Paolo Araldi il fotografo di strada che entra nelle case
Paolo Araldi con le sue fotografie, scrive poesie, racconti intensi, che conservano la semplicità e lo stupore di chi guarda.
È nato a Genova, dove è vissuto solo pochi giorni, ma per questa città conserva un amore viscerale e atavico e per “quei posti davanti al mare”, un legame indissolubile. Lo scorso anno ha fatto una mostra, en plein air, per strada a Camogli, che ha voluto chiamare semplicemente Camogli 1987-2020, dove ha messo mano al suo archivio non proprio ordinato, dove trovano posto non solo immagini ma affetti.
La “sua” Camogli è raccontata attraverso fotografie che sono emozioni allo stato puro, lontane dagli stereotipi delle cartoline, che scivolano tra le pieghe dei ricordi e dell’estetica.
Paolo Araldi attraverso le sue inquadrature ci conduce tra le vie di Camogli e la sua storia che si snoda dagli anni ’80 a oggi, con la semplicità di chi sa andare oltre il paesaggio, ma ne insegue l’anima. Particolari, che, anche quando sono in bianco e nero ne conservano il sole e la salsedine.
Paolo Araldi è un fotografo che con discrezione e delicatezza, cattura col suo obiettivo ciò che lo appassiona: questa è la conditio sine qua non. I suoi progetti sono raccolte di immagini che ci fanno intraprendere viaggi sempre nuovi: dal Torneo di Wimbledon alle abitazioni private di Palermo o le “sue spose” che raccontano la donna e la sua centralità nel matrimonio. Lui entra nelle case, si avvicina ad una sposa, nel momento più intimo, in punta di piedi e di quelle case, di quelle donne si sente il respiro e il profumo.
Paolo Araldi fotografo, perché?
I fatti contano poco, il perché sta nel mio essere curioso e nell’attitudine ad osservare. Da ragazzo disegnavo, poi ho messo da parte il disegno, perché la fotografia mi ha permesso di andare oltre, entrando in case private, in luoghi che diversamente mi sarebbero stati inaccessibili.
È un viaggio, sempre e comunque: anche quando faccio un ritratto, sto con la persona, mangio con lei, cerco di conoscerla. Fotografo, per puro caso quando una sera a casa, ho scoperto che mia madre da un venditore porta a porta, mi aveva comprato un corso di fotografia.
Prima non avevo mai visto una macchina fotografica, ma evidentemente c’era qualcosa in me che aspettava di uscire. Così in seguito conoscenti, amici hanno cominciato a chiedermi fotografie, forse perché avevo un modo, di guardare, che piaceva.
La fotografia mi ha appassionato perché mi ha permesso non solo di vedere ma anche di conoscere, perché mentre si scatta si è costretti a chiedere di più, oltrepassando ogni soglia.
La passione per il disegno ha influenzato il tuo modo di fotografare?
La passione per il disegno mi ha assolutamente condizionato nella fotografia, così come la grafica. Ho fatto anche questo di mestiere, che mi ha insegnato tanto, a pulire, a metter le righe dritte. Quando faccio una foto vedo già l’impaginazione e questo vuole dire tanto: per lo spazio, le linee, i vuoti. Credo che sia qualcosa che abbiamo già nel DNA, poi si affina, con studio, disciplina e passione.
Qual è il tuo modo di guardare attraverso l’obiettivo?
La macchina fotografica è l’ultima cosa che frappongo tra me e il soggetto. Solo all’ultimo momento la prendo in mano, perché è l’empatia che fa il lavoro più importante. Devo assimilare, comprendere quello che intendo fotografare. Non sono un fotografo di moda, o pubblicitario, voglio dare grazia e soprattutto non falsare il mio soggetto, non mi piace. Fotografo quello che vedo, voglio rendere omaggio e verità.
Che fotografo sei?
Definirsi è la cosa più terribile, mi piace essere un fotografo di strada che entra anche nelle case, un fotografo occasionale. Il bello per me è seguire la fotografia che è il mio tramite per vedere: senza di lei avrei trovato delle porte chiuse, che invece si sono aperte.
Il mio libro Trasiti, dove venti palermitani nativi o d’adozione mi hanno aperto casa e cuore, racconta le persone, la loro quotidianità. Sono immagini vere, non da rivista, ma pulsanti di vita. Senza la macchina fotografica non avrei avuto la scusa di entrare e avrei ritratto Palermo come un qualunque turista.
L’unico non programmato, il primo, era un “basso”, un piano terra piccolissimo, occupato. Guardai incuriosito uno (con una faccia da avanzo di galera) che stava sulla porta fumando. Attratto, chiesi se potessi entrare a fare qualche fotografia. Lui, dopo avermi squadrato, mi disse: “trasiti”, che significa entra.
Trasiti ha titolato il mio libro e il tizio in seguito, mi ha detto di avermi fatto entrare perché avevo la faccia di una brava persona, mentre io di lui avevo pensato il contrario. Ma è un viaggio vero, anche il ritratto. Si deve incontrare la persona, capirla e la ricerca del fondale giusto, è fondamentale e può diventare un incastro perfetto. Talvolta lo sfondo dice già tanto, tutto, della figura: ad ognuno il suo.
Con la tua fotografia qual è il viaggio?
Quello che ci presenta la vita tutti i giorni, perché da raccontare ce n’è e all’infinito. Talvolta per gustare un viaggio, non porto neanche la macchina, perché se è con me, non sento neanche più gli odori, mi costringe ad usarla. Accumulo per abitudine tante foto, che solo col tempo poi diventano qualcosa di più.
La fotografia singola in sé, per il mio modo di vedere, non ha tanto senso, ma insieme alle altre, diventa molto di più. Per esempio, Wimbledon, per me è impossibile raccontarlo con una solo foto, ma con una serie di gambe, una serie di panchine…si materializza. Ho fatto tanti matrimoni dove andavo come se fossi un ospite, confuso tra la folla e con la libertà di scattare solo quello che mi piaceva.
C’è una fotografia che amo particolarmente e che cerco sempre: quell’attimo di intimità, l’ultimo prima che cambi tutta la sua vita, il momento del matrimonio che preferisco.
Questo fa parte di un lavoro dove racconto la sposa italiana, tutto imperniato sulla vestizione, quel momento così unico e importante, sul quale ho fatto un intero progetto… C’è l’essenza perché è lei il centro di tutto, lei che farà i figli, lei che manderà avanti la famiglia. Tutto il resto conta poco.
Che cosa fa la vera differenza?
Il sentimento, il pathos fanno la differenza. A Wimbledon, per esempio, sono andato per passione; ho sempre seguito il tennis e anche se l’ho scoperto tardi (sorride e dice – sennò, forse, avrei fatto il tennista!) mi appassiona molto. Un gioco dove la mente è in equilibrio con la forza, fantastico!
Ero l’unico fuori dal coro e andavo in direzione contraria ai fotografi sportivi che, ovviamente, fotografavano altro. Io fotografavo loro che fotografavano il tennis. Ad un certo punto, addirittura, andarono a lamentarsi e chiesero anche di buttarmi fuori. Wimbledon è diventato una mostra, che, in barba, a quei “colleghi” mi ha regalato molta soddisfazione.
Wimbledon, Le spose, ma anche “quei posti davanti al mare”, come Camogli e Genova sono i tuoi racconti…
Camogli è il paese nel quale ho trascorso parte della mia gioventù e dove torno sempre con grandissimo piacere. Camogli 1987-2020 rappresenta un modo di guardare alla bellezza della nostra Italia, con occhi diversi. Ho escluso qualunque immagine paesaggistica o illustrativa, dando spazio ai particolari, lasciando che Camogli apparisse in “un tempo senza tempo”.
Genova è la protagonista di un lavoro che verrà e al quale tengo molto: è lì che sono venuto al mondo e anche se l’ho lasciata pochi giorni dopo, quando ci torno, è stupefacente come l’odore del porto, del mare, e quello ancor più forte dei vicoli, mi precipita nel ventre di mia madre. Questo sarà un ritratto e un omaggio a questa città che sento e sentirò per sempre, madre.
Cosa chiedi alla fotografia?
Niente, mi ha già dato tanto. Ho lavorato tutta la vita senza avere il peso del lavoro. La fotografia mi ha dato la libertà di non sentire il senso di oppressione, che tanti provano nel lavorare. Una libertà senza limiti, impagabile. Mi impegna i momenti della vita che altrimenti sarebbero vuoti: io lavoro sempre, anche di notte … è come fare l’uncinetto.
Ciao Paolo, spero di non aver utilizzato “parole stereotipo” legate alla fotografia che non ti appartengono e che so, ti infastidiscono. Nessuna performance, per te ma fotografie sincere, che conservano tutto il profumo, di un’immagine, di un ricordo. Fotografo “occasionale” dici di te, poetico, aggiungo io. Se decidi di fare l’uncinetto invece che progetti fotografici, ci sentiremo tutti un po’ più soli. Buona strada!