Musica361 incontra Giulio Wilson che ha rilasciato un’intervista in svela il suo passato, il suo presente ed anche i suoi progetti futuri.
La musica ha il potere di trasportare chi la ascolta in qualsiasi luogo e dimensione; quella di Giulio Wilson conduce nel mondo rurale, in aperta campagna. Una fusione di atmosfere country, sonorità internazionali e melodie italiane, caratterizzano Soli nel Midwest, il suo primo album da solista, pubblicato il 4 novembre 2016.
Partiamo dal principio. Come ti sei avvicinato alla musica?
Ho sempre suonato, suono da quando ero piccolo; mia madre mi iscrisse al primo corso di pianoforte quando avevo 5 anni e poi da lì ho avuto le mie prime esperienze: ho avuto dei gruppi, ho suonato anche in diverse band di strada, però sono sempre rimasto in seconda fila, non mi ero prefisso di andare a fare un lavoro da solista. Mi è capitata questa bellissima occasione all’età di 33 anni, ho potuto acquisire una certa maturità artistica e quindi ho deciso di mettermi in gioco personalmente.
E la passione per il genere country da dove deriva?
Io non mi sono mai precluso nulla dal punto di vista musicale: ascolto dalla musica classica alla musica dance, non faccio differenze. Sono sempre stato attratto dalle sonorità “nate dal basso”, a partire dalle canzoni popolari per arrivare anche al blues, a queste sensazioni anche di sofferenza, di canzoni nate anche da una componente rurale. Il country è una musica che un po’ rappresenta la mia vita: io sono nato in campagna, mio padre tuttora lavora la terra; nonostante non sia una musica italiana, identifica comunque un mondo ed ha tantissime similitudini con le musiche popolari, ci sono gli stessi accordi, hanno un linguaggio comune. L’Italia non è estranea a questo genere: basti pensare ai film di Sergio Leone; 40 anni fa Ennio Morricone usava già queste chitarre, quindi non è una cosa nuova per noi italiani, semplicemente noi tendiamo ad utilizzare molti strumenti melodici ed infatti le nostre produzioni sono riconoscibili anche all’estero, quindi quando qualcuno ha una visione un po’ “più internazionale” viene preso come un pazzo, ma in realtà non è così. Onestamente abbiamo un po’ osato, ad esempio abbiamo unito la chitarra resofonica al pianoforte, abbiamo fatto cose un po’ azzardate, ma penso che il risultato sia abbastanza originale.
Nel 2010 ti sei trasferito in America. Cosa porti con te di quell’esperienza? Ha influenzato la tua musica?
Tantissimo. Noi italiani siamo spesso, permettimi, un po’ “provincialotti”.
Lì forse hanno una visione più “ampia”, ci sono più influenze musicali.
Sì, c’è più contaminazione e c’è il fulcro della musica blues, soul, jazz e tutte le derivazioni. Negli anni ’60 tutte le hit italiane erano rivisitazioni di musiche americane, abbiamo sempre l’occhio puntato lì. Loro dal punto di vista musicale sono incredibili. Quando sono stato a New York mi si è davvero aperto un mondo: mi sono specializzato nel jazz, ho fatto cose diverse che però hanno la stessa radice, ho imparato ad improvvisare, mi hanno affascinato certe sonorità.
Alla luce di ciò, hai mai pensato di restarci e di intraprendere lì la tua carriera artistica?
In realtà no, perché io sono affezionato all’Italia e ci sto bene. E poi ritengo che l’Italia abbia una risorsa incredibile, che è la melodia, l’essere melodici, che non è uno svantaggio, anzi, è assolutamente un vantaggio. L’unica cosa è che spesso ci chiudiamo un po’ a riccio rispetto alle tendenze internazionali. Io ho cercato invece di avere una visione più larga possibile: la contaminazione per me è un valore aggiunto, non è un difetto.
Passiamo all’album Soli nel Midwest. Come lo definiresti?
Se dovessi usare tre parole, direi: solare, frizzante, ma anche profondo.
Io l’ho ascoltato più volte e l’ho trovato molto riflessivo e ricco di sentimenti e di speranza. È questo che volevi trasmettere?
Sì, io a volte mi arrabbio quando sento che in Italia c’è molta sfiducia; siamo in un momento di confusione, dove la gente è in balia di se stessa e delle idee, non si sa bene che direzione prendere, magari nei social senti tanta cattiveria, tanta sfiducia nelle istituzioni, nella politica, in tutto. Ed io invece penso che bisognerebbe iniziare a cambiare atteggiamento e quindi penso che la “propositività”, cioè l’essere positivo ed il proporre anziché criticare, sia la strada giusta ed anche nella mia musica non perdo mai la speranza; se qualcosa non mi piace e non mi va bene non mi arrabbio, preferisco dire “Cerchiamo di costruire una cosa migliore e di capire come fare ad essere migliori, piuttosto che urlare”
Quindi è un album autobiografico?
In realtà sì. Non ho mai voluto scoprirmi del tutto al 100%, nel senso che non ho mai voluto fare dei riferimenti personali precisi, però in realtà se lo si ascolta bene si comprendono.
Qual è la canzone a cui sei più legato? Perché?
Personalmente a Vivo, perché, nonostante parli fondamentalmente di un disagio o comunque di un qualcosa che è finito, è un brano di speranza. Io dico “Vivo per riderci un po’, per stupirmi un po’”: tutto si può fare, tutto si può ottenere, basta volerlo; tutto può essere realizzabile, basta tirarsi su le maniche e, se anche dovesse esserci una difficoltà da affrontare, si può cadere ma ci si può anche rialzare.
Hey Jack è il primo singolo estratto, che parla del viaggio alla ricerca di se stessi. Come nasce? Qualcosa ti ha ispirato?
Io ritengo che la vita sia un lungo viaggio, è come se fossimo in treno; su questo treno salgono delle persone che condividono il viaggio con noi, altre scendono magari quando meno ce lo aspettiamo, ma la speranza è che il viaggio possa non finire mai. Anche se dovessimo scendervi possiamo comunque lasciare un’eredità umana, un ricordo, un sorriso ad altre persone e quindi continuare questo percorso. Forse è un po’ un’utopia, ma l’uomo vive anche di questo.
Dove corre il tempo è un brano scritto e cantato con Bobby Solo. Com’è iniziata la vostra collaborazione?
È nata molto casualmente, con un’e-mail: io gli ho mandato dei miei provini e lui il giorno dopo mi ha subito chiamato. Ho subito colpito il suo interesse perché entrambi siamo due persone con una certa sensibilità e lo stesso modo di interpretare la musica. La registrazione del brano è stata molto naturale, senza tecnogogia, in presa diretta.
Quali sono le tue influenza musicali?
I più grandi. Da Bruce Sprigsteen a De Gregori e Guccini. Non ce n’è uno in particolare, sono vari. Anche nell’album ci sono diverse idee musicali.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Ci sarà un tour?
Il 14 novembre partirà un tour nelle università: a Torino, Milano, Bologna, Siena, Roma, Napoli. Ci sarà in tour in estate, quelli sono i più divertenti. Non so se da febbraio ne partirà anche uno nei club.
Articolo di Anna Gaia Cavallo