La nostra natura di band e di musicisti è strettamente legata al palco e al pubblico
La Monarchia nasce nel 2012 dall’incontro di Giulio Barlucchi, Matteo Frullano e Lapo Nencini. Insieme condividono la sala prove con diversi gruppi della scena valdelsana (Toscana) ed è così che nel tempo, dopo aver sperimentato formazioni diverse, incontrano gli altri membri definitivi della line-up – Gianmatteo Nasca e Lorenzo Falorni.
Nati fra il 1989 e il 1995 sono accomunati dalla passione per la musica con cui sono cresciuti – Weezer, Smashing Pumpkins, The Verve, Blur, Oasis, Pixies: pubblicano il primo album “Parliamo dieci lingue ma non sappiamo dirci addio” nel 2015 e continuano a collaborare con altri artisti della scena indipendente fino da incontrare in una di queste occasioni, Peppe Fortugno e Luca Stignani di Banana Studios e, più tardi, Ioska Versari di Flebo records.
Dalla joint-venture fra i tre produttori e la band nasce “Ossa”, il primo singolo su etichetta Flebo, un sound rinnovato che affonda le radici nella scrittura pop e rimaneggia in chiave moderna il suono alternative con cui la band si è nutrita sin dalla sua formazione. Ci siamo fatti raccontare da loro cosa li ha portati a questo cambio di rotta rappresentato dall’uscita del loro singolo “Ossa”.
Da dove venite, musicalmente parlando? Mi spiego, qual è la musica che vi ha condizionato negli anni precedenti la formazione della band?
Noi tutti siamo cresciuti con l’esigenza di fare musica inedita e frequentando sale prove e centri culturali della Val d’Elsa. Si tratta di un territorio molto piccolo che ci ha permesso inevitabilmente di conoscerci e di suonare insieme.
La forte passione per la musica ci ha subito legato e ha permesso che potessimo passare ore e ore in sala prove e suonare in molti palchi, dal più piccolo al più grande, anche come aperture a artisti più conosciuti.
Credo che la musica che più ci abbia condizionato sia stata quella rock, pop rock degli anni ‘90. Essendo nati in quegli anni, abbiamo assorbito nel periodo più prolifero della nostra vita, l’adolescenza, le sonorità tipiche delle band di quel periodo.
Da “Parliamo dieci lingue ma non sappiamo dirci addio” a oggi, la vostra musica è cambiata. Dal rock che caratterizzava il vostro primo album, il vostro ultimo singolo si è spostato verso l’itpop. Una scelta? Un percorso musicale?
Il nostro primo album è caratterizzato da suoni più duri e più rock, perché i temi trattati nei testi dell’intero disco, parlavano di disagio e di dolore. Crescendo abbiamo imparato a parlare di cose più intime e difficili anche da esporre.
Temi come rimpianti, amore, consapevolezza e rinascita. I nostri pezzi adesso sono una sorta di esame interiore per cogliere lati più quotidiani, ma non meno importati rispetto agli altri, della nostra vita.
Inevitabilmente anche la sonorità dei nostri brani ha preso questo filone. Una scelta dovuta all’esigenza di far uscire qualcosa di più intimo ma anche per essere più diretti verso chi ci ascolta.
“Ossa” suona molto anni ’90, anche se è evidente il lavoro di riattualizzazione delle sonorità che mantiene, però, le chitarre che già avevano caratterizzato i vostri precedenti lavori. Da dove deriva questa passione per la musica degli anni ’90?
Crescendo negli anni 90, abbiamo subito preso confidenza e fatta propria tutta quella musica che abbondava di chitarre distorte e band che masticavano le sale prova e i palchi come pane quotidiano.
Ognuno di noi ha delle preferenze personali sugli ascolti musicali ma credo che possiamo trovarci d’accordo sul dire che gruppi come Radiohead, Blur, Oasis, Weezer, Smashing Pumpkins ci abbiano influenzato notevolmente nella nostra crescita musicale.
Sempre proposito di “Ossa”, come nasce il testo di questo brano?
Il brano parla di un rapporto conflittuale che noi tutti abbiamo con il vivere in una città che non è così grande da essere chiamata metropoli, ma neanche così piccola per essere chiamata paesello.
Viviamo esattamente in mezzo fra due grandi città in un paese che si potrebbe definire di passaggio. La nostra adolescenza, i nostri sogni e le nostre esigenze si sono sviluppate in questo clima di provincialismo, che spesso ha soffocato le nostre ambizioni in questa sorta di benessere apatico e tranquillità.
Per noi è stato fondamentale viaggiare e stabilirsi in una realtà nuova come la grande città, con tutte le sue possibilità e i suoi orizzonti infiniti. Viaggiare spesso aiuta a capire e apprezzare ciò che hai lasciato alla partenza.
Da questa esperienza abbiamo iniziato ad apprezzare gli aspetti positivi della vita di provincia e in questo limbo tra amore e oppressione nasce il testo di Ossa.
La canzone può anche essere interpretata come un rapporto tra due persone che si amano e che hanno bisogno di un cambiamento forte per far sì che l’amore continui come prima. “Ma è tempo di partire è tempo di rischiare, un cambiamento serve perché tutto resti uguale”.
Come funziona la fase creativa all’interno de “La Monarchia”?
Ogni brano parte da una bozza di Giulio che porta alla band un’idea melodica del pezzo. Dopodiché il brano passa da una fase delicata di sala prova dove viene suonato e risuonato per arrivare ad avere un’identità.
Molto importante è che ognuno di noi dà il suo contributo musicale carico di gusti e ascolti differenti. Per noi, il processo creativo di una canzone è legato a una percezione di come il brano deve suonare in un eventuale live.
Questo perché che la nostra natura di band e di musicisti è strettamente legata al palco e al pubblico.
Quali sono i progetti che seguono “Ossa”, avete in cantiere un nuovo album?
Abbiamo in cantiere altre canzoni e stiamo lavorando per far uscire nuovo materiale che comporrà un album. Il progetto è ambizioso e noi siamo contenti di come il brano Ossa stia interessando molta gente.
Certamente lavoreremo molto per far sì che ci siano altri brani come questo. Se il periodo, che purtroppo ha penalizzato molto la musica, lo permetterà, vorremmo ricominciare a suonare live per il pubblico ma anche per noi.
Continuerete su questa nuova rotta musicale?
Noi siamo felici della rotta che abbiamo preso e continueremo a seguire queste sonorità ma con la promessa di non essere mai scontati e banali. È un lavoro enorme, lo sappiamo, ma ci riusciremo.
Se poteste scegliere un artista, non necessariamente italiano, per una feat in uno dei vostri brani, a chi vorreste telefonare per chiederglielo?
Il metodo di scrittura e di composizione di Thom Yorke ci ha sempre ispirato molto. Crediamo che una collaborazione con lui si potrebbe trasformare in un’esperienza incredibile. Una cosa è certa, ci sentiremmo molto onorati e probabilmente anche in soggezione. Chissà che, prima o poi, non succeda?
Una battuta, sull’ultimo festival di Sanremo. Soddisfatti del podio? Avreste messo qualcun altro artista nelle prime tre posizioni?
Siamo molto contenti della piega che la musica italiana sta prendendo. Con la vittoria del rock ci auguriamo che in Italia si dia più spazio alle chitarre. Per noi un’artista che meritava un posticino nel podio era Coma cose. Davvero una bella canzone la loro “Fiamme negli occhi”.
Una curiosità… dove avete trovato l’alpaca della foto?
Lui è Ivano e ormai fa parte della band. Lo abbiamo trovato con una bella dose di casualità, mentre facevamo lo shooting fotografico nella stanza che si vede in foto.
La proprietaria della fattoria, che approfittiamo per ringraziare ancora qui, ci ha mostrato questo stupendo esemplare di alpaca. È stato amore a prima vista.
Articolo a cura di Roberto Greco