 13 edizioni della kermesse ma, soprattutto, nome ormai conosciutissimo del Festival di Sanremo.
Con Dolcenera nel 2016, Clementino nel 2016 e 2017, Michele Bravi nel 2017, Elettra Lamborghini nel 2020 e Orietta Berti quest’anno, Enzo Campagnoli si è guadagnato nel tempo l’onore di essere uno dei Maestri più ambiti, capace di passare dalla musica ballabile a quella più raffinata.
Diplomato al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, esordì con l’Orchestra Scarlatti come musicista per poi suonare al Teatro San Carlo e iniziare una serie di collaborazioni che gli cambiarono la vita: da Josè Carreras a Loretta Goggi fino a Liza Minnelli, Amii Stewart, Riccardo Cocciante ma, soprattutto, Mario Merola.
È Enzo Campagnoli il nostro quarto ospite della rubrica Musica Maestro.
Enzo, il palco dell’Ariston ormai lo conosci a memoria: prima tanti anni da percussionista, da diversi anni Direttore d’Orchestra. Possiamo dire, in qualche modo, anche Direttore dello stesso interprete?
Esattamente. In veste di direttore d’orchestra, curo anche lo stato emotivo dell’artista, legato alla performance, all’esibizione, al modo con cui l’artista arriva sul palco e si relaziona. Il mio obiettivo è farlo esprimere in tutto ciò che lo rappresenta. Ognuno deve portare a Sanremo se stesso e la propria storia.
In che modo trasferisci la tua energia a orchestrali e cantanti?
C’è un gioco di sguardi, di movimenti: ogni dettaglio è importante per portare a casa un risultato musicalmente di rilievo. La forza è anzitutto energetica, di carisma, di personalità. Io dirigo senza la bacchetta: voglio le mani libere per dare alle mani stesse una gestualità in base al momento del brano, affinché questo possa dire qualcosa.
Possiamo dire che il Direttore d’Orchestra sia, egli stesso, un interprete del brano in cui deve entrare con tutto se stesso?
Certo. L’interprete deve dare una chiave di lettura al suo brano che canta; il direttore d’orchestra fa la stessa cosa. Accarezza la musica: la sua ipersensibilità interiore arriva con un gesto e fa la differenza.
Da Musica e il resto scompare con Elettra Lamborghini a Quando ti sei innamorato con Orietta Berti, il cambiamento sonoro è notevole. Eppure in questi due clamorosi successi sanremesi, guarda un po’, il comune denominatore sei sempre tu. Muta anche il modo di dirigere a seconda del cantante?
Cambia totalmente: l’anno scorso con Elettra, in finale, mi tolsi le cuffie e salii sul palco da lei: c’era uno special di percussioni che rappresentava l’occasione giusta per condividere insieme quel momento, dopo le emozioni che avevamo vissuto durante la settimana. Furono venti secondi magici. Con Orietta, quest’anno, il brano era diverso, più lirico-sinfonico e quindi l’approccio stesso doveva essere totalmente pop-lirico. Mi do comunque sempre una regola che vale per tutti.
Ossia?
Da direttore devo fare sempre un passo indietro rispetto all’artista, senza mai invadere il suo territorio da cantante solista e interprete.
L’orchestra è parte integrante e determinante dell’interpretazione: cosa rappresenta anzitutto?
È un gruppo e io, da direttore, trovo sia fondamentale usare la mimica facciale per fare capire agli orchestrali che siamo tutti insieme per un unico obiettivo. Il musicista sa chi ha davanti e come relazionarsi per farsi trasporare nelle sue migliori espressioni; il direttore conosce ogni sfumatura dei suoi orchestrali.
Qual è la differenza tra la direzione dell’orchestra sanremese e quella di una sinfonia?
A Sanremo ci sono sequenze che partono da computer: c’è un click elettronico che arriva a tutti gli artisti dell’orchestra e segna il tempo. Se ci fate caso, a volte all’Ariston l’orchestra non è disposta in modo compatto come dovrebbe essere nella normalità. Questo perché lì ci sono esigenze scenografiche diverse: quindi ci sono le balconate, alcuni musicisti da una parte, altri dal lato opposto. A livello sinfonico però è un errore: se un ensamble viene disposto così, non sono rispettati i piani sonori. L’orchestra dovrebbe essere insieme per potersi ascoltare, e scollandosi la sezione viene a mancare la condivisione.
Quindi gli strumenti, generalmente, hanno una disposizione univoca per tutte le orchestre?
Esattamente.
Puoi farci qualche esempio?
Le percussioni sono indietro perché la loro pressione sonora, come quella degli ottoni, è maggiore di quella di un legno, che suona un po’ più indietro, o di un violino, posizionato in prima fila. A Sanremo, per ovviare a tutto ciò, c’è quindi il click. Nelle cuffie arrivano i suoni di ogni strumento. Il direttore, avendo l’orchestra tra le mani, ha il compito più delicato di fare in modo che tutti quei suoni costruiscano insieme qualcosa di importante.
E questo non accade nella musica sinfonica?
Assolutamente no. E, per questo, è molto più facile dirigere a Sanremo. A Napoli prima e dopo, per esempio, c’era un repertorio classico legato alla sinfonia: lì, non essendoci l’ausilio del clic, era ancor più complicato condurre 60 musicisti.