#NOTEDICARTA: “Gábor Szabó. Il jazzista dimenticato”, il suo stile light jazz non venne mai accettato completamente dagli altri artisti jazz
È uscito in libreria lo scorso 26 febbraio per Demian Edizioni, a quarant’anni esatti dalla prematura morte del chitarrista magiaro, “Gábor Szabó. Il jazzista dimenticato”, scomparso a soli 46 anni nel 1982.
Già dal titolo emerge il principale motivo che ha spinto Puracchio, perché Gábor Szabó è senza ombra di dubbio un “jazzista dimenticato”.
Non è sicuramente l’unico, ma in questo caso, parliamo di un musicista che ha avuto un significativo riscontro in carriera e il cui oblio suona, proprio per questo, strano.
Nel volume, l’autore del libro richiama alcuni degli elementi che, in parte, spiegano la smemoratezza del pubblico nei confronti del chitarrista.
Dall’analisi di Puracchio emerge che uno dei motivi principali che ha lanciato l’anatema verso Szabó, è stato sicuramente quell’atteggiamento radical chic che ha caratterizzato il suo jazz-pop, quel suo reinterpretare i grandi successi commerciali in chiave light jazz.
Il libro racconta con cura la breve e sfortunata vita dell’artista attraverso i suoi pochi “alti” e i suoi numerosi “bassi”.
Tra la biografia e il saggio, pagina dopo pagina si susseguono le tappe salienti di un’eccentrica epopea umana e musicale.
Dagli esordi della sua passione musicale con l’incontro della chitarra nel 1950, all’ascolto clandestino di “Voice of America” e altre emittenti che in quegli stessi anni finiscono al bando e la rivoluzione ungherese del 1956, attraverso quel 1968, anno fondamentale non solo per la società e la politica ma anche per i risvolti musicali che ha generato, in cui Gábor Szabó produce in studio quello che, secondo Puracchio è il suo capolavoro, Dreams, disco poco citato nelle storie del jazz nonostante la sua godibilità si snoda un racconto che termina, inevitabilmente, con la morte del chitarrista, minato dai malanni epatici e renali.
Le pagine di “Gábor Szabó – Il jazzista dimenticato” sono gremite di voci non sempre armoniche nel loro addensarsi e diradarsi, quasi come in una jam session.
Il libro è organizzato in maniera originale, scritto con taglio veritiero ma senza la necessità di dover essere rigidamente oggettivo.
Il volume è ricco di voci che si alternano spesso “passando la penna” per interi capitoli a ottimi esperti dei singoli temi come Toni Fidanza, Sandro Di Pisa e Donato Zoppo che si aggiungono ai contributi di Lee Ritenour, Lino Patruno, Csaba Dese, Doug Payne, Guido Saraceni e Manuela Romitelli.
Un unico ma importante appunto: la consistente bibliografia è indicata senza alcun ordine mentre, soprattutto per gli amanti dei libri che raccontano la musica, sarebbe stata di maggior aiuto se fosse stata ordinata cronologicamente per consentire ulteriori approfondimenti sull’artista ma, forse, anche questa è il frutto di una jam session.